La scoperta. L'inconfessabile segreto di Canova [Maurizio Bernardelli Curuz]
Il Calco dal vivo: la tecnica. Così i modelli venivano avvolti dal gesso e chi posava correva il rischio di morire [Maurizio Bernardelli Curuz]
La scoperta. L'inconfessabile segreto di Canova
di Maurizio Bernardelli Curuz
L'unica volta in cui
fu accusato di utilizzare
calchi dal vero
per le sue statue
negò recisamente.
Ma Bernardelli Curuz,
partendo dall'indizio
del calco del seno
di Paolina Bonaparte,
dimostra che fu
una pratica impiegata
nella sua bottega.
E Ranieri Varese
conferma la tesi
del nostro direttore (direttore di StileArte, ndr)
ampliando il raggio
d'azione dei rilievi
eseguiti direttamente
sui corpi
Il calco del seno di Paolina Bonaparte
Fotografia ©StileArte
Tutto inizia con un indizio di natura poliziesca. Ho davanti a me, al Museo Napoleonico di Roma, il calco del seno di Paolina Bonaparte, una ricordanza, un feticcio di vitale bellezza. Il seno è piccolo e splendido; mostra la compattezza del petto della giovane donna. Il gesso evidenzia da un lato la morbidezza dell'epidermide e, dall'altro, il sano peso specifico che, per lieve gravità, incurva la materia elastica, nella parte inferiore del morbido emisfero. Non è, insomma, il seno convenzionale della statuaria greca, legata all'evocazione di un perfetto, platonico, ideale di donna. Ha qualcosa di fenomenico, cioè di concreto, di scarsamente idealizzato, per quanto la forma sia sublime: è la modalità in cui l'idea di Seno s'incarna nel soggetto, divenendo fenomeno irripetibile dell'incarnazione dell'individualità, secondo una convergenza di verità naturali, che instaurano un dialogo tra diversi punti della massa. Sono tratti che si discostano dalla perfezione curvilinea, attraverso minimi rigonfiamenti eccentrici e quasi impercettibili anse a renderlo palpitante e reale. Ma non è soltanto questione di modellati dolcemente sinuosi e concreti.
E' il capezzolo ad essere il centro - non soltanto anatomico - che irradia l'indizio sul quale si deve lavorare. L'estremità apicale della mammella di Paolina presenta ciò che dobbiamo considerare come un'illuminante difformità. Il seno mostra infatti lo schiacciamento della parte superiore della massa e una compressione laterale-superiore del capezzolo stesso che, sotto un peso invisibile, muta la propria forma cilindrica in una figura che rinvia vagamente a un irregolare tronco di cono.
La parte frontale dell'estremità del seno, che normalmente ha una forma circolare - essendo parte superiore del cilindro -, è invece piegata su se stessa al punto da costituire la formazione di due labbra socchiuse. Perché quella compressione? Forse perché il gesso provocò quell'effetto maglietta-bagnata che abbiamo visto migliaia di volte sui toraci delle pin-up rimontanti dal mare con passi di divinità prodotte dalla spuma? La compressione del seno evidenzia la presenza di un peso - che non esiste più - che ha provocato la lieve deformazione della mammella. Ecco. Il gesso, allora. Il gesso apposto a un seno per un'operazione di calco dal vero provocherebbe sul capezzolo e sulla parte superiore dell'areola lo stesso effetto.
