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Augusto Perez. La terra gronda di Flavio Arensi Come le sabbie mobili che scivolano nel ventre della terra, il bronzo di Augusto Perez cade pestilente e nero nel barocco napoletano del suo inferno interiore, totalmente dedito all’idea doppia dell’esistenza riflessa in se stessa. Nascono da qui i calamai e gli specchi, che sono pensieri autoreferenziali sul mestiere di sculture (o di artista-pensatore più in generale), per divenire infine critica alla scultura tout court; pongo simbolicamente la sala personale alla XXX Biennale di Venezia (1960) quale ultimo porto della poetica del racconto minimo ed esistenziale o di malessere, cui sopraggiunge il mutamento linguistico e l’impegno a raccogliere il trionfo eroico della sconfitta umana perpetrata coi drammi novecenteschi. Scultura Testa d'uomo, 1960 E questa sconfitta, che è pure esaltazione, assurge a mausoleo dell’umanità intera nelle grandi fusioni, conseguenti ai temi dei primi anni Sessanta, sviluppando verso la monumentalità - in principio teorica e mentale - dei richiami al Re Sole Luigi XIV, dunque vera e propria conquista dello spazio occupato dalla grande tradizione passata (Can can, 1970,). A partire dalla Testa d’uomo presentata alla Biennale il travaglio si distende e tuona nella Demitizzazione del 1964, attuando il completamento di un percorso che non è perentorio e netto, ma scema con lo scorrere dei mesi in direzione della sempre meno prudente presa di distanza dell’annullamento e la rifondazione dell’opera artistica, della scultura. Le piccole scene figurate che caratterizzano la produzione antecedente all’esperienza veneziana (oppure la seguono di poco) sono corrosioni spirituali e fisiche della vita, sono lacerazioni, raggrumi concettuali di sofferenza (Ragazza, 1963) o ancor più di stanchezza; concrezioni che in Nanni Valentini rimarrebbero materia terrosa, traspirante, laddove in Perez tendono a una costruzione del lacerto, della sbavatura, del gesto veloce che non piega affatto alle urgenze della forgiatura. In seguito egli disciplina una sostanza che comincia a distendersi e scioglie come le cere di Medardo Rosso, liquefacendosi alla stregua di sangue che gronda verso la notte. La tematica degli ermafroditi staglia nel ruolo congiuntivo di femminino e maschile, senza tuttavia rinunciare al recupero mitologico, più per ricerca dell’origine atavica ed unica del mondo che non per aderire ad un prototipo diverso da quello del reale quotidiano. La fisionomica pereziana abbandona i tratti generalisti che compongono i personaggi-archetipi primordiali, per raggiungere un canone preciso, benché spesso sfuggente, come se ad un certo punto qualcosa levigasse le superfici nel modo in cui l’acqua scorrendo sulle pietre le alliscia. Già nella citata Testa si trova un volto piano e morbido emerso invece dal cranio aggrinzito e bislungo. Le figure, prima deformate, vestono nei decenni successivi una composizione ai limiti del grottesco, poiché - in definitiva - l’esperienza ricavata dal vivere è grottesca come le maschere del teatro antico, deformate eppure tremendamente vere. Se Valentini usa la terra per reperire l’atto incestuoso della mano che accarezza la zolla e lo sguardo che percorre il solco, Perez ne constata il disfacimento, l’avvenuta decomposizione e sfacelo. La ceramica si contrappone al fango limaccioso in cui l’artista napoletano costruisce i suoi capolavori come sberleffi al memento secolare della storia, attraverso la concezione beffarda di chi adopera i mezzi del carnefice per tentarne lo sbaraglio. Ma le vittime non saliranno mai a palazzo per gustare i fasti dei dominatori. E la scultura di Perez veste il fastidioso abito della coscienza talvolta abbattuta, benché mai sottomessa. Dell’eroe pugnalato eppure ancora in foggia di guerriero, trascinato, esploso, però devoto al suo compito, questo scultore mantiene non soltanto la freddezza lucida della visione e del dovere, ma l’arroganza di colui che intuisce la vittoria finale. Come Mosè che condusse alla Terra promessa senza mai entravi se non coll’occhio lontano della malinconia, Perez attua un preciso programma di decodificazione del fare scultoreo come si è inteso lungo le traiettorie storiografiche; egli perpetua l’idea liquefacente di un destino che è fin troppo temporaneo, dunque spoglio di ogni accezione eternizzante. Piuttosto, le sue opere - simili a candele in sospensione, lentamente consunte dalla colatura - resistono tuttavia alla nostra era rappresentandola nelle sue sorti, nella sua verità esistenziale ed ideologica. Il Novecento si è chiuso con la scomparsa di Perez, con il discioglimento di un’anima nella più vasta enormità dell’universo, e così le sue sculture scendono, fondono nell’intimo cuore dell’esistenza umana e della sua cultura. Flavio Arensi Articolo pubblicato il 22 febbraio 2005 |