Arte

La biografia di Arnaldo Pomodoro
Arnaldo Pomodoro. Antologica
Nel cuore della materia. Una conversazione con Arnaldo Pomodoro

Nel cuore della materia. Una conversazione con Arnaldo Pomodoro

di Sandro Parmiggiani
Curatore delle attività espositive di Palazzo Magnani

Sandro Parmiggiani: Credo che sia utile, per chi s’accinge a visitare questa mostra, farsi accompagnare dal commento, seppure sommario, di chi ha realizzato le opere esposte. E, ne sono certo, la sollecitazione della memoria non porterà solo lumi sulla genesi delle tue opere, ma sul tuo percorso e su alcune vicende fondamentali della tua vita. L’esposizione non si spinge a ritroso fino a documentare il lavoro degli anni Cinquanta, assai importante e direi fondativo di quello che sarebbe venuto dopo. Per dirlo con una metafora, le due versioni de La colonna del viaggiatore - una grande lastra che è un bosco di segni, la registrazione di un viaggio tormentato, e che appare in più parti corrosa e sconvolta; un cilindro che svetta, teso a salire verso l’alto, ma che reca le tracce di una lacerazione che rivela un’inattesa struttura interiore - con le quali questa mostra si apre, sono il diario di un viaggiatore che, dopo avere esplorato le terre del segno, calcato e saggiato la consistenza della materia, intuiva l’attrazione dello spazio infinito, non solo come vicenda estetico-artistica, ma come concreta, possibile, simbolica esperienza di vita.

Arnaldo Pomodoro: La Colonna del viaggiatore è del 1962 e sviluppa un’opera precedente di 3 metri per 30 centimetri circa del 1960. La realizzai quando Giovanni Carandente mi invitò, insieme ad altri cinque scultori italiani e quattro stranieri, alla mostra "Sculture nella città" a Spoleto, in occasione del Festival dei Due Mondi. A Carandente era venuto in mente di organizzare questa grande mostra internazionale con il contributo dell’Italsider (sede centrale a Genova e cantieri in tutta Italia), che metteva a disposizione i suoi stabilimenti siderurgici per la realizzazione delle opere.
La colonna del viaggiatore è un omaggio a La colonna senza fine di Brancusi, uno dei miei modelli di riferimento: prima Klee e Dubuffet, e immediatamente dopo Brancusi, quando mi sono reso conto che il mio lavoro si stava orientando dal rilievo verso la scultura tridimensionale. La colonna del viaggiatore indica il desiderio di scoprire lo spazio: c’era già stato il volo di Gagarin e, dunque, per me il viaggiatore era il novello conquistatore del cosmo.

SP: La colonna del viaggiatore è anche l’esemplificazione del tuo rapporto con la terra, che già allora stava diventando il tuo duttile foglio da disegno. Mi hai detto che fai degli schizzi, dei puri abbozzi di idee, ma che non ti piace chiamarli disegni o progetti: il vero lavoro d’invenzione delle forme, dei pieni e dei vuoti, delle luci e delle ombre, avviene nel confronto e nel rapporto diretto con la terra, mettendoci le mani sopra e dentro.
AP: Avevo già capito che la strada della pittura non mi era congeniale, mentre ero attratto dalla materia che avevo bisogno di toccare e di trasformare.
In verità, La Colonna del viaggiatore è stata una sfida, un esperimento che mi ha posto dei problemi tecnici: si tratta infatti della mia prima opera volumetrica in ferro colata a staffa, a differenza delle sculture che avevo realizzato in bronzo con il metodo della fusione a cera persa, che consente di scavare i diversi sottosquadri per creare ombre e giuochi di luce.
Ero appunto all'Italsider di Lovere, in provincia di Bergamo, dove si fondevano le ruote dei treni e le eliche delle grandi navi da crociera della nostra flotta. Ho sempre lavorato con l’argilla in negativo, usando coltelli e attrezzi che pigiavo sull’argilla per ottenere rientranze e sporgenze: mi trovai invece a dovere operare con una sabbia speciale che veniva dal Kenya, miscelata con olio, perché diventasse più compatta e solida, sulla quale comunque era molto difficile lavorare. La colonna fu fusa in quattro pezzi, poi saldati tra di loro. Fu un’esperienza emozionante e stimolante non solo per me, ma anche per gli artigiani dell’Italsider, felici di lavorare con noi artisti. David Smith, il grande squilibratore, lavorò nello stabilimento di Voltri, vicino a Genova; nel giro di un mese fece moltissime sculture - scrisse poi un libro in cui ringraziava il nostro Paese per l’opportunità che gli aveva dato e che difficilmente avrebbe trovato nel suo. In quelle opere presentate a Spoleto, infatti, c’era già il passaggio dall’oggetto trovato, assemblato insieme ad altri, che aveva caratterizzato il suo lavoro, alle grandi sculture minimaliste in acciaio inox: fu una sorpresa per tutti.

SP: Ho appena visto la mostra di David Smith al Guggenheim di New York, e posso dire che a Voltri, in negli stabilimenti dismessi dell’Italsider, dove un tempo si effettuavano le saldature, lui visse un momento di grande felicità creativa - ventisette sculture in trenta giorni -, tanto che l’esperienza italiana costituisce una svolta significativa nel suo percorso, quella che schiude le porte alle grandi opere essenziali, di assoluto rigore formale dell’ultima fase dell’attività di Smith, che sarà interrotta dalla morte in un incidente d’auto nel 1965 (2). Immagino che anche nel tuo caso l’esperienza di Lovere sia stata importante... Possiamo dire che con La colonna del viaggiatore tu approdi al tuo stile, trovi un porto che sarà il tuo?
AP: Sì, diciamo che lì inventai il mio stile. Ho scelto i solidi della geometria intervenendo come una termite, per separare e togliere, per entrare all'interno della forma, per distruggerne il significato simbolico. In questo sentimento c’era forse anche la memoria della guerra che, a Orciano di Pesaro, era stata molto dura: lì vicino passava la "linea gotica", e ci furono continui bombardamenti. A venti chilometri c’era la polveriera di Montecchio, che fu fatta saltare dai tedeschi con un’esplosione spaventosa: ci parve un grande terremoto, ma fu anche il segno che la guerra stava per finire.
Durante la guerra, poche erano le opportunità di conoscenza e di formazione culturale. Una signora sfollata aveva portato una valigia piena di libri e per un anno non feci altro che leggere: Faulkner, Steinbeck, Hemingway... tradotti da Vittorini. Gli amici di Milano che avrei poi conosciuto negli anni Cinquanta mi dicevano che durante la guerra questi autori si potevano trovare solo nella vicina Svizzera, a Chiasso e a Lugano. Sono stato fortunato!
Avrei voluto fare l’architetto, ma mio padre si ammalò e così decisi di accorciare gli studi e diventare geometra per assicurarmi subito uno stipendio. Fui assunto al Genio Civile di Pesaro: mi dovevo occupare dei piani di ricostruzione degli edifici distrutti dalla guerra. Eravamo tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta; poiché non lavoravo nel pomeriggio, lo trascorrevo per lo più in biblioteca, dove scoprii tante cose, persino un libretto di Klee che subito mi affascinò. Seguivo le recensioni di libri che venivano pubblicate sui giornali. Nel 1953 lasciai Pesaro; ero stato chiamato a Como per sei mesi. Poi mi trasferii a Milano. Nel 1957 abbandonai definitivamente il Genio Civile, approfittando di condizioni di favore per chi si licenziava volontariamente: la liquidazione mi diede un po’ di ossigeno e così, con mio fratello Giò, trovammo uno studio a Milano, dove abbiamo lavorato insieme per una decina d’anni.

SP: Il testo di Raffaele Carrieri del 1972 per "Epoca ", che pubblichiamo nell’antologia critica, parla della prima volta in cui ti conobbe a Milano, "presentato da Fontana" che ti voleva bene, durante un ricevimento in una casa, tra il 1957 e il 1958, e della successiva visita nello "studio-officina situato un po’ più in basso del livello stradale ". Che cosa rappresentò, per te, l’arrivo a Milano, quali furono gli incontri stimolanti e i confronti che avesti modo di svolgere?
AP: Devo dire che l’accoglienza a Milano fu molto positiva. Allora Milano era estremamente viva e vitale, con un’impronta europea e internazionale. È qui che cominciai a frequentare artisti e uomini di cultura (oltre a Fontana, Baj, Dangelo, Milani, Sanesi, Mulas…) e ad avere l’appoggio dei poeti e degli scrittori. Molto importante è stata la conoscenza con Fernanda Pivano e Ettore Sottsass: in casa loro ho avuto i primi incontri con gli americani. Fernanda, con la sua traduzione dell’Antologia di Spoon River, aveva già avuto molto successo con gli scrittori americani del movimento beat. Così sono entrato in un mondo non solo milanese, ma internazionale. E proprio attraverso queste conoscenze ho aggiunto altri amici a quelli che già frequentavo, Crippa, Dova, Birolli, Tancredi, Scanavino, Perilli, Novelli, Dorazio e altri.

