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New York e Mies van Der Rohe Quest'ultima estate, a più di trent’anni dall’interessante esperienza del Seagram Building, sono state allestite due mostre su Mies van der Rohe a New York, una al MOMA e l’altra al Whitney Museum of American Art. Si è già parlato molto del contenuto delle due esposizioni: in questo scritto, quindi, vogliamo provare a contestualizzarle sullo sfondo edificato di questa intensa città che oggi, dopo l’attentato alle due torri gemelle, si ritrova al centro di rinnovata attenzione. Proviamo a seguire la storia del grande maestro tedesco fino alla vicenda del suo progetto per il Seagram, cercando anche di descrivere il contesto newyorkese, così particolare, nel quale si collocano sia questo intervento che le due mostre su Mies. Eravamo nella bella metropoli americana nei giorni prima e dopo l’11 settembre, di ritorno da un viaggio nel resto degli Stati Uniti. Rientrare a New York dopo aver attraversato il paese ci è sembrato tornare nella "città": dopo la "dilatazione" riscontrata nei territori visti ed anche negli altri centri - dilatazione edilizia, materica, sociale, culturale - New York ci comunicava la sensazione di un luogo forte di "urbanità", diverso dalle Down town e dalle periferie di tante altre città degli USA, e dove si sentiva, rispetto ad esse, una più intensa evoluzione storica, l’alternanza di tanti interventi che negli ultimi secoli hanno accostato modi diversi di intendere l’architettura degli (alti) edifici e il modo di relazionarsi con la città, e tra questi, come vedremo, quello di Mies. New York ci appariva come una delle grandi, dense città del mondo, con un suo fascino seduttivo, piena di promesse metropolitane, di scenari urbani pregni di carattere, con la sua storia dell’isola di Manhattan acquistata per pochi dollari dagli olandesi presso gli indiani, le radici inglesi, Little Italy, Chinatown, l’espansione a scacchiera, l'Harlem nero, il Bronx ispanico. New York era, per noi, il luogo della concentrazione abitativa, di una società metropolitana dai comportamenti complessi, forse tipica del nord-est statunitense. Con i più grandi musei dell'emisfero ovest, era il cuore della cultura, il luogo dove negli ultimi decenni accadevano le cose, non solo made in USA, ma del mondo, come e forse più di altre grandi città. Tra tante scelte, abbiamo visitato le collezioni permanenti di alcuni musei, varie esposizioni nelle gallerie d’arte di Soho, la mostra su F.O.Gehry al Guggenheim Museum, la mostra "Migrations" di Sebastiao Salgado all’International Center of Photography e, ovviamente, le due mostre su Mies van der Rohe, prima citate. È di queste ultime che vogliamo parlare e, attraverso esse, dei valori e dei contenuti che questa città viva e pulsante propone nel campo della cultura architettonica contemporanea. Lasciamo per il momento il contesto newyorkese per ritrovarlo dopo, e proviamo a seguire le tappe principali di questo piccolo viaggio nell’architettura dell'architetto tedesco. Le domande chiave della nostra lettura di queste due esposizioni sono: che senso ha oggi riproporre lo stile severo, la ricerca rigorosa dell’architetto tedesco? Cosa c’è di attuale nel suo approccio al progetto? Quali tendenze odierne possono trovare le proprie origini, riscoprirsi nella ricerca di Mies van der Rohe? Non è il caso di dilungarci sul materiale esposto, per cui esistono i cataloghi, ma, per abbozzare qualche risposta, occorre almeno citare i passaggi più significativi. Il "viaggio" comincia dalle prime opere dell'architetto, nella Germania di inizio '900. Nella parte iniziale della mostra "Mies in Berlin" al MOMA, sono esposti alcuni suoi bozzetti: prospettive a matita dura e acquerellate come gouache, ancora di sapore ottocentesco. Era l’architettura degli ordini prestabiliti, delle volte a botte, degli arconi, degli scaloni e atri monumentali, delle finestre classiche, ecc. Anche Le Corbusier era passato attraverso simili esperienze giovanili, si veda il suo edificio a La Chaux-de-Fond, in Svizzera, e lo stesso dicasi per alcuni progetti iniziali di Prairies Houses di F. L. Wright. Mies, come i suoi quasi coetanei colleghi, inizia una ricerca personale in cui si libera gradualmente dal vincolo degli stili eclettici e si concentra sulla plasticità della forma, su altri modi di far entrare la luce, sull'uso dei nuovi materiali, come il cemento, il ferro, il