Verso la laguna, il miraggio
di Flavio Arensi
Accostarsi all’opera di Giuseppe Zigaina significa far fronte ad alcuni problemi linguistici complessi, partecipi di un impianto teorico impostato sull’uso multifunzionale dell’immagine e del suo apparato espressivo. Ci si è abituati, nel corso degli ultimi decenni, ad una lettura distorta del “prodotto” artistico, ed in particolare dei risultati di buona parte delle correnti d’avanguardia che scambiano il nesso fra mitologia e fantasia, abusando del mandato simbolico o metaforico pur senza riempirlo di senso profondo, che significherebbe oltrepassare il contesto quotidiano per entrare nella verità. Ho sempre ritenuto difficoltoso poter seriamente distinguere - nell’atto pratico - fra simbolo e segno, nelle loro accezioni junghiane, salvo
poi intendere che l’archetipo di base è il baratro ineffabile cui ci si deve abbandonare senza riserve, il luogo tremendo che Giacobbe chiama betel, la casa di Dio, oppure quel laddove sopra cui Dante cade come corpo morto cade in circostanze salienti, lasciando al silenzio il commento definitivo. D’altra parte, una mente illuminata come Ludwig Wittgenstein conclude il suo Tractatus
non a caso con una affermazione che vale l’intero libro1: «su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»; e qui mi pare egli apra una premessa formidabile per ricondurre l’indagine intellettiva nel campo dell’esperienza e dunque al tentativo di rendere il mistero una pratica di esercizio personale (e collettivo). Il fatto che Zigaina abbia decriptato il
complesso codice pasoliniano, aprendone con rispetto il forziere segreto, ha permesso anche alla sua pittura di rivelarsi, di rendersi chiara, passando dal livello espressivo inconscio a quello conscio. Poche altre intuizioni, e penso a Schwaller de Lubicz,
Fulcanelli (non a caso due alchimisti) e José Arguelles, hanno dischiuso saperi ermeticamente protetti (rispettivamente quello egizio, delle cattedrali, del calendario Maya), ma soltanto nel caso di Pasolini l’intervento di un osservatore esterno alla vicenda ricopre un ruolo tanto importante, anzi direi fondamentale e imprescindibile. In questa linea di pensiero - e ci si potrebbe aiutare con l’indagine idealista introdotta dai fisici quantistici negli anni Trenta - si ammette che in se stessa la presa di coscienza da parte di un
osservatore agisca sulla realtà organizzata, e che senza il suo apporto il processo alchemico ideato non si possa ritenere affatto compiuto. Molta arte contemporanea richiede allo spettatore un ruolo attivo, tuttavia, l’ufficio che Pasolini affida a Zigaina - in maniera niente affatto nascosta - è senza dubbio funzionale ed accade con una metodologia epistemologica che mira, nel suo
complesso, ad avvicinare l'arte al mito; in termini specialistici, la
funzionalità in un dato sistema linguistico o di un elemento lessicale (ad es. articoli, preposizioni e congiunzioni) senza un significato autonomo compiuto, svolge un ruolo di collegamento all’interno della frase in cui è inserito. Di fatto, lo scrittore e regista friulano elabora e ricorre ad una liturgia antichissima, lasciando a Zigaina l’incarico di leggere il messale e - riconoscendo il gesto liturgico - farlo rivivere ad aeternum. Si potrebbe azzardare che un secondo tentativo di Pasolini sia d’offrire all’amico il pretesto per eludere i confini iconici della pittura trasbordando nel campo della parola; lo stesso Zigaina d’altronde rileva in più occasioni la vicinanza
simbolica dello “stilo” che utilizza per l’incisione e lo “stilo” romano comodo alla scrittura su tavola, o lo “stilo” pugnale. Questo trapasso, in effetti, è accaduto più volte e risponde semplicemente alla necessità dell’artista di esprimersi contestualmente in più direzioni, senza l’obbligo di lavorare a
compartimenti stagni. Ancora una volta mi pare utile mutuare dalla scienza quantistica una teoria comoda a spiegare l’opera del maestro di Cervignano del Friuli; David Bohm ha dimostrato che le teorie a parametri nascosti sono possibili, e così enuclea la certezza di come la sola realtà ultima sia la corrente indivisibile del movimento universale, in seno a cui esistono vari livelli di ordine, in generale “implicati” e perciò occulti. Ugualmente l’opera
omnia dell’artista comprende interrelazioni fra iconografia e scrittura, a cominciare dalla titolazioni delle tele e dei libri che emergono o inabissano di volta in volta all’interno del gettito creativo principale. In tutte le sue opere (insomma nel suo intero corpus) l’accento è costantemente posto
sulla comunicazione e sulle funzioni del linguaggio: esso può essere
referenziale (messaggio come contenuto), emotivo, fatico, poetico o talvolta metalinguistico, per l’esplicitazione o spiegazione del codice linguistico stesso. Su tutto verte infine un approccio psicoanalitico, non come scienza della malattia ma analisi della normalità, della vita quotidiana, secondo i parametri originali del suo fondatore.