Il seno e il capezzolo schiacciati indicano la pratica del calco
Da ciò discende il sospetto che Canova abbia compiuto il rilievo per il ritratto marmoreo di Paolina nella posa di Venere vincitrice (1804-1808), stendendo direttamente gesso stemperato in acqua sul torace della sorella di Napoleone, non limitandosi cioè al disegno, al modellato di creta, ma usando seppur parzialmente - anche per alcuni dettagli di altre statue, come poi dimostrerà un nostro accurato sopralluogo alla gipsoteca di Possagno - i proibiti calchi dal vero, secondo una procedura che molti scultori - a partire dall'antichità - avevano minuziosamente utilizzato per conferire lo stupefacente fremito della vita al corpo marmoreo delle statue. E Canova puntava, anche attraverso le colorazioni stese sull'epidermide del marmo, all'irruzione di un vero sovrannaturale sulla linea della realtà ordinaria. Un segreto di laboratorio, quindi, come quello delle lenti che vennero usate in pittura a partire dalla prima grande ventata di verità lenticolare, che soffiava da Nord, dalle terre dei fiamminghi.
L'indizio, come dicevamo, appare con forza. L'elegante bottoncino di Paolina, nel calco del Museo Napoleonico e poi in quello della Gipsoteca, fino all'originale marmoreo della Galleria Borghese, si comporta come il seno di una donna posto sotto una maglietta intrisa d'acqua. A causa del peso della stoffa, il capezzolo viene infatti leggermente schiacciato e i due bordi superiori tendono a conchiudersi.
Appare allora assai probabile che, per alcune piccole parti del corpo di Paolina, lo scultore abbia operato assumendo direttamente la forma dalla modella, con la stesura di gesso sul suo seno, o che abbia utilizzato - nel caso in cui la giovane donna della famiglia imperiale non avesse accettato di farsi mettere sul torace una poltiglia che si scaldava spaventosamente, a causa del legame chimico acqua-gesso, sulla pelle, fino ad avvizzirla in modo temporaneo - una seconda modella, una controfigura, diremmo oggi, sulla quale operò, in presa diretta. Ma l'ipotesi in base alla quale a prestare il proprio seno per la realizzazione del ritratto di Paolina sia stata una "donatrice di petto" è pronta a decadere, nel momento in cui scopriamo che il seno di gesso giunse al Museo Napoleonico attraverso gli eredi di Napoleone che abitavano a Roma. Prova, questa, che ci porta a pensare che questo sia il calco originale tratto dal corpo della sorella del Bonaparte.
E vediamo adesso di capire per quali strade il calco di Paolina sia giunto al museo romano. Seguirne il percorso significa risalire alla fonte del proprietario iniziale.
Il petto di gesso di Paolina venne ereditato da un parente
Il Museo Napoleonico nel quale il calco è conservato, espone quadri, sculture, mobili, gioielli, abiti di corte, cimeli, appartenenti al conte Giuseppe Primoli (1851-1927), discendente per parte di madre da Luciano Bonaparte, principe di Canino, il fratello di Paolina. Non è possibile sapere se il calco sia giunto al conte attraverso l'asse ereditario - sulla linea bisnonno-nonno-madre - o attraverso le acquisizioni che egli poté compiere presso alcuni parenti romani dei diversi rami napoleonici, considerato il fatto che egli ricevette, ad esempio, da uno zio cardinale un busto di Paolina stessa. Un fatto è comunque certo. L'oggetto di gesso è catalogato con il numero 196 nell'elenco antico della collezione Primoli, a dimostrazione che esso percorse evidentemente le vie dei lasciti familiari e che non fu frutto di un'acquisizione museale successiva.
E' così possibile ipotizzare che l'oggetto giungesse direttamente da Paolina, nota per il narcisismo e per l'amore per la provocazione, e che fosse poi passato per via ereditaria a Primoli.
Un altro aspetto merita la dovuta considerazione. E' la dislocazione delle stanze della bottega romana del Canova come appare dalla descrizione compiuta dal pittore Francesco Hayez (1791-1882). Hayez pone in rilievo la presenza di un'ampia parte accessibile ai visitatori e di una stanza rigorosamente chiusa, riservata a pochi addetti. E' possibile quindi che nel luogo inaccessibile l'artista conservasse i calchi dal vivo, cioè quei "segreti del mestiere" che avrebbe voluto sottrarre alla vista dei curiosi o di quei colleghi che, con un colpo d'occhio, fossero in grado di comprenderne i piccoli misteri?
