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L’arte è un affare: di cuore Di Flavio Arensi Se la storia del Novecento insegna qualcosa è proprio il proposito degli artisti di trovare una strada comune di percorrenza: un progetto teorico unitario in grado di stabilire canoni estetici certi e commisurabili entro cui crescere sistematicamente; e, se possibile, deriva una lezione accessoria, forse ancora più intensa, che accerta l’unicità di ogni spirito creativo, a stento imbrigliabile nel contesto rigido e preordinato, dove soltanto le menti mediocri riescono a perdurare nel lungo periodo o nell’inverno della loro utopia. L’arte - di norma - non è affare economico o di gruppo, ma di cuore, insomma succede di avvertire un’impellenza superiore al disagio del vivere o del sopravvivere, per dichiararsi senza tregua, fino a dissipare. Esistere è un viaggio personale, condivisibile per sentirsi meno soli. Si può comprendere l’esigenza per taluni di ritrovarsi a discutere del proprio malessere, o delle conquiste quotidiane tanto del creare quanto del pensare, reperendo nella comunità di obiettivi il luogo adeguato all’osservazione distaccata di un progetto invece affatto proprio e intimo. Il gruppo serve da collettore di idee, esperienze, intuizioni, nel quale coltivare però l’unicità del proprio essere irriproducibile. Il Futurismo, per esempio, rispecchia l’esaltata vicenda poetica di un uomo come Filippo Tomasso Martinetti (1876-1944) che, aprendosi ad altri compagni, condivide un sogno, lasciando che innestino sul tronco solido della sua lucida follia la loro. Anche le figurazioni spaziali di Lucio Fontana (1899-1968) divengono la casa comune di chi oltrepassa il valico stretto della materia oggettiva verso il trionfo del mistero che stanzia ben oltre le immagini. Negli anni Cinquanta l’Italia conosce tanti piccoli e grandi proclami o manifesti artistici, molti dei quali naufragati nell’atto stesso della loro redazione, oppure proseguiti per utilità pratica, pur senza un vero collante rigenerativo. Proprio in tale decennio, quando il Manifesto blanco s’arricchisce di altre sei dichiarazioni di intenti e di poetica, i nucleari affondano il loro passo spesso stridulo, e la polemica fra Realismo ed Astrazione prende campo, parallelamente al definirsi dell’Informale, un gruppo di giovani artisti si incontra a Brera, divisi fra le aule dell’Accademia e i tavoli del bar Giamaica o quelli della Titta: Giuseppe Banchieri (1927-1994), Floriano Bodini (1933), Mino Ceretti (1930), Gianfranco Ferroni (1927-2001), Giuseppe Guerreschi (1929-1985), Bepi Romagnoni (1930-1964) e Tino Vaglieri (1929-2000) evitano di coniugare i loro lavori a schemi prestabiliti, bensì fissano lo scambio osmotico di esperienze vitali che foggiano - senza matrice teorica - il racconto talvolta commosso e tragico di un clima o di una situazione umana ben maggiore dei confini di una temperie artistica. Si tratta di percepire i mutamenti sociali prima occorsi alla metropoli, poi all’intera nazione, in un contesto fortemente lacerato da contrapposizioni ideologiche e ancor più dai ricordi di ciò che la Guerra ha condotto o tolto. Per molti di loro descrivere la vita equivale a resuscitare le piccole ingiustizie di ogni giorno, gli eroi sconosciuti che formano il quadro della normalità, scavando nella loro coscienza di vittime e nel contempo eventuali carnefici; i racconti neorealisti del cinema italiano, la letteratura che inizia a chiedere una sospensione ultra-reale, l’eleganza della cultura borghese mescolata alle necessità del popolo, invischia la storia di Milano fra le parole e le immagini di autori come Giovanni Testori (1923-1993), Dino Buzzati (1906-1972), Luchino Visconti (1906-1976), Vittorio Sereni (1913-1983). L’Italia del Dopoguerra è ancora segnata dalla devastazione e dalla povertà, nelle contraddizioni più aspre, fra testimonianze alla Albert Camus (1913-1960), come grido disperante della condizione indigente, e la pretesa di una Ricostruzione foriera di novità insieme al benessere. La sensazione di sperimentare un momento tragico nell’arte italiana esplode al termine del Conflitto, come un grido liberatorio che investe la cultura figurativa, nella