Arte

Reliquia per un addio

di Flavio Arensi

"Col tempo scopro il masochismo degli intellettuali che vengono a farsi fare il ritratto da me. La loro gioia autolesionista me ne porta sempre nuovi. L'associazione dei danneggiati di Varlin annovera nomi sempre più illustri".

Varlin (Autobiografia)

Se ogni volta che leggendo un saggio critico di Giovanni Testori avessi decretato l'inutilità d'aggiungere bibliografia al catalogo di un autore, potrei, serenamente, evitare di pubblicare buona parte dei miei scritti. Di Varlin, per esempio, mi bastano i primi paragrafi di L'ironia, la cenere e il niente (pag. xxxx), per aver compreso tutto, e in quel tutto testoriano direi che c'è pure un vuoto denso, lo stesso delle campiture pausate del pittore. Non fosse perchè talvolta, l'impeto della scrittura serva a ragionare di me, e soprattutto di me in questa porziuncola di mondo e, ancor più, di me in questa porziuncola folle di vita collettiva, allora davvero - almeno nel caso varliniano - Testori potrebbe bastare, avendo già offerto ogni singola sillaba necessaria a un artista per sopravviversi, e sopravvivere forse anche alla storia. Il problema tuttavia non è Testori, o Varlin, ma il qui scrivente, che con gli occhi rossi si commuove, o meglio strabuzza, al pensiero che dietro l'angolo, in qualsiasi parte della sua straordinaria esistenza, la morte indugi come ombra nera sul passo falso o falsissimo che prima o poi capita inevitabilmente di calcare. Tra quelle ombre ci sono i ritrattati di un pittore svizzero ancora tanto capace di segnare il momento odierno da meritare attenzione, a trent'anni - i suoi - dalla scomparsa, e a trentuno dalla celebrazione milanese (alla Rotonda della Besana, nel lazzaretto in cui Testori costruì le sue più intense - pestilenti - disquisizioni), trentadue - invece - i miei anni, talvolta passati a domandarmi quanto sia lontano il Messico.

Vige in Varlin l'attitudine a riferire la vita che scorre, come la polvere calcata sulle noiose bottiglie morandiani; mentre di esse il verde del fiasco impasta col grigio e la quiete ferma o stagnante dell'atmosfera, nei ritratti dello svizzero è la carne a crollare smossa - sabbiata - dal pulviscolo, come una vomitata di getto contro il cielo; né Varlin s'interesserebbe se non d'apparenza al vetro (pretesto banale), invece descrive proprio la polvere lieve che transita sulle nostre storie, e talvolta - quando trafitta da un raggio di sole, essa traspare come presenza mite e taciturna. Certo il tempo scorre sulle bottiglie-umane di Varlin lasciando i segni di una bruttura sbilenca che affascina, anche quando tanto esplosiva da non contenersi ma debordare travolgente. Quelli che chiama i suoi "danneggiati" (chi insomma sottoponendosi all'osservazione rischia d'uscirne con le ossa rotte), sono le vittime di un incidente fatale senza superstiti, di uno scontro che maciulla la faccia, le gambe, le viscere e il cervello; pur tuttavia sono anche i protagonisti di un incontro (che fu, ed è tuttora nella memoria e nell'occhio di chi guarda i quadri), fra Varlin e il suo modello, fra un chirurgo e l'ammalato terminale tranquillo in fiducia di fronte al proprio presunto sanatore. Questo contratto d'aspettativa è per lo più frainteso, se non addirittura rotto, perché nessuno salva o risana alcun altro; piuttosto, ognuno ha i suoi bei guai da sgravare; e sulla tela grezza di Varlin risaltano più i danni che compensi esistenziali. Ma non per volontà distorta o cattiva del pittore, semplicemente per quella fede che apre i cuori ai vanitosi, fissi nella loro posa da vedette di rivista, a dire col corpo più di mille ragionamenti parlati, forse segreti. Il Ritratto di cavaliere dell'ordine costantiniano del Ghisalndi (al Poldi Pezzoli), per esempio, non è forse l'ammissione da parte del paladino dalla labbra carnose di una sifilide malcelata e presa in qualche bordello, o incontrata fra le chiappe di un suo giovane scudiero affidatogli per elevarlo di grado morale?

