La biografia di Ugo Mulas
Ugo Mulas: vent'anni d'arte in una mostra. La scena dell'arte
Ugo Mulas: un fotografo attraversa l'arte contemporanea di Tommaso Trini
La fotografia di Ugo Mulas: non c'è bisogno di scrivere nulla di Vittorio Sgarbi
Ugo Mulas. La scena dell'arte
Ugo Mulas: un fotografo attraversa l'arte contemporanea
di Tommaso Trini
Un dipinto è un evento in atto sotto i nostri occhi, ha sostenuto Giulio Carlo Argan, poiché si tratta di pittura al presente quand'anche rappresenti la passata battaglia di Waterloo, ed è questa pittura irripetibile che ogni volta accade davanti agli sguardi. Nella fotografia, dove niente è più irripetibile di ciò che ha visto un fotogramma, occorrono spesso più fotogrammi, un collage, alcune associazioni, affinché io veda un evento in atto. Sulla pellicola i fotogrammi si legano come le cellule animate di qualcosa che diviene senza apparente direzione, senza la pretesa di un discorso teleologico, proprio come avviene nei fatti delle Biennali. La ripetizione sempre diversa è l'istinto della fotografia, e se tanti artisti recenti hanno potuto abusare della "ripetizione nella diversità", come la critica chiama la moda delle copie e delle citazioni, lo debbono ancora una volta all'influenza della fotografia sulle arti visive.
Ugo Mulas detestava inseguire "l'attimo irripetibile", a differenza di Cartier- Bresson, e dunque ha preferito costruire pazientemente un archivio, alcuni libri e qualche analisi. Con le sue fotografie ha collezionato un'epoca e, sebbene il lavoro che di lui conosciamo sia solo una parte della collezione che preme nell'archivio, la sua fama è sufficiente per fare di quell'epoca un evento ancora in atto. Possiamo domandarci adesso se il fotografo sia stato lui pure un protagonista del mondo dell'arte che ha attraversato, e quanto.
Ugo Mulas
Roy Lichtenstein con Leo Castelli nella sala di Lichtenstein
XXXIII Esposizione Biennale Internazionale d'Arte, 1966
© estate Ugo Mulas
Tutti i diritti riservati
Ricordandolo, Jasper Johns ha detto ultimamente: "Lui faceva parte della scena, del gruppo". Si può rispondere che come la fotografia diventa un'immagine per poco che riceva la luce senza schermi di sorta, così Ugo Mulas si è fatto autore di un'opera appassionata e severa che travalica lo specifico fotografico perché ha saputo esporsi alla realtà e accogliere l'arte, restituendone i frammenti in un'alta figura d'insieme.
Ugo Mulas
Giorgio de Chirico, 1968
© estate Ugo Mulas
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La maggiore autorità gli proviene dai libri su Smith, Calder, New York e gli artisti pop, Melotti, Consagra, come pure sul suo lavoro, pubblicati tra il 1964 e il 1973. Gli deriva egualmente e forse più dalla straordinaria serie delle Verifiche finali eseguite nel 1971 e 1972. Oggi si tende a privilegiare l'importanza dei suoi libri e delle sue Verifiche sul resto del suo lavoro. Non è una buona prospettiva. La maestria raggiunta nelle celebri sequenze di Giacometti, Fontana, Duchamp e altre scene dell'arte, deve parecchio alla pratica dei reportage dalle Biennali e alla sua attività in teatro. Non esisterebbero le Verifiche se non le avesse generate il lato oscuro del suo mestiere di fotografo in laboratorio. Tutto tiene nella pellicola di questa opera che è memorabile ogni tre fotogrammi. Nei confronti della fotografia come pure dell'arte essa occupa un posto singolare, forse unico. Non la si può collocare in campi delimitati, per sua fortuna, proprio come molte opere dell'avanguardia artistica che contribuisce a chiarire e tramandare. Non si è compreso a suo tempo che con la fotografia Mulas ha operato allo stesso modo dei concettuali, ma precorrendoli di un decennio: ha continuato l'oggetto d'arte nella sua forma analitica. Non solo Mulas è un artista visivo autentico, come tutti sanno, ma è stato anche fin dalla sua formazione, un sottile antagonista di molta arte del suo tempo.