Mi pare questa la premessa necessaria per evitare un’esegesi eccessivamente superflua, e disattenta delle radici poetiche dell’opera di Zigaina, oltre che un rapido ed utile schema interpretativo; se, per esempio, all’interno del catalogo pittorico s’enuclea la figura paterna, ci si accorgerà di come essa risulti inizialmente di carattere mnemonico affettivo, nel senso che viene riprodotta dall’artista alla stregua di uno dei tanti lavoratori ritratti in atmosfere neorealiste; col tempo tuttavia, egli aggiunge l’inserto fotografico,
fotostatico o incisorio dell’immagine, ossia immette all’interno del quadro uno squarcio di realtà concreta, dunque non più la totale rielaborazione della memoria, ma la presenza certa di una figura veritiera, effettivamente documentata dalla storia. L’intorno di questa presenza, di tal effettività, è l’aura antica ed archetipale della simbologia della coscienza: dai girasoli, al paesaggio fino alla folgore, ogni elemento annesso all’immagine paterna ne
amplifica e distende il ruolo all’infinito, disperdendola in modo sostanziale in un tutto organico. Non ritengo questo tutto organico diverso da una rappresentazione allargata dell’identità materna, in un’ottica che oppone al maschile il femminino e insieme porta all’androgino primordiale. La corrente di flusso che il pittore mette in moto è senza dubbio improntata alla presenza di un’iconografia della realtà tangibile e manifesta (il padre), ma di fatto si regge di quella parte più sfuggente, meno immediata (la madre), che tuttavia
completa il senso dell’opera. Inoltre, la testa d’ariete, che spesso copre il capo del genitore, documenta (inizialmente in maniera istintiva) un’attestazione autobiografica - essendo Zigaina dell’omonimo segno zodiacale - e ponendo di norma il cranio dell’animale in una condizione tutelare ed insieme partecipativa dell’individuo ritratto. Si dovrebbe poi notare il nesso che
assume la testa, o meglio l’effigie del cervello, nell’opera del maestro; non solo è questa la sede dell’intelletto, ma diventa anche quella della coscienza (lo stesso accade nella scultura di Floriano Bodini intitolata Idea critica per un monumento). Le parole di René Berger a prolusione di questo volume spiegano perfettamente la condizione del cervello-astronave nell’opera del pittore; eppure, mentre egli lo riferisce al paleoencefalo, anticamente
condiviso dall’uomo coll’animale (ritenendo le citazioni entomologhe quale esplicito richiamo alle origine comuni), io mi domando se invece esso (da cui poi derivano stilisticamente gli insetti per analogia) non sia il rimando al cervello unitario in cui albergavano le parole degli dei nell’infanzia del mondo. A questo proposito ho sempre trovato interessante la teoria di Julian Jaynes relativa all’origine della coscienza dipesa dal crollo della mente bicamerale; con essa si ipotizza che in principio l'attività della Commissura
anterior, di ponte fra le due aree celebrali (destra e sinistra), fosse più grande ed efficace di altre; nel contempo, quella che oggi risulta un’area “muta” fosse stata in effetti la corteccia dalla quale originavano i richiami imperative degli dei: a questo minuto gruppo di fibre sarebbe toccato di segnare gran parte della storia del comportamento dell'uomo fino al VI sec. a.C. Secondo gli studi condotti dallo statunitense il linguaggio degli uomini era localizzato in un solo emisfero, mentre all’altro spettava la voce degli