SP: L’opera successiva nel percorso della nostra mostra è Il grande ascolto, che subito, nel mio immaginario, associo ai radar, alle parabole satellitari che oggi vediamo sui tetti o che, in certe case popolari abitate soprattutto da arabi, spuntano come fiori dai balconi, creando un’immagine assolutamente inedita e anche coinvolgente, con quel rapporto di geometrie tra la struttura rettangolare dei balconi e delle finestre, e quella circolare delle parabole… In quest’opera ritorna la struttura interna lamellare propria di certi lavori degli anni Cinquanta e della prima Colonna del viaggiatore.
AP: Ho progettato questa scultura durante il periodo di insegnamento come artist-in-residence alla Stanford University in California nel 1966, profondamente impressionato dal grande radio-telescopio che dominava il campus. L’opera infatti, contiene un preciso riferimento all’elemento tecnologico e alla comunicazione; vuole anche essere un omaggio agli studenti pacifisti che in quegli anni gridavano con i megafoni: "Stop the war in Vietnam".

SP: Credo che valga la pena, giunti a questo punto del nostro percorso davanti alle opere della mostra, sostare per parlare della tua esperienza americana, che per tante ragioni ha segnato la tua attività e determinato tanti successivi, importanti riconoscimenti.
AP: Il sogno di andare in America era già dentro di me quando, verso la fine della guerra, aspettavamo che passasse la Quinta Armata americana. Poi diventa un progetto più concreto quando nel 1957, su suggerimento di Argan e Russoli, feci domanda al Ministero degli Esteri per una borsa di studio negli Stati Uniti. Fui stimolato anche da diversi giovani artisti americani che erano venuti in Italia con una borsa di studio Fulbright e dai collezionisti incontrati alla Biennale di Venezia del 1956, a cui avevo partecipato insieme a mio fratello Giò, su invito di Rodolfo Pallucchini. In quella Biennale ottenemmo un successo davvero inaspettato, al punto che vendemmo più cose di quelle esposte e iniziammo a lavorare con una galleria americana allora famosa, la World House Gallery, i cui interni erano stati curati dall’architetto Kiesler. Il desiderio di andare negli Stati Uniti era soprattutto motivato dalla grande curiosità di conoscere da vicino gli artisti americani, dopo che avevo visto alcune opere straordinarie portate in Italia da Peggy Guggenheim, e altre alle Biennali di Venezia e di Parigi.
Nel 1959, dunque, con la borsa del Ministero di cinquecentomila lire, sbarcai finalmente in America, in California, dove presi i primi contatti con diverse gallerie: un mercante di Los Angeles, Felix Landau, un ebreo viennese che amava molto l’arte europea, mi avrebbe organizzato la mia prima mostra personale in America nel 1962. A San Francisco, dove restai ospite di amici, conobbi Mark Rothko, che insegnava all’Art Institute; a Los Angeles incontrai Sam Francis. In seguito mi recai prima a Chicago e poi a Pittsburgh, dove conoscevo il direttore del Carnegie Institute - nel 1967 avrei vinto il Premio Pittsburgh insieme a Albers, Bacon, Vasarely, Miró e Paolozzi; la Kootz Gallery comprò quella mia scultura. Infine arrivai a New York: andai da Costantino Nivola - mi aveva dato l’indirizzo Enrichetta Ritter di "Domus" -, era un artista che stimavo molto e volevo conoscerlo. Nivola e Enrico Donati mi portarono negli studi di tutti - Barnett Newman, Franz Kline, Robert Rauschenberg, Philip Guston, Jasper Johns, Andy Warhol… Incontrai alla Viviano Gallery Louise Nevelson, che a sua volta mi fece subito conoscere David Smith. Quando, nel 1965, tenni la mia prima mostra personale a New York, alla Galleria Marlborough, li avrei rivisti quasi tutti e fu una grande emozione!
Per quella esposizione ero molto preoccupato, nonostante avessi da poco ricevuto due importanti riconoscimenti: il Premio della Biennale di San Paolo del Brasile nel ‘63 e quello nazionale di Scultura della Biennale di Venezia nel ‘64. La mostra fu un successo esplosivo di vendita e di critica, che mi fece quasi paura. La rivista "Time" mi dedicò un’intera pagina a colori con il titolo Dissatisfied Aristotele e il MoMa (Museo d’Arte Moderna di New York) acquistò la Sfera n. 1. Per gran parte delle opere in mostra furono addirittura prenotati anche gli altri esemplari dell’edizione, che dovevo peraltro ancora fondere.
Ebbi anche l’opportunità di essere invitato come artist-in-residence dalla Stanford University per l’anno accademico 1966-67. Là avevo un grande studio e due assistenti; mi fu chiesto di indicare sulla porta gli orari di ricevimento degli studenti, ma preferii dire che potevano venire in ogni momento. Fu quello un periodo di profonda riflessione, e il contatto con gli studenti mi aiutò molto. È opportuno ricordare che prima di arrivare a Stanford avevo appena ultimato la Sfera grande per l’Expo di Montreal, che il ministro Fanfani decise poi di collocare di fronte alla Farnesina, un’opera per me fondamentale, avendo segnato il passaggio alla grande dimensione. Andare in America almeno tre volte all’anno diventò una costante in quegli anni; nel 1968 e ancora nel 1970 trascorsi come visiting professor tre mesi all’Università di Berkeley. Da qui, per iniziativa di Peter Selz e Tom Freudenheim e grazie a Jim Elliott, direttore del Berkeley Museum, ebbe avvio una grande mostra itinerante di sculture all’aperto che toccò i musei delle università di San Diego, Portland, Austin e Hartford. Nel 1983 seguirà un’altra importante esposizione itinerante presentata da Mark Rosenthal e organizzata dal Columbus Museum of Art che sarebbe proseguita a Jacksonville, Worcester, Little Rock e Los Angeles. Nel 1977-78 fui invitato per un semestre al Mills College di Oakland, dove avrei insegnato nei quattro anni successivi.

SP: Quale è il retaggio più importante di questa tua lunga esperienza di insegnante in America?
AP: Ho sempre considerato importante l’insegnamento, il rapporto con i giovani studenti, cercando di ristabilire il clima stimolante della bottega, dove insieme si può sperimentare e progettare.
Negli Stati Uniti il metodo di insegnamento nelle arti è diverso che in Europa: si lavora insieme ai giovani, che hanno un loro studio dentro l’università, si va a vedere cosa fanno, conversando e discutendo insieme innanzitutto dei problemi che riguardano la storia dell’arte e le diverse tecniche artistiche.

SP: Hai vissuto in California, hai conosciuto molto bene New York, dove ti sei recato più volte ogni anno; eppure, a quelle due terre estreme del continente americano non si può affatto ricondurre il volto autentico dell’America: le città e le comunità che stanno nel mezzo, tra la costa dell’Atlantico e quella del Pacifico, dalle terre del nord a quelle del sud, sono un’altra nazione... L’America era il tuo sogno giovanile, con un sentimento che forse era assai vicino a quello di Elio Vittorini, quando nel 1930 spiegava che da un secolo esisteva una grande letteratura americana perché c’era stata una storia peculiare di quella terra - "conta in arte", diceva, "la civiltà che si vive, più della lingua che si parla" - e arrivava a scrivere in "Il Politecnico", nel giugno 1946: "Per la nostra fantasia di ribelli a una società provinciale troppo disposta alle sieste e agli idilli in mezzo al silenzio della natura, New York significò la Città, un luogo dove gli uomini avessero assunto, senza evasioni né rimorsi, con tutto il coraggio e la pertinacia, il proprio compito di incidere e trasformare a forza di cronaca la torbida faccia del mondo." (3) Oggi che cos’è per te l’America, che cosa resta di quel sogno?
AP: Ho conosciuto quasi tutti gli stati americani, anche quelli centrali. Certo ho avuto la fortuna di viverci nel periodo migliore: ho conosciuto la libertà di un grande paese democratico, dove vale la "divisione dei poteri" secondo i princìpi della rivoluzione francese e dell’illuminismo. E ricordo che proprio un italiano, Filippo Mazzei, geniale e avventuroso pensatore che tra l’altro impiantò le prime vigne negli Stati Uniti, ha partecipato alla redazione della costituzione americana.
Per me l’America ha rappresentato un approccio non accademico e non-retorico all’arte: c’è infatti una grande sensibilità per le opere d’arte quando vi emerge una forza creativa e innovativa, quando vi si coglie una intuizione, una rottura, un senso di freschezza. In America ci sono molti collezionisti che amano il mio lavoro e che non pensano solo all’investimento, come oggi purtroppo avviene un po’ dappertutto. Ora sento che c’è una sorta di sciovinismo. La mia generazione - si pensi a Rauschenberg, a Jasper Johns, e così via - mi sembra non sopporti un certo tipo di politica troppo oppressiva. Ciononostante continuo a fare due o tre viaggi all’anno negli States, soprattutto a New York che rimane un grande ring dove ci si può confrontare, l’unico ring di cui non si può fare a meno - come una volta era Parigi.
Recentemente sono stato a Milwaukee, dove ho realizzato un lavoro per la cattedrale: una grande corona di spine, una Corona radiante, e una croce, mentre Giuseppe Maraniello ha progettato la figura di Cristo. Ho in programma una mostra a New York con lavori nuovi, come un grande muro in grès-ceramica che spero di realizzare presto. È un’idea che rimando perché sono impegnato in diverse commissioni importanti.

