La biografia di Mimmo Paladino
La biografia di Brian Eno
Opera per l'Ara Pacis. Mimmo Paladino. Musiche di Brian Eno
Ara Artis di Achille Bonito Oliva
Conversazione con Mimmo Paladino di Federica Pirani
Necessità e bellezza di Ferdinando Scianna
Paladino/Eno all'Ara Pacis di James Putnam
Breve introduzione alla musica generativa di Brian Eno di Michael Bracewell
Eno. La musica della mente di Paolo Zaccagnini
Conversazione con Mimmo Paladino
di Federica Pirani
F. P. Intervenire all'interno dell'Ara Pacis ha comportato, anche solo
implicitamente, un confronto con il tema della pace? Peraltro la Pax romana è
molto diversa dall'odierna concezione di pace, alludendo, come suggerisce la
radice Pac (pactus, pactuare), a un accordo tra gli uomini e configurandosi
come “assenza di guerra” o, meglio, come fine della guerra. Prosperità e
benessere, il ritorno all'età dell'oro, ben rappresentato dai rigogliosi racemi
d'acanto e dalla figura femminile che nutre i due gemelli raffigurati nei
rilievi dell'altare, sono i temi che ispirano il monumento antico. Pensi che
l'arte contemporanea ha, o potrebbe avere, ancora oggi un ruolo significativo
in questo ambito?
M. P. Io penso che anche al di là del luogo dove ci troviamo, l'arte sia
di per se stessa portatrice di valori di pace e rappresenti uno spiraglio di
positività. L'arte spinge alla riflessione, alla critica, mentre nei momenti
tragici della guerra l'uomo non pensa.
F. P. Richard Meier, l'architetto dell'Ara Pacis, ha utilizzato la luce
come materiale da costruzione accompagnando il visitatore in un percorso
scandito da diverse intensità luminose. Inoltre, ha evitato l'uso di elementi
curvilinei ritenendo «sia impossibile tracciare qualsiasi altra curva avendo di
fronte il grande cerchio del Mausoleo di Augusto». Ora il grande cerchio in
alluminio che simbolicamente apre la mostra, una figura geometrica sfaccettata
costruita a partire da elementi piani, un moderno “mazzocco”, entra in dialogo
proprio con l'architettura e la scultura antica. Rielaborando il solido
prediletto da Paolo Uccello, che lo trasformava in copricapo fantastico per i
suoi cavalieri dipinti, sembra che questa opera si proponga come soglia,
elemento di passaggio su cui affiorano segni arcaici e antiche scritture.
M. P. Questo lavoro, il grande cerchio nero, è proprio ispirato al “mazzocco”
di Paolo Uccello: è un elemento di gioco che lui adattava a copricapo delle sue
figure, ma è anche un segno guerresco ed un elemento del pensiero. Mi affascina
questa capacità di trasformare una figura geometrica, di studio, in un'immagine
fiabesca e fantastica, anche se ritengo che alla base di ogni progetto
artistico ci sia sempre una riflessione logica, direi razionale. È necessaria
un'ancora razionale, anche se poi viene stravolta dall'intuizione geniale dei
diversi artisti. Qui risiede la qualità dell'opera. Il cerchio è ricoperto di
segni, di graffiti che sono un tema ricorrente in questa mostra. D'altra parte proprio
in questo museo dell'Ara Pacis ritroviamo i graffiti che ci raccontano e
rappresentano le diverse stratificazioni storiche del monumento. È il primo
segno che l'uomo ha tracciato sulle pareti della caverna, un gesto primario, un
graffio nel muro con una pietra. L'opera è comunque in dialogo con
l'architettura contemporanea di Meier e vive nella contemporaneità. Penso che
l'architettura di Meier non sia solo un involucro che esalta le qualità
cromatiche e artistiche dell'Ara ma rappresenti una creazione spaziale
contemporanea che deve essere sostenuta proprio perché costituisce un'impresa
stupefacente in una città come Roma. È il principio della compresenza di arte
antica e contemporaneità che ritengo essere un valore di per sé, al di là delle
polemiche, dello specifico giudizio estetico e della qualità dell'opera che
compete a ciascuno. La possibilità che qualche artista, a cominciare dalla mia
esperienza, possa confrontarsi con lo spazio storico rappresentato dal monumento e, soprattutto, con il segno contemporaneo della nostra civiltà mi sembra formidabile.