dei, insomma il mito. È curioso che Jaynes affermi: «consideriamo un uomo che abbia ricevuto da se stesso o dal suo capo l'ordine di costruire uno sbarramento per la pesca in un torrente molto a monte del sito del campo. Se egli non è cosciente, e non è quindi in grado di narratizzare la situazione e di mantenere in tal modo il suo analogo “io” in un tempo spazializzato con le sue conseguenze immaginate fino in fondo, come può farlo? Solo il linguaggio può mantenerlo impegnato, secondo me, in questo lungo lavoro destinato a durare
tutto il pomeriggio. Un uomo del Pleistocene medio avrebbe dimenticato ciò che stava facendo. Ma un uomo con la parola aveva appunto il linguaggio a ricordargli il suo compito: egli poteva ripeterselo da solo, cosa che avrebbe richiesto però un tipo di volizione di cui non penso che egli fosse allora capace, oppure, come mi pare più probabile, se lo sentiva ripetere da un’allucinazione verbale “interna” che gli diceva cosa fare»2. Fatti che appaiono stravaganti ma che si allineano alle intuizioni del filosofo Erick
A. Havelock, cui si deve la identificazione dell’origine sociale della
scrittura e della relativa rivoluzione scaturita nel côté intellettuale e civile del Mediterraneo.
Alla base di tutto vi è l’intento di Zigaina di utilizzare al meglio la
metafora, che non è un mero arzigogolo marginale, bensì il fondamento
costitutivo stesso del linguaggio. Io intendo qui la metafora nel suo senso più generale: l’uso di un termine proprio di una cosa per descriverne un’altra in conseguenza di una qualche somiglianza esistente fra loro o fra le loro relazioni con altre cose. In una metafora sono dunque sempre presenti due
termini: la cosa che dev’essere descritta, e la cosa o relazione usata per delucidarla. È grazie all’uso della metafora che il linguaggio cresce. Rispetto ai primi quadri di stampo realista, o meglio neorealista, adattati ad
un’estetica del socialismo più che del sociale, si attesta in Zigaina
un’evoluzione forte impostata verso una complessità pittorica e iconografica eccellente, in cui si fa spazio il verbo, che intride l’immagine. Non soltanto le bordature piccassiane del finire degli anni Quaranta lasciano spazio alla figura, ma piano piano la forma che va a riempire gli spazi contornati esplode dai suoi limiti e diventa una selva di percezioni tonali, riprendendo dalla
tradizione del colorismo veneto saggezza ed armonia lirica. I protagonisti che fra il 1947 e il 1949 sono abbozzi di presenze, concettualizzazioni della figura, divengono i braccianti, i contadini, i falciatori che combattano quotidianamente per una vita meno bestiale. Gli anni Cinquanta sono per Zigaina l’impegno alla denuncia dei soprusi e al guadagno dei diritti umani delle classi meno agiate, col proposito di una partecipazione culturale e civile nonché politica. Sul finire del decennio, con opere strabilianti come Distributore
di notte, o il capolavoro Notturno italiano, Zigaina inizia ad istituire il complesso gioco grammaticale della maturità. L’incontro con Pasolini è senza dubbio esaltante, e gli consente di mettere a fuoco quello che, nel 1970, l’amico descrive nel suo testo d’incipit ad un catalogo (ripubblicato negli apparati del presente volume): «c'è stata in Zigaina per anni una accanita difesa “schizoide”, quella di cui parla Kafka, consistente nel ritirarsi e nel ridursi, dando all’oggettività un carattere di miraggio»3.