vetro. In un primo periodo il cammino è lento: dal 1907 fino alla prima guerra mondiale, disegna ville di campagna un po' "prussiane" per banchieri, ingegneri, avvocati. Ma è evidente la sua volontà di "togliere", il processo continuo – che porterà avanti per tutta la vita - di "riduzione all’essenziale" (che non vuol dire sempre "al minimo" in senso fisico, come interpreta l’exsistenz-minimum) facendo uscire euritmia e ordine oltre la superficie decorata (che scompare a poco a poco con il susseguirsi dei progetti). Dopo la guerra Ludwig Mies aggiunge van der Rohe (cognome del padre più quello della madre) con un nobile "van": è l’architetto delle residenze ispirate alla classicità dell’alta borghesia nei sobborghi di Berlino, al punto che nel 1919 W. Gropius respinge il progetto della Villa Kröller-Müller, a Wassenaar, Olanda, per la mostra su architetti non noti, perché conservativo. Nel 1915 si trasferisce in centro, in Am Karlsbad 24 e, quando si separa dalla moglie, lui porta il letto in bagno per lasciare tutto l’appartamento allo studio, che diviene luogo d’incontro per dibattiti, gruppi d’avanguardia, artisti (la rivista "G", Novembergruppe, "Ring", ecc.). In quel periodo si trasforma in progettista "urbano", interessato al cambiamento di Berlino e si sperimenta con nuove tecniche e nuovi materiali come, ad esempio, nei progetti per grattacieli. Quello in Friederichstrasse, Berlin-Mitte, del 1921, è per uno dei primi concorsi di grattacieli in Germania: nessuna cosa nel precedente lavoro di Mies è riferibile e questa stella a tre punte di vetro e acciaio: egli dice di essere stato colpito dallo scheletro dei grattacieli in costruzione e dalla possibilità del vetro di mostrare ciò. Spinge questa sperimentazione nel progetto per un grattacielo in vetro del 1922, dove arriva a proporre forme curvilinee, "amebiche", e le spiega dicendo che, lavorando sui modelli, si scopre l’importanza che ha per il vetro la riflessione e non l’effetto della luce e dell’ombra come in un edificio ordinario; quindi non pone le superfici vetrate ad angolo tra loro, ma in una linea sinuosa continua. È interessante anche la maniera sperimentale di procedere in questo lavoro, dove prova a capire le potenzialità compositive del nuovo materiale con varie foto per studi di riflessione sul modello, in diverse condizioni di luce! È del 1923 il progetto per una casa di campagna in cemento. Disegnato con pastelli a cera, esposto al "Grosse Berliner Kunstausstellung", diviene emblema dei principi compositivi del movimento moderno: piani a diversa altezza, pochi gradini e piccole scale, geometrie rettilinee, tetto piano, muri in cemento e aperture non schematiche. A proposito di queste ultime, Mies scrive nel 1923 in "G": "io ho tagliato le aperture nei muri ovunque mi occorrevano per viste sull’esterno e l’illuminazione degli spazi (…)". Sono innegabili l’influenza di F. L. Wright nella disarticolazione degli ambienti e nel gioco di piani nello spazio, ma anche la coerente evoluzione dei suoi primi progetti. A cosa è dovuta questa "rigenerazione" dell’architettura di Mies, rispetto alla fase giovanile? Ad episodi della vita privata, a sviluppi ideologici e politici, al rinnovato interesse per la città, ed anche all’esperienza maturata intorno ad una nuova rivista. Negli anni ’20 Mies vede la "First International Dada Fair", poi conosce Theo van Doesburg e Hans Richter, le cui opere e ricerche introducono l’architetto al nuovo linguaggio artistico (tempo, movimento e ritmo come base di tutte le arti per una "musicalità visiva"). È anche su queste premesse che si fonda la rivista "G", intorno a cui cominciano a ruotare, tra gli altri, Hans Harp, Tristan Tzara, Ludwig Hilberseimer, lo stesso T. V. Doesburg, El Lissistzky, Walter Benjamin, Naum Gabo, George Grosz, Man Ray, Antoine Pevsner. Vi erano pubblicati dipinti di Piet Mondrian, poesie di Kurt Schwitters, sculture di Costantin Brancusi, film di Fernand Lèger e operato di altri, anche ingegneri, per dissolvere la bandiera tra tecnologia, nuovi media e società di massa. Il sottotitolo della rivista era "Material zur elementaren Gestaltung", che dichiara le derivazioni gestaltiche dei contenuti. "G" abbracciava Dadaisti, Neo-plasticisti, Costruttivisti e Surrealisti in una campagna pan-europea, interdisciplinare, per una nuova "elementare" (cioè fatta di elementi) cultura, basata sulla modernizzazione, sulla metropoli