F. P. Nel caso dell'architettura contemporanea che avvolge l'Ara Pacis
hai dialogato con le pareti luminose realizzando un'opera permanente, il
mosaico che si affaccia sul Lungotevere. Tra le diverse tecniche artistiche, il
mosaico è quella che più di altre riflette e interagisce con le mutazioni e i
riverberi della luce durante la giornata. Per la mostra, invece, hai scelto uno
spazio diverso, più intimo, direi sacrale. Sei rimasto affascinato dalla
spazialità sotterranea della nicchia in corrispondenza dell'Ara?
M. P. Il mosaico è un'opera che interagisce con la luce. L'andamento
convesso delle superfici del mosaico per l'Ara Pacis riflette, infatti, la luce
zenitale. Quando ho visitato per la prima volta questo spazio sottostante,
rimasi colpito dalla “cella” centrale che ha una strana configurazione
labirintica e a sua volta contiene la piccola nicchia, un fulcro, sottostante
all'Ara. Ho collocato proprio in questo spazio una scultura, realizzata qualche
tempo fa. La figura guarda verso il muro e volge le spalle al visitatore. Dalla
sua schiena partono dei rami arborei. Ho usato quest'opera in un'installazione
recente realizzata per un acquedotto tra le montagne del Sannio. È l'evocazione
del rabdomante, un'immagine umana che cerca e scopre le fonti d'acqua, ma è
anche, allegoricamente, la figura dell'artista che quotidianamente si pone
interrogativi e ricerca qualcosa.
F. P. Credo che l'aspetto più interessante di questa mostra all'Ara Pacis,
oltre naturalmente al rapporto imprescindibile col luogo e con il significato
simbolico e storico del monumento archeologico, sia la dimensione complessiva
dell'intervento artistico. Le diverse opere, possono essere contemplate
singolarmente, mostrando la loro particolare attitudine ad occupare lo spazio e
a captare la luce. Considerate, però, nel loro insieme diventano elementi di un
dialogo, di un itinerario iniziatico verso il luogo più sacro, la nicchia sotto
l'Ara, “la camera segreta” dove affiorano dalle pareti, come emersi dopo un
rito sciamanico, segni e figure archetipe da decifrare e interpretare. Tutte le
opere, quindi, si configurano come un'unica installazione complessa interagendo
con gli spazi abitati dalla musica di Brian Eno. Quale è stata l'idea sottesa
alla scelta delle diverse opere che ormai si configurano come un'unica,
articolata, installazione?
M. P. Penso a questo lavoro dell'Ara Pacis come ad un'opera totale,
unica, come se si guardasse un solo quadro. Per questo non voglio appendere
nessun dipinto alle pareti. Tutto il lavoro è pensato, immaginato ed anche
modificato rispetto alla sua idea originaria, soprattutto in base allo spazio
ed anche alle esigenze di Brian Eno che avrà i suoi suoni, le sue forme
concrete.
F. P. Tempo e memoria, miti e linguaggio artistico, sono i territori
attraversati da questi lavori che trovano nell'elemento figurale il tratto
maggiormente significativo e unificante. Corpi in posizione fetale casualmente
affastellati tra le griglie di alluminio di labirintici vagoni, prigioni del
ricordo che viaggiano su binari sconosciuti frammenti di figure combuste
volgono lo sguardo verso il muro; accanto, ieratiche Dulcinee con le braccia di
corteccia cercano di afferrare l'amore fuggente del cavaliere solitario; scarpe
volanti e uccellini di bronzo si affastellano lungo una parete, ironicamente
disattendendo le imposizioni crudeli del dio della gravità; dormienti
pietrificati o figure sognanti attendono il risveglio dall'incantesimo, mentre
al centro, nella “casa dentro la casa”, metamorfosi di segni rossi affiorano
sulle pareti e un rabdomante dai magici rami ricerca la fonte nascosta. Una
cosmogonia sincronica, costruita con reperti di vissuti individuali accanto ad
altri tratti da memorie collettive, segni arcaici del mondo sotterraneo insieme
a morfemi apparsi dalla storia dell'arte. Visitare la mostra non è solo
osservare delle opere ma vivere, quindi, un'esperienza in uno spazio diverso e
senza tempo in cui tornino a circolare storie e leggende che rendano abitabile
ed esperibile esteticamente la vicenda umana.