Quanto ci costa questo incontro? Quanto l'addio che arriva prima o poi a fine della nostra avventura comune? Lo asserisco con le lacrime di chi non vorrebbe mai distogliere lo sguardo da nessuno, ma che neppure nega alla morte il valore di un traguardo. Ci si sono incontri mancati nella vita, altri purtroppo avvenuti, ci sono gioie e sconcerti, cadauno però merita uno squarcio d'amore, che è sempre un privilegio, persino un rischio, "cargando" con sé il dolore dell'abbandono già nell'attimo stesso dell'origine. Ed ecco la risposta di quanto costa l'incontro con l'altro, col nostro ritrattista, oppure ritrattato: nulla. È un dono stupendo, anche nelle peggiori delle contingenze. Persino nel momento del distacco, quanto si dovrebbe soltanto ringraziare per i giorni tremendi o felici trascorsi, sapendo che l'accoglienza reciproca vale un mistero totale. Ritrarli significa forse ringraziarli, sospendere le emozioni rivolgendo parole di benevolenza: "grazie davvero della tua presenza, del tuo stare qui con me e dappertutto, grazie di avermi concesso una carezza, grazie per le cose che hai fatto o per quelle che non hai potuto fare, grazie per aver sbagliato i tempi del parlare o per aver proferito parole di sostegno, grazie perché sei, vivi, muori, e nel tuo essere, vivere e morire io ti sono stato accanto, e tu a me, come una nonna coi nipoti, un'aquila che vola leggera sopra i picchi di Huautla de Jiménez".

Fin dalle origini, dal piccolo Männerkopf mit Hut (cat. 1), la pittura di Varlin si occupa dell'essere vivente, e non ha mai smesso di usufruire della sottile e amara beffa che partecipa della nostra esistenza, tanto da agghindare il lungo catalogo di figure e figuri con una poesia di ornamenti caratteriali come i pisciatoi parigini, le prostatiti fastidiose, i carri funebri, eleganti e neri di pece, le grasse mammelle di una donna poderosa. Ci sono insomma gli atti della vita, che può ben soffiare come una scoreggia, o parere una sana deiezione (Patrizia auf der Toilette im Atelier 1973 cat. XXX), senza neppure suonar volgare, semplicemente una presa d'atto dei bisogni fisici e fisiologici della nostra schiatta. Ci sono poi una manciata di D'après Goya (cat da xxx a xxx), e più precisamente dalle nebbie negre della Quinta del sordo, che riflettono l'intento estetico - direi ideologico - preciso di cominciare a discutere delle umane vicende a partire dalla loro esasperazione viscerale. Non si tratta di sgorbi o caricature, bensì di un'urgente bisogno d'invadere finanche le budella e poi tirare fuori il grido vitale nel suo complesso sistema compositivo, l'anima intera del soggetto con tutte le sfumature emotive. Di questi quadri, il primo (cat xxx) del 1925, (gli altri sono del 1970), evita le follie tarde di Goya esaminando invece il nucleo centrale de La Familia de Carlos IV, tralasciando i connotati dei volti se non la parvenza fisiognomica del piccolo principe nel centro della tavola, e in particolare il suo sguardo preciso: si tratta di un significativo manifesto d'intenti, nel quale - in forma precoce - Varlin dichiara la volontà di eludere il racconto di situazione, piuttosto afferrarne lo stato d'animo (la condizione spirituale, un sistema di coscienza) attraverso la denuncia di minuscoli preziosi indizi circospetti. Capiterà così, in molti ritratti, di focalizzare il fulcro non nel complesso sviluppo linguistico del soggetto, ma in peculiarità espressive apparentemente secondarie: la croce nel Giovanni Testori 1971-1972 (cat. Xx), la bocca aguzza di Leni 1973 (cat xx), la velocità che investe o sospinge Alain und Elda 1972 (cat. Xxx).

La gavetta parigina lascia in Varlin una risonante eleganza, e nel contempo la forza centrifuga della cartellonistica da belle époche o da Moulin rouge, cui si assommano col tempo le allucinazioni di pittori del calibro di Soutine, e i tanto citati Giacometti e Bacon, che tuttavia differiscono per eccezioni rilevanti; di Giacometti Varlin rifiuta la monotonia pur geniale della visione filiforme ed eruttiva, mentre di Bacon non si sente l'odore di latrina interiore, né quel richiudersi larvato dei personaggi. Varlin mantiene una certa distanza dall'oggetto, e in ciò assomiglia più a Giacometti che all'inglese, mentre la pennellata sghimbescia porta alle sponde di Soutine, ma senza quel grasso percolante di certi scorci distorti. Rimane dunque un caso affatto singolare, costruito con la grammatica di una pittura irrequieta, "fastidiosa" nell'alternare linguaggi e stilemi, in un proprio unico idioletto anacoretico, che da una parte rende senza dubbio eccezionale il suo mestiere, dall'altro lo riserva a un pubblico abile a ricercare per ogni tela una diversa tabella interpretativa sprovvista di schemi precostruiti. Che non vi sia una matrice espressiva monotona è chiaro anche dai paesaggi, da quelli che ancora gustano un sapore quasi ottocentesco, alla Courbet (e se ne capirebbe dunque il nesso testoriano), fino a opere in cui l'assenza figurale conduce a estreme conseguenze costitutive; Torre del lago Puccini bei Viareggio 1965 (cat xxx) risponde a logiche quasi informali, nella pulizia tersa e delicata dell'orizzonte, benché Varlin non accetti le ragioni aniconiche. Ogni ciclo paesaggistico detiene un proprio minimo formalismo unitario: il panorama veneziano si distingue dalle vedute londinesi, e ancora dai paesaggi svizzeri, dalle angolazioni di Bondo, strette e claustrofobiche, mentre gli interni lasciano correre le linee di fuga e creano ambienti senza confini. Varlin tratta l'oggetto in esterno (un palazzo, la stazione, una casa) come un ritratto, lo affronta di petto, mentre utilizza il grand'angolo quando vuole racchiudere uno scorcio complesso in pochi frammenti visuali, laddove negli spazi domestici l'io-osservate dell'artista si getta su un punto lasciando sfuggire il resto, permettendo ai contorni di progredire a dismisura in ragione di una dilatazione della catastrofe. Catastrofe che spesso combina oggetti, presenze vitali, racconti intimi, nel crescendo sinfonico di un'allegoria che non lascia tregua e accumula centinai di elementi accostati fra loro, tutti notevoli, nessuno primario, tranne poi scoprire finalmente il cardine, la chiave interpretativa con cui decrittare il quadro nel suo insieme.