contemporanea, su una biotecnica e biocentrica visuale del mondo, sugli aspetti scientifici e costruttivi, sul ponte tra natura e tecnologia. Mies contribuì molto al giornale di Richter, in parte prodotto nel suo studio (sei numeri tra il 1923 e ‘26). In questo movimento internazionale - soprattutto mitteleuropeo – le varie personalità artistiche assorbono i progressi tecnologici e forgiano nuovi linguaggi esprimenti nuovi contenuti della cultura di massa. E’ la cultura delle città che stanno diventando le moderne metropoli, ed è ancorata, nel fare dell’arte, all’inventiva, alla creatività, alla sperimentazione formale basate sulla Gestaltung e cioè alle ricerche sulla percezione che già da qualche decennio si stavano sviluppando soprattutto in Germania. È sicuramente questo uno dei filoni ancora molto vivi, in Europa e nel mondo occidentale – basti pensare ai film di Wim Wenders, agli edifici di Wiel Arets, Neutelings Riedijk, MVRDV, agli artisti raccolti nella collezione Panza, ecc., fondato su principi e valori, indagati solo in parte, sviluppabili ancora per anni di ricerca artistica e architettonica. Sorge una domanda: in che modo specifico la teoria della Gestaltung influenza le opere di Mies? Quanto e in che parte c’è di questa derivazione nella ricerca formale, nel ritmo, nell’ordine dell’architetto? Una risposta esaustiva richiederebbe molti studi e molte pagine, ma una direzione di ricerca potrebbe mettere in relazione la continua riduzione all’essenziale che fa Mies e la teoria di R. Arnheim riguardo alle configurazioni significanti sottese all’immagine delle cose, come struttura essenziale di esse. Nel 1924 Mies elabora un progetto per una casa in mattoni a Potsdam: mentre Wright si libera dei rimasugli ottocenteschi forse solo con Falligwater house nel 1935, Mies "esplode" letteralmente ed in modo ordinato il blocco pesante delle sue case "prussiane" di campagna e fa un progetto modernissimo, sulla scia di un dipinto del 1918 di T. V. Doesburg: "Ritmo di una danza russa". Con la sua alternanza di setti e vetrate, pieni e vuoti, piani e trasparenze, volumi e rientranze, in un succedersi dinamico e ritmato, come una cascata di colori e suoni geometrici, spaziali, questo progetto può considerarsi il corrispondente rivelato da Mies in architettura della "musica visuale" di cui teorizzava T. V. Doesburg? Altre opere si susseguono: il piano di urbanizzazione Wussenhof, il famoso Padiglione tedesco del 1928-29 per l’Esposizione Internazionale di Barcellona, casa Tugendhat a Brno, nella Repubblica Ceca, del 1926-30, dove Mies smaterializza ancora di più i volumi e i piani, inglobando l’esterno nell’interno con varie terrazze e, con lo stesso gioco semplice, assoluto, vero e classico, puro e un po’ monumentale, del padiglione di Barcellona (anche nell’uso di materiali come il marmo, il velluto, la pelle, i vetri acidati, i "muri illuminati", la radica) si libera completamente e con vitalità dalla impostazione bloccata dei suoi primi progetti. Nel 1933 Hitler è eletto cancelliere della nazione, il partito Nazionalsocialista al potere non gradisce l’architettura moderna per gli edifici statali: per Mies è il declino professionale. Nel 1937 egli fa un primo viaggio negli Stati Uniti, dove accetta di insegnare all’Armour Institute (ora Illinois Institute of technology). Rientra a Berlino per prendere le sue cose e nell’agosto del 1938 torna in America per restarvi fino all’ottobre 1964. All’ingresso della seconda mostra, "Mies in America", al Whitney Museum of American Art, è posta in grandi lettere una frase del maestro tedesco del 1955, quasi una chiave di lettura di quanto esposto: "io non sto solo lavorando sull’architettura, io sto lavorando sull’architettura come un linguaggio, e penso che si debba avere una grammatica per avere un linguaggio. Lo si può usare per proposte formali, ed allora si parla in prosa. Se si è bravi in questo, allora si può parlare una meravigliosa prosa. Se poi si è veramente bravi, allora si può essere un poeta". Mies emigra in America quando è al massimo della sua maturità professionale e artistica. Fa ulteriori esperienze dove concilia il pragmatismo americano con ispirazione trascendente e arriva alla "difficile arte del semplice". Quando torna stabilmente a Chicago nel ’38 porta con se la sua biblioteca e la sua collezione d’arte d’avanguardia. Gli viene commissionato il progetto per il campus dell’Illinois