Tale miraggio è un diversivo della lingua in cui l’artista fa cadere
l’osservatore, o meglio la sua condizione emotiva. Le ceppaie e le farfalle, che talvolta sembrano ceppaie in volo, e viceversa, sono negli anni Sessanta la celebrazione del sogno, persino dell’incubo, e in talune occasioni divengono i corpi mutilati delle vittime belliche o delle più astruse violenze. Come i moncherini degli alberi stagliano nel panorama vivente, e vivificante, i corpi dei generali, delle donne, dei bambini che giocano alla guerra (tema che Giuseppe Guerreschi affronta in un quadro imprescindibile, e che altri
“realisti esistenziali” mettono in scena nella povertà delle periferie), diventano i residui d’abbattimenti disumani. Se la materia che caratterizza i quadri del dramma sono per lo più di grumi e tensioni, il paesaggio si distende e diviene shakespeariana materia allucinante. L’orizzonte, l’anatomia del
paesaggio, prende sempre più spazio quasi sciogliesse la necessità di una presenza umana diversa da quella paterna, talvolta eretto a misura cosmica, a idolo imperterrito. È proprio nell’allargamento, nell’astrazione, vedutista che si sente fertile il sostrato terrigno, la matriarcalità della poetica di Zigaina, in quel dialogo partecipato con la natura. Il silenzio dei grandi piani, le pennellate che riempiono la tela e poi squarciano con inserimenti grafici, portano una musicalità nuova che, nei lavori degli anni Novanta, pare un coro all’unisono di cantori partecipi dello stesso destino. In passato vi
era nell’agonia del soggetto l’agonia stessa dell’artista, ora sembra tutto in attesa, con ritmi più distesi. Anche la massa del dipingere si è fatta meno contratta, tuttavia più nascosta, condotta per piccole vibrazioni che possono perdersi nel colpo d’occhio - sommario o diffuso - buttato sulla tela. I colori degli anni Settanta, con i beige-bianchi, nelle opere recenti sono sostituiti da blu profondi, verdi squillanti, e per certi versi tornano alcune cromie
degli anni realisti. Vi è insieme una sintesi dell’immagine, che allarga invece il discorso, aumentando i contesti espressivi “verbali”, col conseguente accumulo di codici ed esperienze che sono state archiviate in cluster, o meglio in una sorta di inconscio collettivo suddiviso per campi morfogenetici;
secondo le straordinarie tesi del biologo Rupert Sheldrake, infatti, ogni singolo apprendimento si ammassa nei registri esperienziali che addirittura qualche scienziato ipotizza trovarsi oltre le fasce di Van Allen, oppure nel territorio mistico della Noosfera: il luogo delle idee, lo spazio dove convivono tutte le concezioni possibili. Ma da qui comincia il regno del tacere. Risulta difficile per gli alchimisti ottemperare al tacere
(più che agli altri due precetti augere e sapere) poiché ogni essere vivente giunto ad una conoscenza assoluta e pura sente il desiderio di condividerla con l’umanità; di converso dev’essere facile tener fede al tacere,
poiché l’umanità non sempre è pronta a raccogliere e condividere le intuizioni e la verità del mondo degli dei. Varcare dunque le porte del mistero, dell’ignoto e sconosciuto, diventa un affare per pochi, intimi, solitari esploratori. Per chi verso la laguna trova i miraggi, i sogni, le voci, di un mondo che è mito: però gli altri non se ne accorgono, ancora.