La stanza inaccessibile del maestro nella descrizione di Francesco Hayez
"Il Canova - scrive Hayez nelle Memorie - faceva in creta il suo modello; poi gettatolo in gesso, affidava il blocco a'suoi giovani studenti perché lo sbozzassero e allora cominciava l'opera del gran maestro. (…) Essi portavano le opere del maestro a tal grado di finitezza che si sarebbero dette terminate: ma dovevano lasciarvi ancora una piccola grossezza di marmo, la quale era poi lavorata da Canova più o meno secondo quello che questo illustre artista credeva dover fare. Lo studio si componeva di molti locali, tutti pieni di modelli e di statue, e qui era permessa a tutti l'entrata. Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai visitatori, nella quale non entravano che coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso".
Tra indignate risposte da parte degli artisti, scuse non richieste, e attacchi dei critici e degli scrittori che volevano imporre la libertà interpretativa dell'arte, la pratica del calco dal vero percorse, con una vampa polemica che tendeva a diventare sempre più virulenta con il trascorrere degli anni, tutta la seconda metà dell'Ottocento. Gli scultori, anche a causa della necessità di aderenza al modello imposta dal registro poetico del realismo, imprigionarono nel gesso volti, braccia, mani, gambe, piedi - ed Édouard Papet, del Museo d'Orsay, suppone che a questa "ripresa" dal vivo non fosse sfuggito nemmeno l'organo sessuale femminile - per coglierne dettagliatamente le forme, assemblarle e, attraverso i pantografi, trasferirle al blocco di marmo o per inserirle nella scultura intermedia attraverso la quale ottenere la conchiglia di fusione.
Nella seconda metà dell'Ottocento il netto predominio del calco diretto
"Quanto lo stesso Vincenzo Vela fosse implicato nell'accesa polemica nata intorno alla pratica e all'utilizzo del calco dal vero - reputato dalle sfere più conservatrici un insulto alla creatività dell'artista e una pericolosa deriva verso quel deprecato realismo in scultura, inteso come tradimento dell'ideale classico accademico - lo dimostra il famoso passaggio dai Carnets de notes di David d'Angers (1788-1853) - scrive Gianna A. Mina Zeni nel catalogo A fior di pelle. Il calco dal vero nel secolo XIX edito nel 2002 dal Museo Vela -. Costui, ricordando la visita avvenuta nel 1852 nello studio milanese dello scultore, lo accusa di servirsi dei numerosi calchi presenti per farne dei veri e propri montaggi ‘fraintendendo' l'impiego a fini di studio di questa presa diretta sul reale, che lo scultore viceversa ne faceva".
"I tre calchi dal vivo di un dorso maschile e di due braccia nella posa che lo Spartaco avrebbe poi assunto nella sua forma definitiva, confermano l'ipotesi circa l'utilizzo da parte dello scultore ticinese di impronte sulla natura anche per lo studio di quest'opera colossale - prosegue Mina Zeni -. Oggi questi pezzi costituiscono, insieme allo splendido dorso di donna e alla gamba ripiegata di fanciullo, alcuni tra i più interessanti esempi di questa tecnica raccolti nel fondo Vela e, più in generale, fra i più interessanti giunti a noi".
La conservatrice del museo ricordava anche, nello stesso testo, la presenza nello studio dell'artista di numerose maschere funerarie eseguite dallo scultore di Ligornetto e calchi di mani, tra le quali quella rugosa e drammatica che servì da modello per uno dei minatori della statua dedicata alle Vittime del lavoro, nonché persino il calco del cane di famiglia di Vela.