quiete che spande alla fine della tempesta lasciando le rovine del suo infuriare; si tratta di una nuova condizione che insiste sul coinvolgimento politico (ideologico) degli artisti (e dei critici) al servizio del Partito Comunista, in cui la figura di Renato Guttuso (1912-187) si scopre fondamentale, laddove il fenomeno di Corrente resta un’eco lontana che non soddisfa le nuove generazioni di artisti, né unisce le vecchie schiere ormai sparpagliate in nuove missioni. Se la cerchia braidense serve da album di raccolta delle differenti intelligenze artistiche, fra vecchi e nuovi maestri senza distinzioni di età o linguaggio, sono le lezioni di Aldo Carpi (1886-1973) a formare l’animo di Romagnoni, Vaglieri, Ceretti, Guerreschi e Banchieri, al contrario Ferroni - per contrasti famigliari - diserta l’Accademia, e il giovane Bodini si trova dislocato nell’aula diretta dallo scultore Francesco Messina (1900-1995). Per costoro Carpi diventa una figura importante, centrale, sia permettendo, nel 1953, di utilizzare una parte dello spazio della ex chiesa di Brera adibita fino a quel momento a deposito, sia nel reperire a Guerreschi un contratto lavorativo con un gallerista americano. Condividere l’atelier per dipingere, e spesso per vivere, sia esso quello dall’Accademia, che l’ormai celebre palazzo di corso Garibaldi 89, significa lavorare liberamente nelle ore doposcolastiche, dando fiato alle discussioni più o meno proficue intorno alla cultura: dall’ultimo libro letto al commento politico, fino alla definizione dell’urgenza di individuare un rapporto più personale col sistema delle cose e degli eventi, percorrendo dunque in senso contrario la strada invece battuta dai principali protagonisti dell’arte di quel momento. Trovare un nesso tra l’oggetto e il soggetto ritratto equivale per questi giovani a rapportarsi alla realtà per quello che essa è, senza echi gloriosi o mitologici. Nel 1953 Milano accoglie una grande antologica di Pablo Picasso (1881-1973), dove il dipinto Guernica - ormai celeberrimo negli ambienti artistici - catalizza il dibattito culturale, senza tuttavia condizionare questi giovani ben consci dei limiti dell’imitazione pedissequa del dettame picassiano nel quale sono incorsi non pochi colleghi della generazione precedente. Pur ammirato, il lavoro di Picasso è insufficiente a colmare le preoccupazioni di molti artisti, che - benché isolati dall’esperire direttamente le tendenze del resto d’Europa (se non per alcuni nell’occasione di un viaggio emozionante a Parigi) - possono altresì usufruire dell’ampia biblioteca braidense avvicinando comunque le opere dei principali maestri stranieri. Così, De Stijl o la Bauhaus, Piet Mondrian (1972-1944), die Brücke, la Secessione viennese o Chaïm Soutine (1893-1943), fino alle Periferie di Mario Sironi (1885-1961) o di Umberto Boccioni (1882-1916), nonché l’occhio aspro di Lorenzo Viani (1882-1936), sono al centro delle discussioni formali, imprimendo certo un marchio che pur leggibile non riesce a togliere personalità ai loro lavori. Si va modulando dal 1954 - anno di licenziamento dall’Accademia di Guerreschi - una sorta di evasione dall’assurdo della vita, non come autobiografia di una sconfitta, bensì diario della normalità. Se Guerreschi in questo primi quadri cerca una figurazione semplice, reale ma non realista, con risonanze cólte dal Quattrocento italiano fino al picassismo neoclassico, Ceretti e Romagnoni vivono una simbiosi tematica e narrativa similare costituita intorno ad una materia pittorica inspessita con certi elementi di cultura francese, tuttavia d’intento acerbo eppure autonomo. Tra il 1954 e il 1956 l’atmosfera che si legge nei quadri è un racconto speso a fermare la realtà nel suo complesso mostrarsi nel grigio chiaro di certi sentimenti sospesi nella nebbia della vita. L’incontro coi testi dei filosofi francesi, dalla Nausea di Jean Paul Sartre (1905-1980) a L’uomo in rivolta di Camus, con incursioni nella scrittura totalizzante di Søren Kierkegaard (1813-1855) e della sua soggettività, rispondono perfettamente al loro malessere interiore, e benché non si possa mai parlare di una adesione piena a certi temi dell’esistenzialismo parigino, se