Giuseppe Zigaina
Note Biografiche
Giuseppe Zigaina (Cervignano del Friuli 1924) consegue la maturità
artistica a Venezia nel 1944 dopo aver già esposto nella sua prima personale alla Fondazione Bevilacqua La Masa nel 1943. Tra i fondatori del Movimento realista, ne prenderà le distanze successivamente. Nel 1948 è presente alla Biennale di Venezia. È vicino al Fronte nuovo per le Arti, attento al Picasso postcubista e all'Espressionismo tedesco. Espone tre opere alla Biennale del 1950 vincendo il premio Fontanesi. Nel 1951, partecipa alla mostra 50 Peintres
italiens d' aujourd' hui alla Galérie La Boétie di Parigi e alla rassegna Realist italian painters alla Gimpel Hills di Londra. Nel 1952, per la terza volta, è selezionato per la Biennale di Venezia. La sua pittura è contrassegnata fin dagli inizi da un realismo visionario che si accende di toni marcatamente espressionistici. Realizza vasti cicli pittorici dedicati alle Crocefissioni, agli Uomini nel bosco, ai Cavalli morti e Cavalieri, prima del '50; seguono i
Braccianti, le Biciclette, i Generali, le Ceppaie attorno al '60. Del 1954 è la collaborazione alla X Triennale di Milano con la realizzazione di un grande murale, la sala personale alla Biennale di Venezia e il premio Graziano. Espone nello stesso anno alla Biennale di San Paolo del Brasile, nel 1956 alla Biennale di Venezia e alla Mostra del disegno italiano in URSS. Nel 1959 e 1986 è alla Quadriennale di Roma. Nel 1960 è invitato alla XXX Biennale, presentato
da Mario de Micheli. A cura dell'American Federation of Arts, le opere premiate alla Biennale vengono presentate a New York, Milwaukee, Minneapolis, Chicago e Syracuse. Espone alla VIII Biennale di San Paolo del Brasile, nel 1965.
Torna alla Biennale di Venezia nel 1966 con una sala personale. Si avvicina ad un ambito neofigurativo con accenni strumentali informali. Nascono negli anni i cicli delle Astronavi sulla laguna, dei Paesaggi come anatomia, dei Pioppeti, dei
Girasoli e impone, monumentale e folgorante, la figura del padre nelle Icone per un transito. Nella pittura l'artista integra, con inedite commistioni, frammenti d'incisione e riporti fotografici, in un personale, suggestivo e illuminante aggiornamento dei linguaggi di portata internazionale. Nel 1982 è
invitato nella sezione internazionale della Biennale di Venezia e partecipa all'esposizione per i 500 anni dell'arte dell'acquaforte all'Albertina di Vienna. Roberto Tassi cura il catalogo generale dell'opera grafica dal 1965 al
1981. Nel 1983 Zigaina espone a World Prints al Museum of
modern art di San Francisco. Nel 1984 è invitato dall'Università di Berkeley; espone a Intergrafik a Berlino e alla Biennale nazionale Città di Milano. Nel 1986 espone alla Quadriennale di Roma; nel 1987 alla Biennale di Reijkiavik e alla Biennale dell'incisione di Varna in Bulgaria. Palazzo dei Diamanti di Ferrara, gli dedica un'antologica con opere dal 1948 al 1989. Nel 1991, si tiene un'antologica dell'opera incisa a Palazzo Sarcinelli di Conegliano. Nel 1995 esce la monografia con catalogo generale delle incisioni a cura di Marco Goldin.
1. L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, Routledge, Londra, 2001.
2. J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza, Adelphi, 1984 (pag. 169).
3. P.P. Pasolini, Zigaina, in Quaderni di Imago, numero 8, Milano, 1970.
Informazioni
Giuseppe Zigaina. Opere 1946-1996. Verso la laguna
Mostra a cura di Flavio Arensi
Inaugurazione mercoledì 9 novembre alle ore 18.30
Testi in catalogo di Giuseppe Zigaina, René Berger e Flavio Arensi (oltre ad un'ampia antologia critica, da Pasolini ad Argan)
Articolo pubblicato il 27 ottobre 2005
|