Ciò che nel passato era utilizzato con parsimonia - come dimostra il caso di Canova -, nella seconda metà dell'Ottocento diviene una pratica diffusa. Di fatto ci si basava sul recupero di una tradizione che attraversa, tra emergenze e percorsi sotterraneamente carsici, buona parte della storia dell'arte, dai classici greco-romani fino alla riemersione quattrocentesca, per poi sprofondare nel Rinascimento fino al neoclassicismo, senza per questo che la pratica subisse, al di là della lunga interruzione del periodo compreso tra la caduta dell'Impero romano e le prime avvisaglie dell'Umanesimo, interruzioni di sorta.
Il sistema di rilievo del corpo usato a partire dal IV secolo a.C.
Esiste, in questo campo, persino una riconosciuta primogenitura che colloca la scoperta - o comunque la diffusione della tecnica - nel IV secolo a.C.
"Primo di tutti a produrre il ritratto in gesso derivandolo dalla faccia stessa, e versata della cera nello stampo in gesso, a correggere poi l'immagine fu Lisistrato di Sicione, fratello di Lisippo - scriveva Gaio Plinio Secondo nella Storia naturale -. Costui cominciò anche lui a fare ritratti al naturale". Una tradizione che fu recuperata in ambito toscano nel Quattrocento. Osservando le magnifiche e dettagliate fattezze di Ilaria del Carretto nel celeberrimo monumento funebre dedicato, appunto, alla seconda moglie di Paolo Guinigi, morta l'8 dicembre 1405, possiamo infatti formulare l'ipotesi, per nitore del rilievo fisionomico, che Jacopo della Quercia (Siena 1371/74-1438) abbia lavorato partendo dalla maschera funebre ricavata nelle ore immediatamente successive al trapasso della giovane nobildonna, costruendo attorno al meraviglioso volto la poesia di una morte che, attraverso l'arte, non dissipa l'altezza angelica di quel viso raggelato, con il soffio della vita ancora incombente.
Del resto, il sistema di recupero diretto delle umane fattezze dal modello vero era già ampiamente conosciuto in quegli anni, com'è testimoniato da Cennino Cennini (Colle Val d'Elsa, circa 1370 - Firenze? circa 1440), il quale nel Libro dell'arte descrisse le tecniche del calco dal vero, che si svolgeva attraverso l'utilizzo della pasta - il gesso - o della cera. "Gittavi su in quell'atto che vòi - scriveva Cennini -, o il dinanzi o il dirieto o per lato. Se detta pasta o ver cera ti riceve bene, fattene terre fuora nettamente, tirandoti fuori per lo diritto". Le indicazioni di Cennino non lasciano dubbi, specie se vengono lette nella versione dell'italiano corrente. "Stendi (la cera o il gesso) dalla parte (del volto o dell'arto) che desideri, anteriore, posteriore o laterale. Se il gesso o la cera sono ben aderenti, estraili (dal modello) nettamente, tirandoli direttamente verso di te (e ciò per evitare che la forma muti, ndr)". Nel 1428, per attenersi alla verità fisionomica, anche Donatello eseguì in terracotta dipinta il busto di Niccolò da Uzzano utilizzando un calco dal vero, realizzato attraverso la giustapposizione di più tasselli con i quali aveva raccolto parti del sembiante dell'effigiato.
Ranieri Varese: "Lo scultore usa questa tecnica ma la nega"
"Canova usa questa tecnica e nega di averla utilizzata - sostiene Ranieri Varese, uno dei massimi esperti dell'opera dello scultore, interpellato da Stile -. Lo nega recisamente e con una sospetta animosità dai tempi in cui realizza la scultura di Dedalo e Icaro. Comunque scoppia la polemica e lui reagisce indignato.
Anch'io credo che Canova faccia uso dei calchi come strumento di lavoro. Non lo ammette mai; non lo scrive e si scioglie dall'impaccio con grande vigore. Il suo, del resto, è un comportamento prevedibile: il calco è finalizzato a un linguaggio che asseconda le scelte del naturalismo; egli è uno scultore neoclassico ed è pertanto costretto a nascondere questa procedura.