M. P. La figura è un tema ricorrente in questo lavoro. Quella dalle
sembianze umane è concentrata nello “scrigno” al centro dell'architettura e si
dirama poi in frammenti sulle pareti. Queste tracce derivano dal film El Quijote,
sono i resti di una scena nella quale venivano bruciate statue di legno e un
cavallo. I brandelli, le schegge sopravissute alla combustione sono poi state
fuse e affiorano sulle pareti insieme ai graffiti.
F. P. Ormai da molti anni sembra di percepire che la dimensione scelta
per la tua ricerca artistica abbia una costante ambientale. Non è raro che
realizzi alcune opere direttamente sul muro, come i graffiti al MADRE di Napoli
o i mosaici all'Ara Pacis e al Teatro Argentina di Roma, oppure crei lavori
complessi, dove convivono e interagiscono diverse forme espressive: sculture,
pitture, graffiti, installazioni, interventi musicali. È probabile che questa attitudine
ad interventi in scala ambientale abbia tracciato come un filo rosso che ha
portato a scegliere le tue ricerche estetiche per lavori che potenzialmente
miravano ad integrarsi con l'architettura urbana o con il paesaggio naturale.
Penso a I Dormienti, realizzata nel 1998 per la Fonte delle Fate di Poggibonsi
o ad Una Piazza per Leonardo, opera ultimata nel 2006 per la riconfigurazione
dell'ingresso del nuovo Museo Leonardiano di Vinci, alla Torre Ghirlandina di
Modena ma anche alla straordinaria e ormai storica installazione della Montagna
di sale a piazza del Plebiscito a Napoli che ha trasformato un non luogo in uno
spazio teatrale e popolare all'aperto.
È ormai questa la dimensione che preferisci nei tuoi lavori?
M. P. A ben pensare io non sono mai stato interessato all'opera chiusa
nel rettangolo della tela anche se, naturalmente, ho realizzato molti quadri.
Lo sconfinamento è una dimensione che mi appartiene da sempre. Ad esempio lo
storico lavoro del 1977, emblematicamente intitolato Mi ritiro a dipingere un
quadro, esprimeva un'idea più attraverso il titolo che nella concretezza
dell'opera. Si trattava, infatti, di un piccolo dipinto ad olio ma questo era
inserito e si relazionava con lo spazio architettonico della galleria
attraverso una serie di disegni sul muro. Le radici si trovano nell'esperienza
dell'Arte povera e dell'Arte concettuale perché ogni cosa ha delle fonti di ispirazione,
nessuna opera nasce dal nulla ma, pur nell'originalità dell'espressione
individuale, affonda le proprie radici nella storia dell'arte. Un giovane
artista negli anni Settanta si confrontava necessariamente con un contesto e
con delle ricerche precedenti. Io peraltro ho da sempre un forte interesse
personale per il concetto di spazio come geometria, architettura. Perfino in un
allestimento temporaneo come quello per la Ghirlandina di Modena ho manifestato
un'intenzione, ludica, di gioco, di festa intorno ad un monumento simbolico
della città.
F. P. Anche nell'esperienza di questa mostra hai lavorato insieme ad un
altro artista, Brian Eno.