Institute of Tecnology (ITT): fa centinaia di schizzi, passa da uno schema simmetrico ad uno più aperto, prova forme industriali e tecnologiche e un linguaggio basato su struttura e spazio. Elabora due piani in cui usa per la prima volta la griglia su modulo quadrato di 24 piedi (lo influenza la griglia stradale di Chicago?) e diventa subito un suo metodo fondamentale per stabilire ordine, sia per il singolo che per più edifici, passando, così, da una dimensione progettuale "umana" ad una "teorica", cartesiana. Lo schizzo è il suo modo di pensare, dalle viste d’insieme fino ai particolari. Tra i vari edifici del Campus, in quello della Biblioteca e dell’Amministrazione per la prima volta Mies propone un grande spazio per la Hall: è uno spazio universale, che si ripresenta nei suoi successivi progetti (la Crown Hall; il progetto per una casa 50x50, la Chicago Convention Hall e la Neue Nationalgalerie a Berlino). Ma il caso, forse, più significativo, è casa Farnsworth, concepita nel ’45 e completata nel ’51, che realizza quest’idea di spazio universale nella realtà di una struttura in acciaio: è uno spazio senza massa, né protezione, la struttura è esterna, i gradini sono piani compositivi; le forme interne umane "proseguono" fuori nel contesto naturale e, viceversa, la natura è portata dentro; il limite della casa, pelle sottilissima, luce, è quasi solo mentale, è quasi impercettibile; tra la base (stilobate) e il tetto c’è sospensione: intervallo di spazio universale, l’essenza della casa! Mies cerca la "qualità" dello spazio, una sua specifica identità assoluta, cristallizzata, eterea, ritmica, una danza congelata, pura essenza di spazio, indifferente alla funzione (gli concede il minimo), fatta di riflessi, trasparenze, scorrere delle stagioni. Egli, a proposito di questo progetto, dice: "semplicità di costruzione, chiarezza dei significati tettonici e purezza del materiale saranno elementi della nuova estetica". Di più, qui l’architettura assurge ad espressione spirituale del suo tempo. Nel progetto di un Museo per una piccola città, del 1942-43, questa invenzione architettonica dello spazio universale si concretizza in un edificio di un solo livello, con un tetto che copre varie forme. Un’altra "trovata" è sperimentata per la prima volta nel ristorante Cantor Drive-In del ’46-’47, a Indianapolis: le grandi travi della copertura sono portate all’esterno. Nel 1967 torna a Berlino, per progettare la Neue Nationalgalerie. Si potrebbe dire che sostanzialmente si tratta dello stesso spazio di casa, ma in Europa, altri riferimenti si accavallano: il tempio greco, con il suo spazio sacro e assoluto, il suo stilobate, il portico, la griglia del tetto, con due colonne per ogni lato, il "cassettonato" interno formato dalla trama delle enormi travi esterne. Mentre in casa Farnsnworth il rapporto interno-esterno era con la natura, qui è lo spazio urbano che entra. È di una simile, particolare qualità lo spazio che progetta, nel 1959 a Chicago, per il Federal Center, USA Courthouse, ora edificio dell’Everett Meckinley Diviksen, per cui propone un’interessante relazione tra pieni e vuoti a scala architettonico-urbanistica: coinvolgendo anche il lato adiacente del lotto a fianco, Mies disegna due alti parallelepipedi posti in senso ortogonale ed intervallati dall’ampiezza della strada e, nell’angolo opposto, pone un parallelepipedo basso e largo, dalle stesse fatture esterne: vetrato, struttura e infissi di colore scuro, ecc. Se, a scala architettonica, il tetto sostenuto dalle travi reticolari all’esterno copre e contiene le forme dello spazio universale interno, forse qui si può parlare di spazio universale urbano, cioè lo stesso spazio dei progetti prima menzionati, solo portato all’esterno, sotto la "copertura" del cielo, dove l’architetto-demiurgo ordina forme primarie di una città "ideale" (nel senso di idea "innata" di città) che ingloba la volta celeste nel progetto. L’insieme, che pure può ipotizzarsi astratto da una certa composizione urbana degli edifici pubblici della classicità, rimanda direttamente all’intervento pensato per New York. La maglia regolare di Manhattan è disegnata sostanzialmente su uno schema di lotti rettangolari chiusi, con alcune peculiarità, ad incominciare dal Central Park, che si apre nel cuore di questa scacchiera, rafforzandone il senso: solo Broadway la taglia in diagonale, generando vari episodi urbani interessanti, tra