Ugo Mulas
Marcel Duchamp. New York, 1964-1965
© estate Ugo Mulas
Tutti i diritti riservati
Non c'è un inizio nel mondo delle figure, né un incipit visibile in un dipinto, né un grammatico in grado di insegnare le certezze di un'immagine, né una via per apprendere l'arte dalla "a" alla "zeta", mancando l'alfabeto e le date della preistoria. Notando che la fotografia ha più relazioni con le arti figurative, in contrasto con il cinema che ne ha più con la letteratura e la musica essendo segnata dal tempo, Mulas dice: "Anche il racconto cinematografico ha un percorso lineare com'è il percorso dello scrivere, mentre invece la fotografia non ha nessun percorso, ha una spazialità, ha un'espansione da un centro a una periferia".
Nell'odierna società planetaria, il centro è sicuramente e saldamente tenuto dal sapere letterato delle scienze, mentre l'universo delle arti e delle immagini preme dalle periferie. Dire cultura vuole ancora intendere il processo di alfabetizzazione e il possesso delle conoscenze letterate. L'educazione primaria si basa sull'apprendimento delle lettere e delle grammatiche, sull'esercizio della scrittura e della lettura. Anche uno scrutinio prolungato e folgorante de Las Meniñas viene definito una "lettura" di Velázquez. In breve, l'intero sistema di scolarizzazione poggia tutt'ora sulla comunicazione verbale, scritta e orale; compresi gli audiovisivi che accelerano la memorizzazione sinottica delle immagini. Sicché il sapere che ne deriva è molto più letterato che figurativo, e trae la sua autorità dai testi scritti, in ogni momento. Se contemplate un dipinto del Caravaggio e qualcuno che non sia Caravaggio o Roberto Longhi vi sussurra nozioni morali, categorie storiche o prescrizioni estetiche, dovete sapere che è il diavolo cieco che parla in voi.
Anche gli artisti sono stati i bambini dell'alfabeto, solo in seguito, e a prezzo di rotture visibili, hanno vinto il potere della parola con l'insubordinazione dell'immagine.
Pablo Picasso aveva un diavoletto drammaturgo, Giorgio de Chirico ne aveva uno filosofo. Non furono certo Les Demoiselles d'Avignon che parlarono attraverso le maschere negre quando Picasso disse che "l'arte astratta non è che pittura, il dramma dov'è?". Risulta più comprensibile che un pittore, Barnett Newman, abbia fatto notare che "l'estetica sta a un dipinto come l'ornitologia sta al volo degli uccelli"; o che uno scultore, Carl Andre, abbia soggiunto che "l'arte è ciò che facciamo noi, la cultura è ciò che gli altri fanno di noi". C'è un conflitto di competenza, se non di primato, tra immagine e parola.
La storia della scrittura è un breve tratto della storia umana, ha ricordato Eric A. Havelock, se confrontata con i tempi preistorici dei pittogrammi e i millenni degli ideogrammi. L'evoluzione che dai sillabari semitici occidentali e dai Fenici porta verso il 700 a.C. alla nascita dell'alfabeto fonetico fondato dai Greci e poi trasmessoci dai Romani conta poco più di tremila anni. Eppure il sapere che l'alfabeto fonetico greco-romano ha consentito di istituire e di tramandarci, dalla filosofia alle scienze, mantiene sulla simbolica figurativa un primato che forse è irreversibile. Le arti visive sono costrette a convergere con tutte le scritture possibili in un unico testo.