ne avverte una lunga digestione, cui s’aggiunga quella aria tediosa e spenta degli autunni padani. Non sorprende dunque che Marco Valsecchi (1913-1980) nel 1956, nel recensire le mostre milanesi di Ceretti, Guerreschi e Romagnoni al Centro san Fedele, e di Banchieri e Vaglieri alla Galleria Pater, abbia annusato "un po’ di esistenzialismo e un po’ di quella amara condizione di "uomo senza soluzioni" di certo cinema francese"1; Giorgio Kaisserlian, nella prefazione del catalogo edito dal Centro, tenta una prima denominazione: "C'è insomma in questa volontà di realismo fenomenico l'impegno di superare la cronaca, ma di porre in contatto il particolare della percezione concreta con l'universalità di un significato senza passare dalle lenti affumicate di un'ideologia che ha forse risposte prefabbricate per tutto, ma che mutila le prospettive di un pensiero libero e spregiudicato"2. È invece desunto dall’articolo di Valsecchi3 il nome affibbiato al gruppo, sottolineandone definitivamente la condizione di ricerca. Una condizione parzialmente sfuggita a Mario De Micheli (1914-2004) che scrive il testo della mostra di Vaglieri e Banchieri alla Pater, e dei quali delinea accuratamente il tessuto stilistico avvicinandoli all’esperienza dei pittori de La Rouche parigina o quella del Portonaccio di Roma, con le tipologie del realismo di Renzo Vespignani (1924-2001) e Marcello Muccini (1930), però dimenticando Alberto Sughi (1928), e senza mai citare gli altri compagni di avventura milanesi (forse perché coinvolti da un coté cattolico). Si tratta soltanto di accertare la loro voglia di rappresentare la contingenza del tempo, il suo manifestarsi come occasione fenomenica, nell’ottica individuale il senso della vita e recuperare l’identità perduta. Identità che deve superare gli schieramenti ideologici, o almeno cogliere ogni possibilità di esternazione, senza vincoli politici; la mostra al Centro san Fedele (gestito dai gesuiti) è la prima seria occasione di manifestare gli intendimenti della nuova indole artistica, e per Vaglieri si trasforma nel pretesto di una campagna ideologica, rinunciando all’invito di esporre: egli, difatti, non intende recedere dalle polemiche fra clero e comunisti, quindi preferisce (con coerenza) pagare lo scotto della sua posizione per altro genuina. Dal punto di vista politico il 1956 risulta un anno di particolare importanza, dopo la denuncia dei fatti d’Ungheria molti artisti non rinnovano la tessera d’iscrizione al Partito Comunista Italiano, e molti, compreso i Realisti esistenziali, capiscono di non potere incatenare il fatto estetico a quello politico. Tuttavia, proprio in quest’anno Vaglieri e Ferroni compiono un viaggio nelle terre siciliane, riportando a Milano le impressioni di un’umanità dai valori etici arretrati, di un corpo sociale durevolmente immerso nelle rigide pastoie della sottomissione esistenziale, col risultato pratico di far scaturire l’ultimo baluardo del loro più stretto realismo pittorico, e l’emersione di una nuova poetica dell’intimo, non più soltanto della visione oggettiva, ma la piena e accreditata compartecipazione personale. Non a caso la critica demicheliana, in un articolo pubblicato da L’Unità il 2 novembre del 1956, sferza la svolta dei due come mancante di mediazioni nuove e filosoficamente opportune: accusa loro di sommarie e sbrigative soluzioni troppo affini a Bernard Buffet (1928-1999), Bernard Lorjou (1908-1986) nonché alla poetica di Ennio Morlotti (1912-1992) del 1945. Non potendo che rilevare la diversità di materia pittorica e di traguardi che assolutamente slegano i due giovani alle esperienze post-cubiste del lecchese, e accettati i giusti paragoni coll’opera dei due francesi (forse più per Ferroni), insieme alla suggestione per Ben Shahn (1898-1969), si avverte in De Micheli un sostenuto fastidio - quasi un accorato senso di tradimento - alla rinuncia dei due artisti di valori meditati o mediati dal pensiero culturale comunista. Il critico milanese non comprende subito (in seguito lo farà) quanto l’uscita dalla casa realista (sociale) dei due autori marchi invece il loro pieno approdo al reale-privato. Quest’ultima è un’esigenza collettiva che tocca anche