cui il più noto è Times Square. La scacchiera si arresta, più o meno, a Houston street, al di sotto della quale si sviluppano i quartieri preesistenti: Soho, Little Italy, Nolita, il quartiere finanziario con Wall street e quello ad ovest del World Trade Center con le due torri gemelle abbattute l'11 settembre del 2001, ecc. Generalmente il lotto di proprietà privata veniva completamente occupato dagli edifici, con corti di servizio interne, allo scopo di ottimizzare l’investimento economico, entrando in relazione con la città in modo schematico e "povero", cioè allineandosi sui fronti esterni del rettangolo di terreno e generando prevedibili e uguali rue coloirs, per dirla con Le Corbusier. Mies, invece, per il progetto del Seagram, coinvolge lo spazio cittadino e propone una relazione tra pieno e vuoto a scala urbana nuova per New York: nel progetto iniziale, similmente all’intervento di Chicago, pone in rapporto un edificio-parallelepipedo alto ed uno basso e largo antistante; realizza, poi, solo il "building" oggi visibile, che si arretra per dar luogo ad una piazza pubblica e dimensionare un vuoto a cui rapportare il pieno, per individuare una dilatazione all'interno delle "strade corridoio", il cui valore va compreso nella rottura della relazione solita tra edificio e strada, e con la proposta - più volte ripresa in seguito nelle città statunitensi - di una nuova connessione, carica di potenzialità, tra costruito (privato) e spazio (di accesso pubblico) antistante, innovativa nello scenario "storico" di Manhattan. Urbanistica e architettura qui trovano non il limite di separazione, ma il nodo in cui convergono ambedue in un intervento progettuale totalitario. Si può, quindi, parlare di "architettura urbana" per questo edificio un po’ gotico, dai rivestimenti in bronzo e dai perfetti dettagli; altra espressione, nell’insieme con il vuoto della piazza, di quello spazio universale urbano di cui si è precedentemente parlato. Abbiamo già menzionato l’influenza delle teorie gestaltiche nel processo di percezione sensoriale e di creazione formale nell'opera di Mies, e l'attualità di questo approccio. Un altro aspetto, a cui finora abbiamo solo accennato, è importante per comprendere la modernità del pensiero di Mies. "Il più è il meno", il continuo togliere, il ridurre all’essenziale sono antecedenti "occidentali", non derivanti direttamente dall’influenza orientale (se non attraverso l’elaborazione dello stesso Mies) del minimalismo, che oggi sembra porsi come ultima evoluzione, in ordine di tempo, della corrente razionalista e improntare molte opere di una certa architettura spagnola, portoghese, svizzera, nordica, per tacere, ovviamente, di quella giapponese. Mies ne sembra una sorte di precursore, ma il suo ordine geometrico, l’assolutezza di uno spazio teso tra l’industriale e il mistico, la cura quasi maniacale dei particolari (nei quali, a sentire l’architetto tedesco, si rivela Dio!) vanno al di là, in una visione più complessa dell’uomo e del mondo. È difficile ridurre ad una sola corrente l’influenza del grande maestro. D’altra parte non si è riusciti ad approfondire molti aspetti della sua opera e della sua attività, che pure sono potenzialmente carichi di contenuti molto attuali: occorrerebbe parlare della sua esperienza nel Novembergruppe, della sintesi lì cercata tra produzione industriale ed arte, della nascita del design, approfondire la sua relazione con le avanguardie storiche, in particolare Dada e Neoplasticismo, e la conseguente scomposizione dei volumi anche in rapporto alle tendenze progettuali attuali, annotare la successiva esperienza a capo del Bauhaus, anch’essa intrisa di valori ideologici, pan-europei, interdisciplinari tra arte e tecnica, rivolti verso la modernizzazione, la cultura di massa, il mondo metropolitano. Le peculiarità citate sono tutt'ora vive, evolute nei vari aspetti della globalizzazione, dell'architettura e della cultura post-moderne, planetarie, i cui luoghi di germinazione sono sempre le città, quelle del terzo millennio. La brevità di questo scritto ci ricorda che era nostro compito appena accennare a qualche passaggio importante del lavoro di Mies van der Rohe, provando a mettere in luce l'attualità del suo approccio, e parlare dell’esperienza progettuale da lui vissuta a New York, la bella città del mondo che, con queste due esposizioni, ha reso omaggio al grande architetto del secolo scorso. |