Questa dimensione condivisa dell'esperienza creativa è stata sempre
soddisfacente? Penso ai lavori con Michelangelo Lupone, Brian Eno, Lucio Dalla
ma anche alle scenografie teatrali con Mario Martone o al tuo ruolo di regista
del Don Chisciotte. Trovi nuovi stimoli e non fonte di potenziale conflitto in
questi incontri?
M. P. Ho sempre avuto una grande curiosità verso le nuove esperienze,
sperimentare cosa può succedere mettendo insieme un segno poetico ed uno
grafico, un segno musicale ad uno pittorico. Non si tratta di pensare ad una
giustapposizione, ad un elemento che si somma con un altro, ma ad un'entità
diversa frutto dell'incontro di due forme espressive, di un'alchimia creativa.
Credo che questa capacità di incontro avvenisse anche nell'arte del passato tra
un architetto barocco e il pittore che realizzava la pala di un altare. Nelle
mie esperienze teatrali, per esempio, quasi mai l'artista che mi ha chiamato a
collaborare ha pensato al mio ruolo come scenografo. Ha chiamato un pittore che
potesse interagire nello spazio teatrale secondo delle idee, delle convinzioni
ed una sensibilità comune.
F. P. Questa tua capacità di metterti in gioco sembra persistere anche
nelle sperimentazioni delle diverse tecniche artistiche, nella ricerca su vari
materiali che condividi con grandi artigiani ed artisti.
M. P. Raramente ho collaborato con artigiani che fossero fermi od
“ostinati” nel proprio lavoro. Fin dai laboratori di stampa con Giorgio Upiglio
a Milano, con gli incisori Bulla, con Costantino Buccolieri per il mosaico, ho
trovato grandi artigiani disposti a mettere in gioco e stravolgere la propria
“sapienza”. Le prime volte che ho lavorato con Upiglio io non avevo mai
realizzato una lastra in vita mia. Inizialmente ero timido, ma poi lui stesso mi
invitò ad usare gli acidi con estrema libertà, stravolgendo le regole
consolidate e mettendomi immediatamente a mio agio; ottenemmo entrambi
risultati inaspettati. Anche con Davide Servadei della Bottega di ceramica
Gatti, quando buttiamo nel forno le sabbie di Stromboli o il corallo di
Sorrento, appaiono spesso effetti sorprendenti. Con la sua tecnica e la mia
voglia di sperimentare otteniamo risultati di grande soddisfazione per
entrambi.
F. P. Pensi che possa esistere ancora o è, ormai, una semplice utopia
astratta considerare l'architettura e l'urbanistica come le arti della
modernità all'interno delle quali l'esperienza estetica possa trovare una sua
diffusione democratica? Alcuni tuoi interventi nell'ambito del design, penso
alla lampada Dulcinea progettata per Danese o alla considerazione che manifesti
verso il lavoro di un artista come Bruno Munari sembrano andare in quella
direzione.
M. P. Ci sono dei momenti in cui si intuiscono delle possibilità. Così è
stato per la lampada, una scultura da cui scaturisce la luce, un pezzo di
fantasia creativa accessibile, che ciascuno può portarsi a casa, un oggetto
d'uso ma altrettanto fantastico. Munari, poi, è stato sempre una mia grande
passione fin dai tempi del liceo, un breviario quotidiano per la percezione
visiva insieme ad un esempio felice della dimensione ludica dell'esperienza
estetica che io amo particolarmente. Faceva oggetti inutili insieme ad altri
utilissimi, pratici, di semplice uso. Era l'espressione della possibilità di
realizzare oggetti “democratici” che, a quell'epoca, costituivano una novità
assoluta. Che una sedia, una lampada, un tavolo, di evidenti qualità estetiche,
potessero andare in mano a tutti era, in quegli anni, una fantastica conquista.
Il design dovrebbe essere questo. Peraltro, anche alcuni interventi artistici
contemporanei in luoghi insoliti, non convenzionali - da un parco ad una
piazza, dalla metropolitana ad un'area archeologica - possono innescare un
“corto circuito” coinvolgendo un vasto pubblico in un originale e inaspettato contesto
estetico come avvenuto con la Montagna di sale a Napoli.