Credo proprio che il rilievo si riferisse soltanto ad alcune parti della scultura. Non possiamo pensare che una donna come Paolina sia stata bloccata e resa prigioniera del gesso, integralmente. Ma per quanto riguarda il calco del seno, penso che sia piuttosto probabile, giacché per l'esuberante sorella dell'imperatore questo sarebbe stato anche un gioco divertente".
Un gioco nel quale entravano il narcisismo per il proprio corpo perfettamente modellato dalla natura e gli aspetti seduttivi - e scandalosi - che l'operazione recava in sé. Ma torniamo al vero momento dello scandalo canoviano, alla polemica che si innesca su Dedalo e Icaro. La scultura diviene oggetto di aspre critiche da parte dei romani; concorrenti e detrattori attaccano l'autore, accusandolo di aver preso la via più breve e semplice per giungere alla rappresentazione del soggetto.
In effetti, dalla figura del vecchio emergono diversi indizi, legati soprattutto al realismo dell'espressione, al minuzioso scandaglio fisionomico. "Ritengo che questo sistema di rilevamento dal vero - afferma Ranieri Varese - sia stato utilizzato dall'artista anche in altri casi, per alcune parti che, nell'ambito delle sculture, dovevano assumere una peculiare importanza. Oppure egli dimostra implicitamente di farne ricorso quando realizza opere che effigiano bambini".
"Che fine possono aver fatto i calchi dal vero presenti nella bottega? Dobbiamo ricordare - conclude Ranieri Varese - che, nel corso del trasferimento del materiale dallo studio romano alla gipsoteca di Possagno, venne effettuata una selezione. E' probabile che i calchi siano stati eliminati proprio durante questa fase".
Gli altri calchi nelle opere dell'artista. Guderzo: "Mancano però i documenti"
Anche la Venere che esce dal bagno (1812) presenta, nella parte superiore del seno, lo schiacciamento sul quale ci siamo a lungo soffermati nell'ambito del ritratto marmoreo della Bonaparte come Venere vincitrice. Ma l'artista utilizzò presumibilmente altri calchi rilevati dal vivo, come dimostrano i piedi di numerose statue femminili conservate nella Gipsoteca di Possagno, caratterizzati da un mignolo lievemente più corto rispetto alle consuete linee anatomiche. Essi risultano ripresi dalla stessa forma, che si ripete in svariati modelli. Le ridotte dimensioni del mignolo dipendono, come risulta chiaro, dalla minor forza che il piccolo dito riesce ad esercitare sulla "conchiglia" di gesso fresco.
"Può essere anche un'ipotesi - dice Mario Guderzo della Fondazione Canova di Possagno, curatore di numerose mostre dedicate allo scultore -, ma è un'ipotesi che, per quanto si basi sull'osservazione delle opere, non è supportata da alcuna documentazione scritta. Canova, nelle lettere al fratello, racconta minuziosamente il proprio lavoro, entrando nei particolari, spiegando le tecniche. Certo, nel caso di un calco dal vero, trattandosi di un argomento delicato, potrebbe non averne indicato la pratica. E' comunque vero che il seno di Paolina presenta quello schiacciamento che ha messo in evidenza l'indagine condotta da Stile".
Resta il fatto che il rilevamento diretto della forma sui corpi venne sempre negato dagli scultori, come l'uso delle lenti e degli specchi da parte dei pittori. Questi dettagli appartenevano al segreto dell'atelier. E' il caso - tra gli altri - di Caravaggio. Soltanto negli ultimi anni si è compreso il motivo per il quale l'artista non giungeva al dipinto dopo un percorso di preparazione che transitasse attraverso il disegno. Egli agiva - come ha dimostrato sperimentalmente David Hockney e come hanno testimoniato, alla prova radiologica, i tratti incisi con il dorso del pennello sulle tele - mediante apparati ottici che gli consentivano di proiettare direttamente sul supporto l'immagine dei soggetti da ritrarre o da rappresentare. E l'indicazione della tecnica caravaggesca, che traeva origine dalle pratiche della pittura fiamminga, viene oggi unanimemente accettata quale dato di fatto dagli studiosi, senza che la figura del grande maestro sia sminuita.