gli altri colleghi, e direi l’intero scenario della giovane pittura milanese che gravita intorno a questi personaggi. Il risultato più eclatante si ritrova nell’elaborazione di un sentire creativo nuovo, costruito sul racconto, sulla correlazione fra essere e ambiente, cercare la verità per testimoniarla, senza adeguarsi alla bella pittura fine a se stessa. Nel 1957, anno in cui Banchieri vince il premio san Fedele, Guerreschi (lo ha ricevuto nelle edizioni del 1951 e del 1956), Romagnoni e Ceretti smettono le istanze passate in ragione di una pittura tragica e travolgente, in cui le fisionomie perdono i contorni precisi dei primi lavori per aprirsi all’intorno con una matteria grassa stesa per grandi campiture e vortici, quando il più giovane fra loro, Bodini, realizza una serie di sculture lignee dalla memoria romanica e dal vissuto totalmente moderno. Con la sua opera plastica, il Realismo esistenziale acquista la tridimensionalità mancante e che pure certe Città di Vaglieri, alcune periferie di Banchieri, o gli interni di studio ferroniani rilevano l’assoluta necessità di allargare la visuale estendendola in direzione dell’osservatore. Bodini (presentato alla sua prima personale del 1958 non a caso da Guerreschi) capta l’urgenza di un drastico rinnovamento del linguaggio, senza tuttavia tradire la parte buona della tradizione, anzi cercando in un salto spaziale all’indietro, i motivi del suo operare. Nel frattempo, lo sviluppo dei principali temi informali nella pittura lombarda, e la buona conoscenza delle propaggini estere, conduce loro ad aprirsi alle innovazioni straniere mitigate dalla forza autarchica del loro genio. Per certi versi, guardando alcune madri di Ferroni, nel taglio sprezzante e verticale che potrebbe essere di Fontana più che di Alberto Giacometti (1910-1966), viene in mente il legame complesso de La cognizione del dolere di Carlo Emilio Gadda (1983-1973), mentre la forza di Francis Bacon (1909-1992) entra in altri ritratti, però senza cadere nella sua ripetizione pedissequa. Nelle sue città egli pone i segni di Wols (1913-1951), come Bodini li accoglie sulla superficie delle sculture, nel tempo definendoli con maggior nettezza, fino a segnare la pelle dei suoi manufatti con solchi veri e propri a partire dagli anni Sessanta, basti riferirsi al petto dell’ "ucciso" ritratto nel Lamento. Le contaminazioni informali raggiungono Romagnoni e Ceretti, come i cieli grigi di Banchieri, ma è nella connessione con la pittura inglese che si deve iniziare ad indagare, sicuramente Graham Sutherland (1903-1980), e poi dal 1964 la Pop Art (pure con la branchia inglese), però non per Romagnoni che può contare uno stilema affatto personale e unico. È interessante notare come a partire dal 1960 cambino di nuovo atmosfera e materia pittorica; la stesura della pasta colorata si alliscia, Romagnoni, Ceretti e Vaglieri tendono a tirare il colore, Guerreschi estremizza i motivi e le forme, Ferroni allarga l’orizzonte, Banchieri definisce l’immagine; e per tutti entra in gioco una relazione più serrata con il mondo e gli oggetti. Il lascito esistenzialista affievolisce ed emergono piuttosto le posizioni dell’école-du-regard, di cui subito viene in mente la lezione di Michel Butor (1927) che costruisce la sua letteratura su descrizioni della realtà volutamente impersonali e minuziose fino all'ossessione, attente al fluire del tempo o alla simultaneità degli eventi, alle trasmutazioni lente della coscienza, alle infinite sfaccettature degli oggetti. Nel libro Mobile (1962) Butor tenta di organizzare un collage, come Romagnoni fa nei suoi lavori di svolta dopo il ’60, e più avanti nei Racconti che sono il vertice della sua maturità purtroppo tronca. Che abbiano o meno approfondito la conoscenza degli scrittori dello sguardo, poco importa, se torniamo all’assunto che, come tutti i grandi maestri, riescono a concretare un clima vasto e articolato non soltanto di critica, ma d’operosità intellettuale. D’altra parte, ben prima delle accuse di Jean François Lyotard (1924-1998) o di Karl Popper (1902-1994) questi artisti rilevano i pericoli ammaliatori della televisione, nel breve ciclo dedicatogli da Vaglieri ("ecco la grande