SP: Dopo la deviazione non inutile che abbiamo compiuto, il percorso della mostra, e della nostra conversazione, prosegue con quella che potremmo chiamare la famiglia delle sfere, realizzate nel corso di vent’anni: la piccola Sfera n. 3 del 1964, la Sfera con perforazione di due anni dopo, il Rotante massimo del 1969 e la Sfera 2 del 1983. Una sfera lucida, levigata, di partenza, che riflette distorta la realtà circostante, compresi noi che la guardiamo, viene in ciascuna di queste opere trattata in maniera diversa. Nella prima versione del 1964, le smangiature corrono attorno alla linea del parallelo centrale, dell’equatore, con diramazioni verso i poli, e mostrano una ripartizione intima che ha qualcosa a che fare con certe strutture cellulari, anche insediative, di tipo visionario. La sfera del 1966 viene perforata da un lato all’altro, come se un proiettile o un corpo celeste, un asteroide, l’avessero attraversata, e la forza dell’impatto avesse scavato delle faglie radianti che si dipartono dal buco centrale, rivelando la caratteristica struttura compositiva della materia che la costituisce. Nell’ultimo tipo di sfera presente in mostra, quella del 1983, la faglia torna a correre lungo la linea dell’equatore: la forma interna che viene rivelata si è fatta meno minuziosa, ha abbandonato i caratteri di una scrittura qua e là appena percettibile per farsi rilievo pienamente strutturato. Nel Rotante massimo del 1969 è invece evidente che ti sei misurato con una sfera compatta, su cui è stata operata una sorta di operazione chirurgica, asportando con un taglio netto, senza slabbrature, un segmento della materia che la costituisce, sempre per rivelarne l’aspetto interiore. Ritrovo in questa opera tante suggestioni - magari qualcuna ti potrà sembrare bizzarra e inappropriata -: se di fronte agli esemplari più piccoli, penso a oggetti ludici, in quella di grandi dimensioni che tu presenti in mostra il mio immaginario arriva a evocare, in negativo, il semicerchio che ha i suoi perni nei poli di un globo, e che ne permette la rotazione e la lettura. Con un’operazione concettuale, hai fatto rivivere l’idea di un globo terrestre in cui la sovrastruttura esterna che lo reggeva è penetrata, caduta all’interno, ne ha fuso e distrutto la materia a propria immagine e somiglianza, fino a ottenere una fessura netta, una faglia esattamente speculare, che pare alludere alla caduta nell’abisso di quel perno, che ora si da come ombra, come presenza di un’assenza...
AP: La sfera è una forma magica. La superficie lucida rispecchia ciò che c’è intorno, restituendo una percezione dello spazio diversa da quello reale, e crea mistero. Rompere questa forma perfetta mi permette di scoprirne le fermentazioni interne mostruose e pure. Nella mostra c’è una sfera smangiata dentro, dove dell’interno non resta quasi nulla; tecnicamente, all’inizio, è stato difficilissimo farla. Il Rotante l’ho pensato a Stanford, nel pieno del periodo minimalista. Ho deciso di traforarlo in modo netto e ben definito, tracciando un segno a forma di X, senza slabbrature.
Ricordo che un mio collezionista che ha studiato a Princeton, dove aveva insegnato Einstein, aveva il progetto, poi non realizzatosi, di regalare - a cento anni dalla nascita del grande scienziato - una mia sfera a quella Università. La cosa mi aveva molto colpito: le mie sfere, infatti, ricordano in un certo senso la rottura e la disintegrazione dell’atomo.

SP: Guardando certi film di fantascienza, anche recenti, nei quali sono raffigurate le conformazioni geologiche di mondi lontani nello spazio, o dei mezzi di trasporto come le astronavi - pensa a quella incombente e sinistra di Independence day -, riaffiorano spesso motivi e visioni che già abbiamo imparato a conoscere nelle tue sculture, come se nei registi e negli sceneggiatori di questi film affiorasse una memoria lontana che va a collegarsi, attraverso le tue opere, a forme arcaiche, ancestrali.
AP: Altri hanno fatto questa stessa osservazione. Furio Colombo, in un articolo pubblicato su "L’Espresso", in occasione della mia mostra a New York alla Marlborough Gallery nel 1996, riporta una frase del giovane critico del "New York Times", Pepe Karmel: "Sono sicuro che Arnaldo Pomodoro è il vero ispiratore delle immagini, del paesaggio, degli oggetti del film Guerre stellari di George Lucas. Le sue sfere lucenti che si aprono mostrano di contenere altre cose in un gioco di sorprese che ha segnato il gusto americano" (4).

SP: Il Colpo d’ala del 1984 pare davvero un’eco futurista, con quel movimento sfalsato tra i due triangoli che lo costituiscono, che immediatamente ti da l’idea di un aereo, magari con le ali del Concorde, che sta decollando, mentre la superficie levigata esteriore abbaglia e riflette, come se fossimo davvero dentro il cielo.
AP: L’opera vuole essere un omaggio a Umberto Boccioni, il primo grande artista nella scultura del Novecento, che svolge l’analisi del movimento, con una scomposizione delle forme monumentali.

SP: Nello stesso anno hai realizzato i due Cippi, che ci appaiono come due figure ieratiche, regali, e l’anno dopo i tre Papiri, davanti ai quali si resta turbati per lo stordimento che ti dà l’apparente estrema duttilità della lastra di bronzo piegata come se fosse carta.
AP: I Cippi e i Papiri nascono dai ricordi e dalle suggestioni del mio primo viaggio in Egitto del 1982 e furono presentati per la prima volta in una mostra a San Francisco nel 1985, intitolata "Intimations of Egypt". Mentre realizzavo il Cippo I mi sono accorto con sorpresa che una lunga spaccatura tracciata su una delle facce della scultura somigliava al Nilo visto in una carta geografica. I Papiri riprendono i miei Fogli del 1966: allora erano un omaggio al telex, che veniva prima del fax. L’idea portante è il foglio che viene dilatato e ingrandito: la memoria antropologica convive col naturale, e il tecnologico affianca l’elemento arcaico.

SP: Nel corso di vent’anni, compresi tra la fine degli anni Settanta e quella degli anni Novanta, produci le Aste cielari, una sorta di Colonna senza fine ancora più smagrita, erosa, come succede a certe antiche formazioni geologiche corrose dal vento e dalle intemperie, ormai ridotte a esili larve: qui spuntano degli aculei che potrebbero ferirti, come se la materia offesa reagisse, si stesse difendendo da un qualche assalto. A metà di questo periodo di vent’anni in cui hai lavorato alle Aste cielari, tra il 1987 e il 1988, realizzi gli Scettri, aste sottili, abbastanza uniformi, con alla sommità delle forme aspre, taglienti e acute, dal disegno contorto, che tendono a una direzione precisa, pur con un percorso che è anche una sorta di autodifesa, di chiusura in se stessi, di eterno ritorno all’origine.
AP: Le Aste cielari, anch’esse riferite alla Colonna senza fine di Brancusi, nascono dalla suggestione delle altissime antenne che vedevo quando percorrevo il Bay Bridge a San Francisco. Gli Scettri sono le antenne del futuro e, allo stesso tempo, le maschere tribali che svettano trionfanti e si stagliano all’orizzonte.

SP: Le Edicole sono dei primi anni Novanta, e di nuovo, come nei Cippi, siamo di fronte a una struttura modulata secondo moduli architettonici, che si mostra nella sua pienezza dispiegata di forme sul lato anteriore, mentre sul retro reca una fenditura, un taglio netto come di operazione chirurgica, che lascia apparire i tuoi segni e i tuoi motivi - ciò che si dà come inaccessibile può inaspettatamente rivelarsi; alla conoscenza si può pervenire attraverso tanti cammini, sia quelli naturalmente prodottisi che attraverso un varco segreto, una ferita inferta.
AP: Il titolo, derivato dal latino, vuole richiamare la piccola costruzione a forma di tempietto a se stante, o annessa a un edificio maggiore, eretta per ornamento, a protezione di statue o epigrafi. La mia Edicola è una sorta di tempietto del sapere, un omaggio alla scrittura.

SP: La famiglia delle Stele, nata poco meno di dieci anni fa, si sviluppa nel tempo, sempre con questa sezione rettangolare, accanto a un’altra serie, quella delle Spirali, che a me sollecitano tante suggestioni: dall’antica torre di Babele, magari raffigurata da Bruegel il Vecchio, alle torri mediorientali, fino alle prove costruttiviste, alle torri a spirale di Tatlin.
AP: Nel 1996, in un viaggio nello Yemen, fui folgorato dalla visione delle colonne più preziose dell’intera Arabia felix, quelle della regina di Saba. Tronconi di pilastri non rotondi, ma rettangolari. Con graffiti smangiati dalla luce del deserto e dal vento: storie arcane di una civiltà perduta. Le mie Stele sono mosse da squarci ricamati da piccoli cunei e altre geometrie, così da sprigionare un valore ulteriore e costituire un’espressione distinta da quelle originali.
Le sculture in forma di spirale le ho progettate, invece, ricordando le piazze dell’antica Roma, con il loro obelisco o la loro colonna. La forma crescente e avvolgente, e sempre più sottile, ha un senso di progressione continua, che è insieme di uguaglianza e di elevamento.