La più estesa diffusione della presa di calco dal vero si manifestò, come abbiamo anticipato, negli anni del realismo ottocentesco, suscitando violentissime polemiche e contasti. La concorrenza della fotografia - e la sua capacità di mutare la modalità di osservazione del mondo - era divenuta, nella seconda metà del secolo, troppo evidente perché la scultura svolgesse un ruolo di mimesi nella quale la parte evocativa prevalesse sulla verità delle fisionomie e dei corpi. Da qui discendeva un ricorso massiccio al gesso applicato direttamente sulla pelle dei modelli, mentre si moltiplicava il rilievo delle mani o dei volti delle persone defunte che divenne una moda, come necessario completamento tridimensionale dei ricordi fotografici. Agli scultori dell'Ottocento e del primo Novecento, abili artigiani modellatori - soprattutto italiani - mettevano a disposizione una messe copiosa di arti in gesso, da assemblare.
"Spesso gli scultori - scrive Papet, sempre nel catalogo A fior di pelle - erano assai riluttanti a confessare la loro pratica personale del calco dal vero e insistevano sull'aspetto strettamente privato di questo modo d'operare, come Bartholomé al riguardo del monumento funebre per la prima moglie: ‘Si trattava di una cosa destinata a non essere mai esposta' disse. Ma - continua Papet - fino agli inizi del Novecento i gessi presentati singolarmente o in gruppo, fissati ai muri o appesi alle scaffalature, compaiono nella maggior parte delle immagini di laboratori d'artisti". E mentre Baudelaire sosteneva che "l'obiettivo della scultura non è di competere con i calchi", sottolineando la necessità di una ricerca creativa pura, che partisse dall'anima stessa dell'artista, non si spegnevano gli echi delle polemiche sorte attorno allo stesso Teseo del grandissimo Fidia.
"Mai come negli anni Ottanta dell'Ottocento - prosegue Papet - la scultura francese si era orientata verso una rappresentazione mimetica della realtà, tanto nell'iconografia quando nella resa del soggetto. Ma il realismo, le cui implicazioni estetiche avrebbero potuto riabilitare il calco dal vero, confermano, malgrado tutto, le posizioni tradizionali nei confronti di questa pratica, come testimoniano le annotazioni personali di Dalou: ‘Il calco dal vero e la fotografia non sono né saranno mai considerati arte. L'arte esiste solo attraverso l'interpretazione della natura, qualunque essa sia; d'altronde (…) è lo spirito della natura che va ricercato a proprio modo. (…) Lo sforzarsi di restituirla tale e quale è un grossolano errore'".
Né, dall'accusa, fu risparmiato Rodin, quando esibì al Salon del 1877 L'Età del Bronzo.
In quegli anni emerse anche il dibattito sulla presa diretta delle forme del corpo come sussidio alla modellazione - comportamento considerato moralmente lecito, poiché lo scultore, dopo aver preso il rilievo, lo utilizzava quale oggetto di osservazione e non lo applicava direttamente, come protesi, alla statua d'argilla - e sull'uso diretto e globale del modello, tratto dalle applicazioni del gesso al corpo di colui che doveva essere effigiato.
Ma com'era possibile giungere ad identificare una linea così labile come spartiacque tra l'arte vera e il prodotto di procedure che non si profilassero che come realizzazioni d'alto artigianato? Scriveva Gauguin, battendosi a favore di un'arte dello spirito e del simbolo: "Sapete cosa sarà presto il colmo della verità? La fotografia quando restituirà i colori, cosa che non tarderà a verificarsi. (…) In scultura è la stessa cosa; siamo capaci di fare dei calchi dal vero perfetti; un abile modellatore vi farà una statua di Falguière (un noto scultore dell'epoca, ndr) come e quando vorrete".