In Franca (cat. Xxx), le grosse natiche rotonde rischiarano il dipinto, ma sono gli occhi a incantare, a inchiodarti come inquisito. Non esiste un personaggio, dal clochard Walz (cat xx) al prostatico (cat. Xx) che non trattenga nelle pupille un alfabeto d'istinti e vocazioni ammalianti; fino a Liegende Gestalt im Bett (cat. Xx) una sorta di autoritratto moribondo e definitivo dell'artista (ultimo quadro della sua produzione), nel quale vige la cancellazione dello sguardo come estremo momento di mistero, il sonno-morte. Il corpo dell'uomo diviene allungato, come un santo nel sarcofago cristallino sotto l'altare di qualche badia medioevale: traccia di una presenza che vive soltanto nel culto o nella memoria. Ogni ritratto ha in quella pausa di volto, nell'incavatura orbitale, il senso profondo della sua partecipazione alle storie collettive, persino al dipingere dell'autore. Si mettono in mostra come dame d'altri secoli, e lasciano che Varlin scavi, li danneggi, li obblighi a riassumere l'intera loro biografia nel clamore di una pupilla sbarrata sul baratro del loro intimo mondo. Stanno ritti come indecisi se indugiare nel gioco vanitoso della posa, o andarsene finalmente soli, finalmente liberati ed espropriati del passato. Ma non praticano un vero e proprio addio, bensì qualcosa di ancora più smagrito, di eroso, sono la condizione di una memoria d'addio già accaduto, successo nel secondo stesso in cui hanno deciso di aprire l'anima al pittore inchiodandola alla tela, in un brusco singulto, un unico colpo secco sparato all'improvviso. Sono la reliquia di un addio, l'arrivederci profferto a mezza bocca, mentre dietro dell'uscio qualcuno ti chiama per l'ultima volta; già lontani non si torna indietro. Vi può stare soltanto la testoriana perpetuazione del dolore e del niente che è la vita, censurando l'opportunità di un destino diverso per il popolo terreno, se non appunto nell'ironica condizione di un artista che tratta il soggetto in termini perpetuativi, ben sapendo che nulla - men che meno l'arte - permane in eterno? S'avverte al contrario il senso reliquiale dell'incontro, che lascia a tutti la parvenza di un approdo oltre le nostre miserie; Varlin veste i panni del confessore, l'infallibile e forse inaffidabile custode di segreti personali, di coscienze messe a nudo; talvolta loro, i ritrattati, sembrano privilegiati ospiti di un anfitrione amorevole, invece di salme da smozzicare, spezzettare, aggredire, digerire. Si tratta pur sempre di un pasto cannibale che riduce a brandelli non il soggetto nome-cognome del tizio raffigurato, ma di tutti gli uomini, uno a uno, nessuno escluso.

Eppure, sono anamnesi di vite vissute, alcune terminate e già sottoterra, altre ancora da invecchiare, anzi frollare al meglio come la carne da macello. Sono le ombre che ricordano ai vivi di un tempo passato, tracce da conservare, fintanto qualche buon'anima non torni ad evocarle; sono i nostri morti, che si affrontano più volentieri dei moribondi, perché innocui, se non nel trafiggerti con qualche loro particolare difetto varliniano; ci insegnano, in questi ultimi tempi occidentali, a voltarci di fronte al giungere della fine, chiudere noi prima gli occhi del morente, perché l'addio è pur sempre un dolore che strazia. Per questo, in fondo, Varlin deroga sempre l'ultimo saluto ai suo danneggiati, alla lunga teorie di vanagloriosi più o meno immodestamente ritratti. Sta con loro, tenendogli la mano; ma non li lascerebbe andare. Li ringrazia; ma li tiene cari. In questo interminabile straziante rapporto, l'unica salvezza è mantenere un piccolo reperto d'esistenza, perché il niente non basta a nessuno se non nelle parole dei poeti, e qualche reliquia, finanche la reliquia dell'addio, può sempre far smettere i sospiri dei pianti.