SP: Hai collegato diverse opere della mostra allo sguardo che hai posato, in momenti diversi della tua vita, su determinate opere dell’uomo o della natura. La memoria che sta dentro di noi fermenta e lievita silenziosamente, anche se magari non ne siamo consapevoli, poi esce allo scoperto, ed allora diventa una sorta di rivelazione... Insomma, c’è questa aura, abbastanza falsa, attorno agli artisti, che sarebbero mossi dall’ispirazione - un’entità misteriosa, tutta spirituale, inafferrabile e indefinibile, di cui non si conoscerebbero le sembianze, le tracce, le strade che la portano a manifestarsi e poi a dare vita, per il tramite dell’artista, a un’opera.
AP: Non credo all’ispirazione, si tratta piuttosto di suggestioni, di folgorazioni che ti vengono in diverse situazioni, nei momenti più impensabili. Noi artisti siamo dotati di una particolare sensibilità nell’assorbire e nell’esprimere quello che ci sta attorno, a volte senza nemmeno capire dove si può arrivare. "L’espressione - dice il filosofo Maurice Merleau-Ponty - è come un passo nella nebbia: nessuno può dire dove e se da qualche parte condurrà."
Per me l’opera è sempre in relazione ad ambienti (contesti) concreti che ho visto, visitato e conosciuto. Così, alcune mie sculture che si richiamano alla natura non sono collegate ad un’idea essenzializzata ed astratta di natura, ma alla concretezza del paesaggio e dell’ambiente. Ad esempio, nell’opera Disco in forma di rosa del deserto, la relazione formale con le rose del deserto è precisa, e l’allusione è metafora del faticoso e tuttavia inarrestabile principio di germinazione.

SP: L’ultima scultura in mostra di cui dobbiamo ancora parlare è anche quella più recente, l’Omaggio a Chillida, nella quale è evidente che ti sei misurato con la struttura dell’opera del grande scultore basco, ibridando i tuoi motivi interni alla materia con l’austera forza monumentale di Chillida.
AP: La base della scultura è un puro sostegno; ciò che conta è il vuoto, lo spazio delimitato dall’opera inteso come un passaggio percorribile dall’uomo, una porta che è anche soglia, verso l’ignoto; un riferimento ideale all’estremo passaggio dalla vita alla morte. È un’opera che mi piacerebbe realizzare in grande, come una volta si facevano le porte d’ingresso a una città.

SP: Le superfici che s’addentrano nel cuore delle tue opere sono rivestite di elementi che ritmicamente entrano ed escono dal corpo della materia. La consistenza di questi segni si è evoluta nel tempo; all’inizio erano sottili e filiformi, talvolta appena percettibili; poi si sono fatti più forti e scanditi, sono diventati un vero e proprio fatto scultoreo. Vi colgo, a volte, delle suggestioni naturalistiche; forse in quanto nato in una famiglia di contadini, evocano nella mia memoria i cunei di legno che venivano piantati nella terra per tendere certi fili che tenevano erette le piante delle viti, oppure vi scorgo certe strutture proprie delle fondazioni edilizie.
AP: Ho sempre subito un grande fascino per tutti i segni, soprattutto quelli arcaici. Anche la scrittura mi ha attratto, dai segni primordiali nelle grotte, alle tavolette degli Ittiti e dei Sumeri, tanto che ho dedicato una mia opera, Ingresso nel labirinto, a Gilgamesh, che è il primo (2000 a.c. circa) grande testo poetico e allegorico sull’esperienza umana. Le impronte che scavo, irregolari o fitte, nella materia artistica, i cunei, le trafitture, i fili, gli strappi, mi vengono inizialmente da certe civiltà arcaiche.

SP: Nell’opera grafica ritorna, nella serie del Sogno, fogli di grandi dimensioni, la caratteristica forma dell’osso di seppia, la cui tramatura, così affine alle sembianze che assume la sabbia quando l’acqua del mare si ritira, rivive anche nella Tracce, in tutte le loro varianti di colore. Come capita nell’opera degli artisti, e nelle nostre esistenze personali, ci sono ritorni all’origine: in gioventù, usavi gli ossi di seppia per i tuoi lavori di oreficeria...
Questa mostra dedica un’intera sezione all’opera grafica, giacché essa non è affatto marginale, come già Carandente aveva avuto modo di osservare nel testo dedicato a questa parte della tua attività, che abbiamo inserito nell’antologia critica. La tua grafica non è solo dispiegarsi del segno inciso, né meccanica riproposizione dell’opera scultorea sul foglio; è piuttosto l’approfondimento del tuo lavoro, che è continuato negli anni, sul bassorilievo, sulla possibilità di ricrearlo su una materia come la carta, incorporando il segno nel rilievo, dandogli una forza e un ruolo assolutamente fondanti. Ecco l’utilizzo calcografico delle battute a secco, del rapporto che esse vengono a giocare mettendosi in relazione e accoppiandosi con il segno inciso e con la superficie del colore steso ad acquatinta. Dunque, la tua opera grafica è esercizio con una lingua e di una pratica diverse, al cui interno si danno scoperte e innovazioni che poi trasmigrano nell’opera scultorea, o da essa irrompono nel lavoro incisorio. Insomma, i tuoi lavori di grafica sono un’officina, un grande, fervido laboratorio. In mostra ci sono poi i tuoi libri d’artista, tra i quali dobbiamo almeno citarne due: quello, per le edizioni Colophon, che accompagna testi di Attilio Bertolucci edito da Colophon - un esempio magistrale di libro d’artista, in cui la stessa struttura della pagina tradizionale del libro viene modificata e esaltata dalla forma delle tue opere - e quello recente dedicato a Emilio Villa, per i "Cento amici del libro", al quale hai lavorato per più di due anni, con le sette tavole realizzate in materiali particolari, che alludono ai metalli e alla pergamena.
AP: Io sulla carta disegno poco, il mio disegno lo faccio nella terra: fatti gli schizzi e fissate le intuizioni, passo subito alla loro realizzazione concreta. Il confronto con la superficie piana del foglio per fare grafica mi ha richiesto, dunque, una lunga riflessione per ricercare una nuova e diversa modalità espressiva. Sono riconoscente a chi nel corso degli anni ha avuto la pazienza di convincermi a fare grafica: in particolare Valter e Eleonora Rossi della 2RC di Roma, la cui collaborazione è iniziata sin dagli anni Settanta. Parto da un’idea precisa e mi servo dello stesso procedimento che uso in scultura. Realizzo una lastra in negativo di materiale plastico di alta resistenza, come un marchio, violento e pressante che, abbassandosi sul foglio con la forza del torchio, lo increspa di quei segni che, quasi fossero veri rilievi, conservano la forza e la severità del bronzo.
Quanto all’osso di seppia, devo dire che sin dall’inizio del mio lavoro d’artista è stato molto importante per me in senso tecnico e pratico. Oltre ad utilizzarlo come stampo, secondo l’antico metodo dell’oreficeria, per i miei primi rilievi di argento e di piombo, il grattare, l’incidere, lo scavare l’osso di seppia mi permette di scoprirne la materia interna, le sue strutture lamellari, che suggeriscono forme quasi magiche. È questo il senso dei tracciati e delle trame dei Sogni e della serie delle Tracce.
Quando lavoro a un libro d’arte mi confronto continuamente con il testo in modo che si crei unità tra scrittura e segno. Ad esempio, nel lavoro per "Sette frammenti da L’arte dell’uomo primordiale" di Emilio Villa, curato da Aldo Tagliaferri, parte del testo di Villa è stato minuziosamente inciso in negativo su un piano di creta dal mio collaboratore Dialmo Ferrari, e su questo io ho poi innestato i tratti propri del mio linguaggio artistico, ottenendo una pagina materica coperta di segni illeggibili. Usando una lente si possono vedere frammenti delle parole scritte, in parte coperte dal mio intervento.

SP: A proposito di parole, hai parlato delle tue letture giovanili, della scoperta degli scrittori americani, e poi dello scavo nel testo quando devi affrontare la creazione di opere che accompagnino e illustrino un libro d’artista. Sono convinto che tra le tue fonti, accanto all’arte, all’architettura, all’osservazione della natura, occupi un posto importante anche la letteratura. Tra l’altro, una delle opere, la più piccola di quelle in mostra a Palazzo Magnani, s’intitola proprio Lettera a K - credo un omaggio a Kafka.
AP: È un omaggio, oltre che a Kafka, a Klee e a Kierkegaard. Il primo libro che ricordo di aver letto con passione è stato proprio Il castello di Kafka. Io mi riconoscevo nelle sue storie, e i segni delle mie prime opere contenevano elementi di analogia con le tematiche dei suoi libri: l’indecifrabilità, l’ambiguità, l’incertezza dell’essere umano, il subconscio.