Con certezza, l'uso dei calchi, in Canova, fu comunque limitatissimo e soprattutto finalizzato a risolvere con maggior rapidità e leggiadria i problemi della modellazione. Il suo furto del fuoco tiepido della carne non può essere pertanto punito con la stessa pena lancinante che venne inflitta - per restare nel mondo classico - a Prometeo.
Tutto parte da questo seno
Il calco in gesso del seno di Paolina realizzato da Antonio Canova e conservato nel Museo Napoleonico di Roma.
L'oggetto venne ereditato o acquisito presso parenti dal conte Primoli, discendente di Luciano Bonaparte, principe di Canino, fratello di Paolina. E' possibile notare, in buona evidenza, lo schiacciamento del capezzolo e dell'area sovrastante, che risulta gravata da un peso invisibile. L'effetto rinvia inequivocabilmente a un calco dal vero, eseguito sul tronco della donna, collocata in posizione verticale, poiché lo schiacciamento venne provocato dal peso del gesso che fu apposto da Canova sul seno della sorella di Napoleone.
Lo stesso schiacciamento in Venere che esce dal bagno
Il seno di Paolina, caratterizzato dallo schiacciamento del capezzolo provocato dal peso del gesso appostole da Canova sul petto, appare anche nella Venere che esce dal bagno; l'opera venne realizzata qualche anno dopo (1812).
Per questa scultura fu accusato di avere fatto calchi dal vero
Canova, Dedalo e Icaro. L'opera, conclusa nel 1779, appartiene al primo periodo dello scultore. Attorno a queste due figure sorse l'accusa di utilizzo di calchi dal vivo, come pare evidente dal volto del vecchio, che non rivela l'idealizzazione dei tratti somatici che diventerà elemento caratterizzante di numerosi lavori del maestro di Possagno.
I piedi delle sue donne di marmo rivelano una matrice comune
Un particolare di Amore e Psiche stanti. Segnaliamo la verità di questo piede, che si ripresenta in numerose altre statue del Canova. Ciò che induce a pensare alla realizzazione di un calco è il mignolo, che è lievemente più corto rispetto alle più diffuse proporzioni anatomiche. Ciò potrebbe dipendere dalla minor muscolatura del piccolo dito, che non ha esercitato la stessa pressione delle altre falangi sul gesso del calco.
Una stupenda verità che imita le forme di divine adolescenti
Un dettaglio delle Tre Grazie, mitico gruppo canoviano al quale, per i tipi dell'Electa, ha dedicato uno splendido volume Ranieri Varese. Lo studioso concorda con la tesi di Maurizio Bernardelli Curuz sull'uso di calchi dal vero in Canova, sottolineando che questo sistema fu probabilmente utilizzato per alcune parti dei corpi e per la rappresentazione dei bambini. Ma la pratica, nel caso dell'artista di Possagno, fu comunque piuttosto limitata, a differenza di molti scultori della seconda metà dell'Ottocento, che realizzavano statue attraverso rilievi, di fatto, integrali.
L'effetto straordinario del gesso apposto sul volto di un uomo
Nell'immagine osserviamo il calco dal vero del viso di Louis Steinheil con le mani sugli occhi, realizzato da Adolphe Geoffroy-Dechaume (1816-1892). A queste procedure è dedicato un importante catalogo del Museo Vela di Ligornetto, in Svizzera, intitolato A fior di pelle. Il calco dal vero nel secolo XIX. Il libro si occupa soprattutto delle metodologie "non ortodosse" nella scultura della seconda metà dell'Ottocento.
Pubblicazione originale StileArte, numero 110, luglio - agosto 2007
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