seduttrice. Andavamo tutti al bar, a farci rovesciare sulla testa tanta fufa e qualche cosa bella, tanti amorazzi e qualche tragedia. […]. Di questi quadri ne feci una decina"4), fino alle immagini di Romagnoni espressamente intitolatele. I realisti esistenziali risolvono - di fatto - la polemica fra Realismo e Astrazione, sommando la maniera informale movimentata (e in burrasca) alla lucidità realista, pur in scelta ad entrambe perché esattamente fermatisi a metà strada fra ciò che è percepito e chi percepisce. Un gioco fra oggetto e soggetto che in Banchieri e Ferroni risulta nell’ampia analisi delle visioni interno/esterno; sono questi i lavori in cui Ferroni raggiunge la capacità più autonoma, non soltanto nella logica della descrizione, ma per vigore pittorico, non affatto sottomesso al taglio fotografico dei lavori più tardi, né colmo della rigidità di certe prime esecuzioni: il lago, Tradate, le figure, le nature morte, ogni oggetto si assomma in una costruzione che però inizia a distinguere l’io dal mondo; ugualmente Banchieri, con una tecnica più suadente, ancora più emotiva, pone i semi delle sue future riuscite, e di un realismo che di lì a breve perde il tessuto esistenzialista per aprirsi definitivamente all’esterno. Il passo successivo di questi autori, infatti, è l’abdicazione dallo strascico fra intimità ed alterità per guadagnare la pura visione emancipata delle cose. Guerreschi, ormai quasi alla metà degli anni Sessanta, prima del 1964, esibisce una serie di quadri che rappresentano i drammi umani in stregua d’accusa. Egli non smette di impersonare il popolo della shoa assieme però a quello tedesco, e nel suo successivo testo Abbozzo di ritratto in chiave semiseria5 produce una auto-orazione funebre dai toni lirici enormi, in cui non soltanto si vede carbonizzato, ma accentua il senso di sconfitta del suo essere uomo e soprattutto uomo vivo seppure già morto. Il fatto che, Guerreschi, cominci a riservare tanta parte alla ritrattistica induce senz’altro a ritenere ormai concluso il passo che dal sé porta all’altro, nella scissione perentoria dei ruoli. Non è più commistione ma distacco. Così anche Banchieri e Vaglieri lasciano al puro racconto esterno il compito di descriverli: non dunque un mondo che li rispecchia mentre loro partecipano dei suoi avvenimenti, ma un mondo che li guarda, talvolta distrattamente, altre meramente narrando i propri affanni. Le sculture di Bodini, affollate di uomini rapaci dai tratti spigolosi, accattano la disillusione; Ferroni sceglie il suo esilio dal mondo poi proclamato con la svolta definitiva degli anni Settanta. Nel 1964, mentre alla Biennale di Venezia i protagonisti della Pop Art americana fanno il loro rumoroso arrembaggio, cambiando le sorti di molti artisti europei, e la morte di Giorgio Moranti chiude come metafora l’era di una pittura dell’intimità, Bodini firma una scultura dal sapore soteriologico, Feto, entrando nelle viscere della maternità e strappando come l’ecografia l’anticipazione di una vita in fieri. Emblematicamente, questa nascita, questo inizio di esperienza esistenziale, viene alla luce nello stesso anno in cui Romagnoni defunge nell’incidente occorso durante una sessione di pesca subacquea al largo della Sardegna il 19 luglio. Come Bodini diventa testimone e sigillo dell’avvento del feto, Ceretti suo malgrado è testimone e sigillo dei drammatici attimi della morte dell’amico fraterno. Quel giorno non soltanto scompare uno dei più importanti protagonisti del Realismo esistenziale, ma finisce anche un’epoca in cui il travaglio del mondo è il travaglio della persona e viceversa. Iniziata sui banchi di Brera, la vicenda di questi sette protagonisti non ha mai concesso nulla agli schemi della classe intellettuale, anzi ha dimostrato che non serve una struttura teorica, un manifesto arzigogolato, per raggiungere lo scopo di significarsi e significare la realtà. L’arte rimane, ed è giusto lo sia, una parabola di individui soli che, non accettando la propria solitudine, cominciano a raccontare una storia. E questa storia è di tutti e per tutti. 1. M. Valsecchi, Un gruppo di giovani, in Il Giorno, Milano, 30 aprile 1956 Articolo pubblicato il 29 ottobre 2005 |