SP: In quelle prime opere c’è già molto del tuo alfabeto, anche se non ti eri ancora misurato con la scultura vera e propria. Affronteremo dopo, parlando del tuo lavoro di scenografo, il rapporto con il testo teatrale, o con il libretto di un’opera lirica; ora mi interessa sapere quali scrittori e poeti hai frequentato, sia in America che a Milano. E negli ultimi tempi che cosa leggi?
AP: Mi considero un "buon lettore", anche se gli impegni di lavoro mi impediscono di leggere quanto vorrei. La lettura non solo è stimolante, ma direi determinante per il mio lavoro. I più importanti poeti italiani, quelli che erano stati i miei miti di ragazzo di provincia, divennero a Milano presenze concrete, amici carissimi: Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli. In seguito avrei incontrato - grazie all’attivissima amica Fernanda Pivano - i protagonisti della Beat generation, a cominciare da Allen Ginsberg e Gregory Corso.
Restando in Italia, non dimentico ovviamente Montale: una delle mie opere più significative, "The Pietrarubbia Group", riporta infatti una citazione dai "Mottetti", lo splendido verso: "Lo sai: debbo riperderti e non posso". Per non parlare dell’amicizia con Paolo Volponi, Roberto Sanesi, Frank O’Hara, Francesco Leonetti...
Negli ultimi anni il mio interesse si è rivolto ai saggi - i testi di Jeremy Rifkin, grande economista, sulla fine non lontana dell’economia del petrolio, quelli di Zygmunt Bauman sulla contraddizione insanabile, nella nostra era della "modernità liquida", in cui uomini e donne non possono pianificare la propria vita e la precarietà è elevata a sistema. Leggo anche con piacere i romanzi, ad esempio di Paul Auster e di Philip Roth. Ora sto leggendo Sogni di Yashar Kemal sui conflitti attuali tra turchi e curdi: tra questi racconti, Teneke è veramente straordinario.

SP: Passiamo a parlare di una parte importante del tuo lavoro: le commissioni, le opere che ti si chiede di realizzare nell’interno di un edificio, o più spesso all’esterno, nel contesto urbano, in una piazza o in un parco. C’è una vecchia retorica, del tutto infondata, secondo cui l’affidamento a un artista della realizzazione di un’opera, magari legata a un tema, comprima e distorca la sua libertà creativa: al contrario, la presenza di vincoli, di limiti, fa scattare invenzioni, soluzioni nuove, scoperte inattese, che poi vanno a alimentare l’attività dell’artista, quella che si presume esserne lo specchio più autentico, in quanto creata in una supposta totale e assoluta libertà.
AP: Per le sculture di grandi dimensioni, i cui costi di realizzazione sono molto elevati, lavoro su commissione. Ma, qualunque sia stata la committenza, ho sempre potuto esprimere la mia inventività liberamente. Prendo in esame ogni aspetto del luogo dove l’opera deve essere collocata con foto, rilievi e prove dimensionali e spaziali. Oltre allo studio sulle proporzioni, cerco di trattare i temi - la libertà, il potere, la poesia, la condizione umana, ecc. ecc. - cui l’opera si deve riferire, evitando ogni carattere banalmente rappresentativo.
La mia prima grande commessa pubblica è stata la Sfera grande per l’Expo’ di Montreal del 1967, ufficializzata peraltro nel migliore dei modi: io e Calder fummo citati su "Time Magazine" come gli scultori più originali di tutta l’Expo’. Il Ministero degli Esteri mi aveva incaricato di realizzare un’opera per rappresentare l’arte e la poesia nel Padiglione italiano. Tra le più recenti, mi piace ricordare Novecento, un’opera commissionatami nel 1999 dall’allora Sindaco di Roma Francesco Rutelli per celebrare il passaggio del millennio. È stata collocata nel 2004 nel Piazzale Pier Luigi Nervi, un luogo particolarmente significativo che segna, per chi giunge dal mare, l’accesso alla grande città eterna. Inoltre lo spazio attorno alla scultura dà una totale visibilità all’opera e invita alla sosta. Attualmente sto studiando un progetto per il nuovo Museo di Lugano, in cui anche la parte architettonica è in fase di elaborazione.
Non tutti i progetti su commissione, però, vengono realizzati. È il caso di quello per la "Porta dei Re" del Duomo di Cefalù - il bozzetto in bronzo sarà esposto nel Palazzo dei Principi di Correggio - che mi è stato commissionato dalla Provincia Regionale di Palermo nel 1997, in accordo con la Curia e con la Soprintendenza, e che per il momento è rimasto in sospeso a causa delle polemiche che ha suscitato. Infatti, nonostante Federico Zeri l’avesse definita "un’opera di grande impegno che stimola il pensiero", "uno sfregio sublime", alcuni ambienti hanno osteggiato l’inserimento di un’opera di arte contemporanea in un contesto storico quale è il Duomo normanno di Cefalù. Mi auguro che questa contraddizione possa essere risolta e che il progetto possa essere presto realizzato.

SP: Queste tue esemplificazioni su opere che stai progettando, o cui stai lavorando, o che hai già realizzato e installato, credo chiariscano il percorso che segui nella ideazione di un’opera che ti è stata commissionata per un determinato spazio. Anche in questo caso, e a maggior ragione, getti dei ponti con la realtà circostante, stabilisci dei legami con la storia dell’arte, pensi a dei rapporti spaziali, di scala, che sono sempre importantissimi.
AP: Generalmente non sono io a scegliere i luoghi dove posizionare le mie sculture, che spesso mi vengono indicati dalla committenza, ma la collocazione di una scultura in un determinato luogo richiede sempre attenzione e studi approfonditi sul rapporto scultura-spazio circostante.
Già Hegel nella sua Estetica mette in piena evidenza teorica che la scultura è una presa di un proprio spazio entro lo spazio maggiore in cui si vive e ci si muove. La scultura, quando trasforma il luogo in cui è posta, ha veramente una valenza testimoniale del proprio tempo, riesce ad improntare di sé un contesto, per arricchirlo di ulteriori stratificazioni di memoria.
Per me la massima aspirazione è quella di avere come ambiente, per le mie opere, l’aperto, la gente, le case, il verde. Sono perciò contento che molte mie sculture siano collocate in importanti piazze del mondo e in luoghi significativi, come il piazzale delle Nazioni Unite a New York, il cortile della Pigna dei Musei Vaticani a Roma o ancora la sede della Casa Editrice Mondadori di Segrate, progettata da Oscar Niemeyer. Ma oggi risulta sempre più difficile collocare opere davanti agli edifici; infatti l’architettura stessa sembra spesso gareggiare con l’opera d’arte contemporanea.

SP: A volte l’architettura teme il confronto, la convivenza con l’opera d’arte, forse perché presuntuosamente si pensa come opera d’arte totale in sé. Una scultura, un dipinto, una vetrata, un mosaico potrebbero in parte oscurare e rivaleggiare con quello che ha creato l’architetto...
AP: Nell’arredo urbano è fondamentale, a mio avviso, l’intervento artistico. Ciò richiede un lavoro di integrazione tra architetto e scultore, interessante e di stimolo reciproco, ma anche complesso e problematico. Ho avuto modo di lavorare con grandi architetti e debbo riconoscere che negli anni Sessanta e Settanta, fino alla metà degli anni Ottanta, c’era molta più collaborazione: l’architetto aveva un suo ruolo, si confrontava con l’artista. Ad esempio, un architetto che amava lavorare con gli artisti era George Nelson, poi il gruppo Skidmore Architects: con loro collocai il mio Grande disco a Charlotte, nel North Carolina, e la Sfera grande al Mount Sinai Hospital di New York.
Ora, la trasformazione della città, che non realizza più negli edifici il processo storico-stilistico, ma si decentra e talora viene resa spettacolare, investe l’architettura ancora più che le altre arti. E pare che alla scultura si riferiscano idealmente, per suggestione, alcune grandi opere architetturali di oggi - si pensi ad esempio alle architetture di Frank Gehry, di Jean Nouvel o di altri.
Devo dire che spesso mi sono ritrovato a dialogare anche con i paesaggisti, gli architetti del giardino e del paesaggio. Il giardino è specchio della società e del rapporto con la natura; ed è insieme uno spazio mitico, dove con più fantasia e libertà è possibile la collaborazione tra artista e architetto. Ricordo il lavoro fatto con l’architetto belga Jean Delogne, che nello spazio antistante il Palazzo reale di Copenaghen ha costruito un giardino - ispirato dalla circostante architettura del XVIII secolo -, dove ho collocato quattro pillari e due fontane semicircolari poste alle estremità del giardino.
Ricordo anche la collaborazione con Ermanno Casasco, che si è realizzata in molti lavori, tra i quali il Simposio Minoa a Marsala, dove la mia scultura-architettura Moto terreno solare è immersa in uno spazio con camminamenti, valli, colline e con centinaia di piante diverse; e poi la collocazione della mia scultura in ceramica Arco-in-cielo nel Parco idrotermale e marino del Negombo ad Ischia.

