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L’incanto al termine della fine Flavio Arensi La rappresentazione della realtà e la bellezza sono in arte la stessa cosa, e […], dove si sente che manca la bellezza, manca nient'altro che la perfezione stessa del rappresentare. Eppure sopravvive il lento sordo tradimento che la vita esercita a nostro danno infliggendoci un’immortalità spuria, composta di desideri all’infinito e carne mortale, quando resiste il ripudio languido dell’epilogo, del suo continuo imbroglio. Doriano Scazzosi avverte il senso liminale della nostra insopportabile attesa, ossessiva nell’abbandonarsi allo stato di trance che ancora qualcuno chiama vita, e invece significa soltanto l’indugio prima della sfioritura. Allora, le sue peonie che rammentano all’uomo l’armonia suprema e divina dei primordi, di un paradiso terrestre oramai dimenticato, stagliano nell’assurdità del nostro tempo presente come il memento di qualcosa sfuggito, appartenutoci agli albori della specie, la nostra perduta, condannata, stirpe figlia di Adamo. E i suoi angeli, estremi nell’inquietudine caravaggesca, proiettati negli incubi degli astanti, piccoli delicati bambini spersi nell’oscurità della nostra inconsistenza. Scazzosi utilizza il vincolo della grazia raffinata per debordare il segno di ciò che invece ci si oppone, mentre la sua audacia di narratore sfiora i sentimenti coll’arguzia della morte. Non durano forse un giorno le farfalle? e i petali dei suoi motivi floreali per quanto resisteranno al trascorrere delle generazioni? Lui, lui persegue la strada della bellezza, che significa ricercare una parte della verità, non il suo pieno asserto. Addolora constatare come anche la menzogna dimostri una propria estetica, quella che tanto Novecento ha prodotto proditoriamente, portando l’uomo alla rovina dei sensi e dell’anima. Per san Tommaso l’onesto non s'identifica col bello, poiché la bellezza è ben più tremenda e assoluta dell’onestà, travalica l’educazione per divenire affronto; affronto gettato contro i dispensatori della mediocre debolezza contemporanea. Certo, siamo figli dell’inganno ed esso designa le prostrazioni sifilitiche cui abbiamo votato la prole e la figliolanza della figliolanza; malattia spirituale anziché somatica: sventura peggiore. Scazzosi calpesta il battuto di altre epoche, non per simulare l’Età dell’oro, che forse la nostra schiatta ha mai neppure vissuto, bensì cercando nel filo della tradizione la modernità del quotidiano: fra angosce, timori, conquiste, il suo unico interlocutore. Tuttavia la misura dello spazio, degli oggetti, della natura, non bastano a elencare la struttura del vissuto, dunque serve il pittore intensifichi il dialogo silente con l’invisibile, e in questo ambito muovere nel riempimento del senso; egli, nello studio indaga l’immagine, la parte conclusiva del mistero che giace in ogni atomo dell’universo; s’interroga e trattiene un lume di speranza offerto agli altri. Forse un grido allucinato, la certezza di una realtà che non conclude nelle circostanze ovvie e normali di tutti i giorni, ma trascende e scalpita nel contesto superiore, a noi affatto ignoto. L’essenza del nostro evo si legge negli sguardi dei morti, nelle cataste dei cadaveri dell’Olocausto, e di ogni olocausto avvenuto in qualche paese distante, celato alle parole dei giornali e dei politici, alle prediche dei sacerdoti e alle tasche dei filantropi. Al disagio dei loro occhi si assommano le grandezze minuscole di chiunque interrogandosi individua la pace e, questa pace, la illustra ai sodali, perché tutti ne beneficino. L’artista è un fortunato profeta; Sacazzosi rileva l’ambizione del riscatto, motivandolo in pittura, e questa via di uscita comunitaria si chiama incanto: esso accade al termine della fine, nel mentre si dispera una soluzione e invece si scopre l’immensità di qualunque piccolo gesto, elemento, sostanza. Gianfranco Ferroni talvolta dipingeva un insetto schiacciato, e quella bestiola aveva due teste, una urlava ma non si sentiva, nondimeno emetteva i suoi gridi. Adesso i latrati dei martiri e dei carnefici che ci hanno preceduto riempiono il cervello, anzi lo percuotono colla violenza esacerbata dell’odio. Non siamo più della stessa materia d’incubi di cui erano i nostri antenati, comunque mettiamo in croce altrettanti cristi poi, barbaramente, ne deponiamo le spoglie nei sarcofagi della memoria. Nulla di nuovo sotto il sole. Scazzosi non dipende dall’insofferenza eclatante di molti altri colleghi, però accomoda il dramma e l’esaltazione nel passaggio lento del pennello, nella cancellatura sostanziale dei soggetti, lasciati in tregua, e dei loro pigmenti velati. Questa è di fatto una sospensione esistenziale, una messa tra parentesi ad perpetuum. Pur sempre una sospensione, ritmata da perizie e alienazioni. Di tanto in tanto scalda una nota dolente, poi sublima la nostalgia, quindi riecheggia sinfonie disperate o rasserenanti. Il disegno determina lo stacco principale; la parte avviata e mai conclusa dei quadri, traspare da sotto la materia colorata, come l’ossatura di un’idea impalpabile che sbozza l’incompletezza di ognuno. I giorni spesso tramontano privi di criterio, quasi fossero manchevoli a priori, senza poter individuare la terapia per la tragica consapevolezza di vivere un’esistenza difettosa; si tratta di un vuoto feroce, quello lasciato dalla nostra natura perfetta e ultramondana smarrita nell’atto del peccato originale, e là, in quella terra mai più toccata, nel Paradiso della Genesi, abbandonato insieme a qualsiasi promessa, che non fosse di carne e ossa, dunque vana. Si crede, di poter riempire i minuti colla passione dei sensi, sordi all’aumentare dei compleanni, oppure edificando palazzi e ricchezze; presto o tardi svaniranno. Invece, nel cuore soffice della notte, nel caldo abbraccio dell’aurora, nello stupefatto equilibrio del cosmo e del suo artefice, nell’intelligenza, nell’arte, si nasconde l’antro in cui riparare. Qui morire. In questa bellezza cercare la tomba, come in Arcadia i pastori di Poussin, lasciando un mistero ai posteri, finanche una profezia che li tenga svegli, inchiodati alla loro vera natura; Scazzosi detiene il privilegio del dipingere; in fondo è un carisma divino, una prerogativa del Creatore dare forma ai pensieri. Qui risorgere. Nelle sue tavole egli pone se stesso e l’intimo sgomento dei suoi compagni di ventura, che siamo noi tutti, chiamati a decifrare un sistema complesso di simboli e accadimenti. L’arte è la porta aperta verso il cuore del Creato, la soglia del Paradiso. I suoi piccoli eleganti angeli sono l’anticipazione del trionfo definitivo. Sfioriscono le peonie, marciscono i gambi. Ad ogni morte segue una vita, a ogni fine un inizio. Seregno, aprile 2003 Articolo inserito il 12 maggio 2004 |