SP: Altrettanto stimolante del lavoro per la realizzazione di opere su committenza è la scenografia, cui ti dedichi da più di trent’anni. Di questa attività, mi interessa capire come ti rapporti con il testo e che cosa ti lascia in retaggio, come finisce per incidere sulla tua attività di scultore.
AP: L’esperienza teatrale mi ha aperto nuovi orizzonti, mi ha stimolato a sperimentare nuovi approcci e nuove idee nell’ambito della scultura stessa, in particolare per le opere di grandi dimensioni. Per il Poldi Pezzoli di Milano, per esempio, nel riallestimento della "Sala d’armi", ho cercato di creare uno spazio inedito dove architettura, storia e scenografia si intrecciano con equilibrio.
Proprio in questi mesi sto lavorando per la fusione in bronzo del grande Portale dell’Edipo, che avevo realizzato nel 1988 per l'Oedipus Rex di Jean Cocteau, con musiche di Igor Stravinsky, messo in scena nella piazza di Siena. Si tratta di un lavoro complesso: sto infatti rivisitando tutto per rinforzare con il gesso i materiali deperibili della scenografia e introdurre le varianti necessarie per la definitiva versione in bronzo.
Quando progetto le scene e i costumi dei diversi spettacoli presto sempre grande attenzione alle riflessioni e ai problemi che pone il testo, con tutte le connesse interpretazioni e significazioni culturali. Cerco di usare la forza dell’astrazione per trascrivere nel linguaggio visivo, il linguaggio letterario, verbale o musicale del testo stesso. Non mi interessa una scenografia illustrativa o celebrativa; il compito dello scenografo, infatti, è quello di "mediare" visualmente il testo con inventività e fantasia per un nuovo pubblico in un altro e diverso periodo storico.

SP: Tu hai lavorato sia in teatri all’aperto che all’interno di quelli tradizionali, nei quali c’è un palcoscenico la cui estensione non può essere dilatata...
AP: Sono molto legato agli spettacoli avvenuti all’aperto. Oltre allo splendido scenario del Teatro Antico di Taormina, dove nel 1997 è andata in scena Antigone di Jean Anouilh, ricordo l’esperienza memorabile svolta sui ruderi di Gibellina nell’arco di diversi anni, dal 1983 con la trilogia dell’Orestea di Isgrò da Eschilo, fino a La passione di Cloepatra di Ahmad Shawqi nel 1989. Vedendo i ruderi di Gibellina decisi subito che la scena per la prima parte dell’Orestea doveva essere l’ambiente stesso, la realtà del paesaggio con le sue macerie provocate dal terremoto. L’idea è stata quella di inventare delle grandi macchine sceniche che contenevano gli attori e che venivano portate a spalla sulla scena-piazza dai giovani del luogo: in mezzo alle rovine di Gibellina avevano il valore mitico di "maschere totali".
In un teatro tradizionale dove lo spazio è chiuso e delimitato si deve operare in modo diverso. Ad esempio, nel caso del Teatro Argentina di Roma, che presenta un boccascena con una fila di palchi, inadatto per la scenografia da me progettata nel ‘93 per l’Oreste di Alfieri, ho dovuto costruire uno spessore unitario nell’apertura verso la platea che ne ampliasse lo spazio e ho posto una scala in un lato e nell’altro la tomba di Agamennone. Per dare risalto a tutte le trame e gli intrighi di palazzo presenti nel dramma, sul pavimento del palcoscenico si aprivano tre botole con scalette interiori da dove emergevano gli attori.
Comunque, qualunque sia il contesto teatrale, per me lo spazio scenico deve soprattutto mettere in evidenza un’operazione inventiva nuova che perlopiù consiste nell’ideare una "macchina" scenica con effetti agili e con movimenti aerei, per dare una varietà dello spazio e una molteplicità di lettura.

SP: In certi casi, hai svolto tu stesso il ruolo di architetto, come quando hai progettato un’opera straordinaria, purtroppo mai realizzata, il Cimitero di Urbino, per il quale avevi ideato come casa per i morti, e per i vivi che sarebbero andati a trovarli, la discesa dentro la terra: insomma, la visita in quel cimitero avrebbe voluto dire immergersi in un’esperienza di distacco dalla vita come si dà nella luce esterna, il riaffiorare e il ritrovare un’interiorità, una capacità di meditazione, oggi spesso perdute, e che del resto la configurazione dei tradizionali cimiteri più non stimola...
AP: Certamente il mio progetto per il cimitero di Urbino pone in evidenza una originale concezione della morte e del rapporto tra i vivi e i morti. È un progetto che integra architettura e natura, quasi una scultura nel paesaggio, la cui materia è la natura stessa. E non si tratta di land art, come ha osservato Argan. Purtroppo, con mio grande dispiacere e amarezza, questo progetto è rimasto nella carta, nel sogno… mentre continua a suscitare l’interesse e l’attenzione di critici e studiosi italiani e internazionali.

SP: Sei una persona di salde passioni civili, che ha a cuore il destino della comunità, alla quale ti lega un senso di appartenenza, di cittadinanza, che non è moneta troppo corrente nel nostro Paese. Credo che la stessa Fondazione cui hai dato vita sia la testimonianza di un impegno civile, etico: non solo il desiderio di tramandare la tua opera, ma anche di fornire strumenti perché l’arte continui ad essere possibile, a arricchire l’esistenza delle persone.
AP: Credo che l’artista non possa chiudersi in una torre d’avorio e anzi debba essere coinvolto e proiettato nella società: è un problema etico che ho sempre sentito. Da questa consapevolezza nasce l’idea di una mia Fondazione, che si è potuta concretizzare solo recentemente con il sostegno e l’apporto di mia sorella Teresa, prima a Rozzano, ed ora a Milano nel grande spazio delle ex acciaierie Riva&Calzoni ristrutturato dagli architetti Pierluigi Cerri e Alessandro Colombo. Sono state organizzate due importanti mostre dedicate alla scultura italiana del XX secolo e al lavoro di Gastone Novelli, oltre a diverse iniziative culturali. Ha avuto luogo la prima edizione di un premio internazionale biennale istituito per sostenere il lavoro e la ricerca dei giovani scultori. Mi sembra che sia stata intrapresa la strada giusta. E nel 2008 ho in programma di presentare in una mostra le opere che intendo lasciare in dono alla Fondazione…
Oggi è importante promuovere una migliore comprensione dell’arte contemporanea da parte del pubblico - insieme ad una formazione migliore per gli artisti futuri - e dare impulso alla vita culturale e al dibattito in corso. A tutto questo vuol corrispondere la Fondazione che, oltre a far conoscere il mio lavoro, ha il fine di diventare un laboratorio di idee e di iniziative, luogo di incontro e di esperienza per gli artisti e per tutti coloro che amano l’arte.

Reggio Emilia, 24 giugno 2006


Luciano Caprile
Arnaldo Pomodoro: viaggio nel labirinto dell’esistenza

Con Arnaldo Pomodoro il passato, il presente e il futuro s’incontrano in una rappresentazione che sorprende e intimorisce, come succede al cospetto dei misteri dell’assoluto. Le sculture si propongono nella loro seducente lucentezza e nella loro ambigua asprezza. Ambigua perché porta messaggi di immediata percezione visiva ma di difficile coniugazione mentale. Ambigua perché il desiderio del tatto si ferma al limite del dolore fisico nel percorrere un frammento, un piccolo tragitto di auspicabile eternità. Non esistono vie di mezzo tra la carezza rotonda della sfera e la sua intima corrosione che raggiunge la superficie, la morde e ne altera i canoni della perfetta e tranquillizzante contemplazione. Tutto in Pomodoro pare ineccepibile e precario, tutto sembra sul punto di rivelarsi o di sgretolarsi nell’oblio definitivo. Il limite è determinato anche da chi si accosta alle sue opere con animo sgombro da ogni preconcetto o da ogni orgoglio cognitivo e da chi si ammanta invece della presunzione del sapere: il primo atteggiamento può favorire un viaggio verso una maggior conoscenza soprattutto di sé; il secondo può determinare la vanificazione dell’approccio, come bussare a una porta che non concede ovvie chiavi d’accesso. La maggior conoscenza può scaturire da quella "scrittura" scavata nel bronzo, suscitata dall’inconscio di Arnaldo e dall’inconscio di ciascuno di noi nella continua attesa e nel riflesso timore di inquietanti risposte esistenziali.
Questa mostra reggiana si apre idealmente con un cilindro, parzialmente aggredito dai crittogrammi, che accoglie i visitatori sull’ampio marciapiede di corso Garibaldi, all’ingresso di Palazzo Magnani. È la Colonna del viaggiatore ispiratagli dalla Colonna senza fine di Brancusi. Da qui, dal nome di Costantin Brancusi, inizia il grande viaggio artistico di Arnaldo Pomodoro: "Le sculture di Brancusi la prima volta le ho viste attraverso un finestrino dove riesco a salire, ed è il finestrino del suo studio a Parigi, mi sembra il ’57, un anno dopo la sua morte, però attraverso questo finestrino vedo tutto più o meno coperto con lenzuola bianche a eccezione di pochi elementi che sono appunto la colonna senza fine e altre pochissime cose." La conferma gli verrà due anni più tardi al Museo d’Arte Moderna di New York: osservando le crepe nella perfezione tridimensionale e strutturale delle opere del maestro rumeno capisce che i suoi segni, i suoi geroglifici, fino a quel momento destinati allo sbalzo di placche bidimensionali o all’inasprimento informale di bassorilievi, potevano trovare un respiro più ampio, una collocazione prodiga di imprevedibili evoluzioni formali e psicologiche. Nasce così nel 1959 la sua prima Colonna del viaggiatore che interroga lo spazio con un messaggio intimo, graffiato, scavato, sofferto. L’ordine puro, essenziale di Brancusi viene pertanto rivisitato e rivissuto dall’ordine provvisorio e travagliato di Arnaldo Pomodoro che insidia il cosmo avvalendosi di un personalissimo bagaglio di curiosità e di angoscia, la stessa che accompagnerà i primi astronauti di quegli anni. Ma il nostro artista è da sempre un viaggiatore, un puntuale indagatore dell’ intimo cosmo da ritrovare e da riconoscere poi nello sprofondamento dell’universo; egli è l’assiduo indagatore del tempo passato e di quello che verrà perché questo è il destino dell’uomo: guardare dentro di sé e nelle più profonde radici culturali che ci competono per affrontare l’avvenire, per intuirne le trame. Occorre una lunga e articolata rincorsa per un adeguato balzo in avanti. Per lui non è una questione di pratica atletica, è il risultato di un’adeguata ginnastica mentale che ha una radice geologica nelle strutture tettoniche di quel Montefeltro che gli ha fornito i natali e gli ha procurato anche gli occhi e lo spirito adatto per recepire i misteri di una natura dolce e aspra di forme e di immagini. Il suo gesto, quello che si era manifestato già in alcune precedenti occasioni e si completerà con la folgorazione brancusiana, viene da lì, dalle sue origini, come è giusto che sia. L’innamoramento per il segno misterioso di Klee (suscitato dalla "Testa di Bob", da alcuni paesaggi e magari esploso definitivamente al cospetto della fitta trama della "Pastorale" del 1927, esposta anch’essa al Museo d’Arte Moderna di New York), la vicinanza sperimentale di Lucio Fontana e delle sue "nature" violate si propongono come conferma illuminante di un dono che egli conservava da sempre nel cuore. Era un tesoro nascosto da disseppellire poco alla volta al cospetto delle continue rivelazioni attivate dagli incontri, dai viaggi, dalle rinnovate intuizioni. Il presente e il passato sempre a confronto: il gesto e il pensiero a fare continuamente i conti con l’insondabile che, se non può essere svelato, va comunque dichiarato come ammonimento e come seme di speranza. Così procede il suo lavoro tra continue interrogazioni concepite attraverso un alfabeto crittografico che trova agganci formali nelle "calligrafie" di tutte le civiltà arcaiche del mondo. Pertanto ritmo e armonia (un ritmo musicale su un insolito spartito) convivono magicamente nell’alternanza critica delle incisioni e dei rilievi di un inesauribile racconto.
Ma torniamo alla mostra: la gente, superato l’impatto emotivo espresso dalla Colonna del viaggiatore, entra, percorre il lungo corridoio al piano terra che conduce in fondo a un’altra scultura emblematica: il Rotante massimo IV. È una grande sfera dall’abbagliante lucentezza che mima l’oro e prepara l’inganno. Tutte le sfere di Pomodoro giocano sulla levigata perfezione di una superficie che subisce improvvise fratture come prodotte da tarli che corrodono e consumano la sostanza a partire dall’interno. Sono un attentato alla perfezione; sono la lettura del nostro mondo inquieto, assalito da interrogativi esistenziali: "Penso che questo dramma dell’erosione, così come l’ho posto, sia in grado di comunicare come una sorta di predizione, una certa angoscia a proposito di quanto potrebbe accadere…cioè il dramma della scoperta tecnologica e dei suoi poteri. Sapevamo di poter mettere l’uomo nella condizione di distruggere se stesso e il mondo". Se Lucio Fontana costruiva le sue forme tondeggianti nell’argilla e le sfondava con un gesto deciso e brutale (ci riferiamo alle citate "nature"), Arnaldo le attraversa chirurgicamente, come in questo caso, per una indagine più "scientifica", strutturale. Se la sfera è l’allegoria del mondo (e ancora e sempre di noi stessi), va sondata in asettica profondità, come avviene ora, oppure va perlustrata lungo ferite che emergono dal parziale consumo dell’armonia geometrica, come vedremo più avanti. Dietro il Rotante massimo IV, nel cortile di Palazzo Magnani, appaiono cinque Scettri, anche teatralmente efficaci e destinati a bucare il cielo, a saggiarlo e a invocarlo con le loro graffianti dichiarazioni al culmine delle aste.
In una sala accanto ci si imbatte in tre Stele erette come sentenze assolute col marchio dell’implacabilità, decise dalle scansioni e dalle impronte di una memoria che non conosciamo e che neppure l’autore conosce. Pertanto sovente egli si stupisce del suo gesto e dell’ effetto che ne segue. Qui risiede una delle straordinarie sorprese dell’arte:l’inattesa stupefazione che assale l’artista medesimo e gli procura subito dopo stordimento, timore, esaltazione, forse il desiderio impossibile di fuggire da se stesso, di scindere le mani da un pensiero non coscientemente pensato. Si muta stanza e ci si trova al cospetto del bozzetto di Novecento, l’imponente torre a spirale installata di recente a Roma per celebrare la fine del millennio. Collocata in una piazza della Città Eterna sembra ergersi come una risposta attuale, nella struttura che si svolge verso l’alto, alla "Colonna Traiana" , imperitura esaltazione delle vittorie sui Daci. La spirale di Pomodoro non racconta le imprese guerresche del secolo appena trascorso ma esprime la coscienza dubbiosa dell’umanità nelle pause di sospensione gestuale, nelle interpunzioni, negli agglomerati di graffiti che anelano magari un’altra memoria o la definitiva dissolvenza.
Prima di salire al piano superiore incontriamo un’altra Colonna degli anni Ottanta che preannuncia un tragitto ascensionale prodigo di rinnovabili sorprese.
La prima ci è fornita da Il grande ascolto, due coni coricati e orientati in senso opposto alla stregua di padiglioni auricolari pronti a catturare e ad assorbire nella loro travagliata interiorità quei messaggi criptici in sintonia con l’articolato linguaggio dei segni. A proposito di linguaggi, è interessante e vario quello proposto subito dopo dalle tre "sfere" che appaiono d’incanto nella loro seducente, eppur contaminata compiutezza: Sfera con perforazione permette allo sguardo l’attraversamento di una ferita che la coglie da parte a parte seminando strazi di punte, sbrecciamenti e incrinature come se la lucentezza fosse solo l’apparenza ingannevole e superficiale di un’intima consunzione; lo stesso ragionamento vale per Sfera n. 3 e per il nucleo compatto e aggressivo di tramature sovrapposte che sfonda l’ordine di conforto per spalancare una implacabile, inattesa verità. Addirittura Sfera del 1983 ostenta una mediana corona dentata che pare un ghigno beffardo. Allucinazioni? Visioni? No, è la riproposizione della crisi dell’uomo: "Nel mio lavoro (…) vedo le spaccature, le parti erose, il potenziale distruttivo che emerge dal nostro tempo di disillusione". Siamo con Pomodoro di fronte a un enigma, a un labirinto che non consente vie d’uscita agevoli: occorre percorrerlo interamente col nostro autore cercando di imparare o di recuperare gli strumenti capaci di introdurci alla captazione del mistero.
Volevamo assaporare il profumo dell’universo? Ecco le Aste cielari che svettano verso l’alto con graduale, abrasiva veemenza. Sono trafitture, sono messaggi, sono implorazioni e interrogazioni, sono i nostri messaggi in bottiglia per un mare più grande, infinito. Sono il desiderabile superamento di una soglia. Da una soglia ideale a una soglia concreta: Arnaldo (un caso o una calcolata conseguenza) ce la propone nella sala a fianco. Si tratta per l’appunto de La soglia: a Eduardo Chillida. È del 2003 ed è l’opera più recente presentata in mostra: un ricordo dell’artista e amico spagnolo scomparso l’anno prima. Un ideale cubo è spezzato in senso mediano: i due frammenti paiono allontanarsi, trattenuti da una sbarra che li attraversa. Ricorda l’impegno sui volumi, sulle tensioni della materia del maestro basco, ma ripropone anche il problema, esposto più volte da Pomodoro, di una monumentale provvisorietà delle cose misurata da un limite, da una porta oltre la quale si spalanca l’ignoto. Un altro sguardo oltre un varco reale e incontriamo Le battaglie: un muro di simboli, di frecce, di ordinato caos. Afferma Pomodoro di essere rimasto affascinato dai geroglifici, di aver scoperto uno straordinario rapporto tra il segno e una forma magmatica, in divenire, di aver sentito la necessità anche fisica di incidere qualcosa nella materia. Allora tra l’autore e l’opera che sta nascendo inizia la lotta, la battaglia non solo nei confronti della materia ma soprattutto tra l’idea e la sua adeguata realizzazione. È un’immagine che ritroviamo in Lettera a K., in questa scultura severa, scandita per sezioni (quasi pagine autonome di lettura) in un unico, armonico corpo, quale omaggio a Klee, a Kafka, a Kierkegaard. Di fianco, come ricorrente memento, si erge un’altra Colonna del viaggiatore del 1960 (la prima era del 1962)dalle dimensioni più contenute. Eppure viene ugualmente riproposta l’emozione di quell’impatto, magari accresciuta dalla maggiore concentrazione dello spazio.
Ora è venuto il momento di attraversare le stanze per conoscere l’Edicola. Ha scritto in proposito Sam Hunter: "L’artista ha focalizzato la sua attenzione sui due piani recto e verso, e sulle superfici convesse e concave di questa forma che allude a una lapide. L’elementare forma ricurva con il suo complesso sviluppo di segni calligrafici richiama infatti i suoi due Cippi degli anni 1983-84, così chiamati dagli antichi pilastri trovati nell’impero egizio del Nilo". Non a caso le Stele, l’Edicola e i due Cippi, che il nostro sguardo incontra al di là di un’apertura, quale ideale prolungamento di un medesimo discorso, nascono in Pomodoro come riflesso anche nostalgico della visione dei templi della regina di Saba in Egitto, nascono dai reperti isolati, caduti nella sabbia e rivissuti dalle ombre che il sole disegna e modula in una misura spaziale e temporale trascurata da ogni metro e da ogni umano calendario. Il nostro autore recupera quel seme di atemporalità e ce lo regala per una muta contemplazione. La suggestione dell’antico Egitto continua con i tre Papiri sospesi contro la parete: sono grandi fogli di bronzo sorpresi in un movimento che si addice alla carta e acquistano così una leggerezza inattesa. E una straordinaria perentorietà espressiva. Succede sempre a ogni contatto ripetuto e sempre nuovo con le sue opere. Da dove proviene, ci chiediamo ogni volta, questa sua persuasiva cattura dell’attenzione immediata della gente ( prima ancora che questa stessa gente, di riflesso, intenda magari porsi decisive domande esistenziali )? Già nel 1969 Hammacher cercava di darsi e di darci una risposta: "La forza del lavoro di Pomodoro sta in due cose. La prima è questa violenza controllata dei piccoli segni, sistemati in una precisa ma non regolare formazione, e allo stesso tempo in schemi mobili e complicati, chiari e penetranti; la seconda è la grandezza di una forma geometrica che una volta era cornice e che ora è stata deformata da qualcosa che emerge da un altro angolo della sua mente". Già, la forma e la sua manipolazione. Una eclatante prova ci viene concessa subito da Colpo d’ala, una piramide capovolta e spezzata in un impeto di aereo dinamismo trasformato in un ideale omaggio a Boccioni. In effetti questa traumatica frattura si sublima, sono parole dello stesso Pomodoro, nella "mobile ala di una freccia, in effetti così mobile da sembrare quasi disarticolata". Un ulteriore, eccellente esempio in cui la forma non è più "cornice" ma metamorfica protagonista degli eventi.
A questo punto ci è concesso di uscire all’aria aperta per cercare quegli elementi che tornano a colloquiare col libero spazio trasformandolo e determinandolo con la personale, perentoria, persuasiva impronta. In piazza Roversi le quattro Stele "timbrano" immediatamente il luogo. Il motivo? Ce lo spiega Argan: "In bilico tra metafisica e meccanica, tra cosmologia e orologeria le macchine monumentali di Pomodoro sono anche strani congegni urbanistici ed ecologici. Collocati nel paesetto marchigiano natale hanno un senso biografico, in un vecchio contesto urbano un senso evocativo, in una piazza di città moderna un senso di sintonia, sulla riva del mare un senso d’infinito. Sono sculture piene di valenze aperte, hanno bisogno di siti significativi con cui combinarsi". Queste Stele, in identica immagine e talora in diversa sostanza, negli ultimi anni sono andate alla conquista e all’interpretazione scenica dei giardini del Palais Royal di Parigi e della Plaza de Nuestra Señora del Pilar di Saragozza; hanno quindi fermato nello stupore il cuore pulsante di Lugano. Fa loro eco seduttivo il Disco in forma di rosa del deserto che spicca sul sagrato della Chiesa della Ghiara. Un rinnovato rimando al deserto, al mistero, alla natura che pare talora voler articolare le cose come specchio o modello da consegnare alla stupefazione o allo sgomento della gente. Il cortile del vicino Palazzo Ducale, dove ha sede la Provincia, viene conquistato dai cinque metri e mezzo della Torre a spirale e dal suo rapido, avvolgente sviluppo ascensionale.
Spostiamoci ora al Palazzo dei Principi di Correggio per riallacciare al suo interno il discorso della scultura: ci attendono su una parete sei Cronache, ovvero sei fogli di bronzo fissati su pannelli di ferro quale testimonianza di affetto nei confronti di persone vicine ai pensieri e ai comportamenti del nostro autore: due sono dedicate a Gastone Novelli, due a Paolo Castaldi, una a Ugo Mulas, un’altra a Francesco Leonetti, a testimoniare il suo stretto rapporto col mondo dell’arte, della fotografia, della cultura in generale. Sono pagine fitte di trame che si alternano a momenti di pausa, di riflessione, di sospensione. Sotto tale profilo ci sorprende l’apparente assenza di segni, rifiutati o abrasi sulla metà superiore dell’omaggio a Mulas e che fa risaltare maggiormente l’affollato intreccio armonico della sezione sottostante. Non è ovviamente casuale tale apertura che rimanda a un quadro di Mark Rothko, memoria collante tra i due amici. Cronaca 7 per Gastone Novelli accende una particolare attenzione per via della scritta tracciata su un ideale muro. Col Punto dello spazio si attua una trasformazione dell’approccio creativo del maestro, abile a coniugare la costruzione rotante, che fa da base e da cardine, alla tipica struttura fittamente e articolatamente narrativa che abbiamo ormai imparato a conoscere. Poco distante osserviamo la Piramide dalle essenziali, aguzze estroflessioni che caratterizzano le facce corrugate del solido geometrico. Quindi è la volta del bozzetto relativo alla Porta dei Re del Duomo di Cefalù dallo straordinario impatto visivo che richiede un chiarimento. Occorre comprendere il ruolo del tondo che domina in alto il centro della porta, a livello della frattura che indica il congiungimento delle due ante caratterizzate da una pioggia di ferite dilaganti verso il basso. È lo stesso Pomodoro a svelarci l’arcano: "Ho realizzato il cielo o l’aldilà in una sfera d’oro. Nella Trasfigurazione ho voluto che il magma terrestre si diffondesse attorno alla base come alone".
Lasciato il bronzo, inizia in questo ampio salone rettangolare il viaggio nella carta, ovvero in quella produzione calcografica che assume un ruolo non marginale ma decisamente importante nell’iter creativo di Arnaldo. Annotava in proposito nel 1978 Giovanni Carandente: "Il lavoro grafico per lo scultore, sembra essere quasi sempre una sorta di sfida alla superficie piana, bidimensionale, del foglio. (…) Arnaldo Pomodoro, al posto delle lastre di rame o di zinco o delle pietre litografiche, si è servito dello stesso medio che egli usa in scultura. Ha cioè lavorato gli ‘originali’ (positivi) nel gesso, come fossero destinati alla fusione in metallo. (…) Il tutto, alla fine, non è la finzione di quel che non è, ossia del bronzo. Ma ne conserva la bellezza spoglia e severa. Inoltre, conserva, della scultura, la fitta, magica rete di rapporti, cui aggiunge la fragranza autentica di un rilievo sul medium cartaceo". Ed è quello che incontriamo qui, in un ideale prolungamento del dialogo tra strutture organiche e ostentazioni meccaniche, che riannodano i tragitti non ancora toccati dal pensiero dell’uomo, quei tragitti già puntualmente sperimentati nel metallo. La carta gli permette impensabili arditezze di aggiunte, di sottrazioni, di sovrapposizioni, lampi di luce e opacità, giochi di toni, fughe improvvise, iati, come succede a Immagine trasversale dall’incombente piegatura o alle Aste cielari scandite in parallelo sulla medesima pagina, come a fornire un senso di collegamento, una persuasiva logica colloquiale a un discorso che aspira all’elevazione delle idee. Il Foglio lungo di Urbino e il Foglio lungo di Pavia sono accostabili ai papiri, ai suoi ‘papiri’ e ai papiri della storia. Ma queste pagine che si spalancano di fronte ai nostri occhi sono una continua rilettura, una puntualizzazione, se necessaria, del già visto o di quello che si era pensato di vedere ma non era rimasto sufficientemente fissato nel nostro cuore: così le "tracce" e le "colonne"impresse a rilievo costringono a una nuova, più concentrata meditazione, così gli Scudi ci ricordano da un lato il suo ricorrente impegno di scenografo e dall’altro il disegno essenziale dell’osso di seppia da cui è iniziato, più di mezzo secolo fa, il percorso artistico di Arnaldo Pomodoro: da un piccolo scavo, da una lieve impronta sulle linee allungate e concentriche di un minuscolo labirinto.
Da allora il labirinto si è dilatato all’ indomabile ricerca della maggior conoscenza attraverso lo svelamento di enigmi, attraverso l’interrogazione di segni. In fondo il suo è anche il nostro labirinto alla cui esplorazione affidiamo la speranza di un significato non ovvio ai passi dubbiosi della vita.

Reggio Emilia, 24 giugno 2006