Come si apprende a raffigurare? Differenziando le tecniche, i linguaggi, le forme, gli stili: dividendo. Se notate, la civiltà delle immagini odierna non ha una scolarizzazione di massa, elementare, attiva, seguitata, per le comunicazioni visive; manca persino di un termine equivalente alla parola "alfabetizzazione" nel senso formativo. Vi proliferano i nuovi strumenti tecnologici della comunicazione di massa, prevalentemente animati da immagini, multiformi e multimediali in modo da coinvolgere con i dati visivi anche i dati orali e quelli scritti, attraverso generazioni di macchine sempre più evolute; il termine "generazione", coi suoi indici di continuità e di obsolescenza, può forse raccogliere per l'immagine quel che l'alfabetizzazione ha seminato per la scrittura.
Ci sono, è vero, le scuole per l'istruzione artistica, alle quali si dirigono oggi masse crescenti di giovani: ma non sono centri di autorità. Le università albergano scienziati che da queste traggono autorevolezza, producono premi Nobel e sono riconosciute per le loro ricerche. Le scuole d'arte non sono rivolte a presentare i nuovi maestri e non sono mai state direttamente premiate dalla Biennale di Venezia o con altre onorificenze del mondo dell'arte. Molti vi accedono privi di qualsiasi curriculum figurativo, sovente sulla base di decisioni indotte dalla critica d'arte, per suggestioni scritte, per leggende orali.
È utile che molti più giovani s'istruiscano alle arti con una disciplina selvaggia, in un'esperienza fondamentalmente autodidatta: è una buona cosa. Mulas lo fa attraverso la fotografia: ma, dapprincipio, come ripiego. Agli inizi, vive un'intensa inclinazione alla letteratura (a questo l'avevano destinato i genitori, battezzandolo Ugo, Dante e Virgilio) e sicuramente scrive i suoi bravi componimenti giovanili. Tra il 1951 e il 1954, quando lascia il natio Pozzolengo nel bresciano per vivere a Milano e studiarvi legge all'università, il suo amore per la poesia si complica a causa di una sbandata per la pittura. Sicché il giovane istitutore, mestiere che gli consente intanto di mantenersi agli studi, decide di frequentare la scuola serale del nudo a Brera nell'inverno 1951. Da quelle esercitazioni in un'accademia storica ancora immersa nell'isolamento culturale causato dal fascismo e dalla guerra, come d'altronde buona parte dell'arte italiana, ricava poco; probabilmente, continuerà a disegnare e dipingere.
Già pensa alla fotografia.
Molto di più ottiene dagli incontri con gli artisti e gli intellettuali che frequentano Brera, il quartiere, il caffè Jamaica. "Qui ho trovato degli amici pittori che la sapevano molto lunga, o comunque io credevo così", ricorderà Mulas nella sua lunga intervista con Arturo Carlo Quintavalle per la mostra che questo studioso gli dedicherà alla Pilotta di Parma nel maggio 1973. "C'erano molti pittori che oggi sono molto noti, per esempio Dova, Crippa, Peverelli, c'erano spesso anche Morlotti, Cassinari. Poi c'erano anche molti giornalisti: Pietrino Bianchi, Berutti, Marco Valsecchi e altri". Tra Brera e il bar Jamaica è un agitarsi di nuove idee e nuove personalità che vogliono dare il cambio agli artisti riorganizzatisi a Milano subito dopo la Liberazione sugli opposti fronti del Realismo e dell'Astrattismo. Mulas solidarizza in particolare con un gruppo di giovani pittori che si ritrovano in corso Garibaldi. Comincia inoltre a schiarirsi le idee con altri aspiranti fotografi. "Al Jamaica c'erano anche dei giovani che volevano fare i fotografi: c'erano Alfa Castaldi, Carlo Bavagnoli, Giulia Nicolai e tanti altri", annoterà. "C'era qualche bravo fotografo, evidentemente, ma noi volevamo fare i fotogiornalisti, i fotoreporter di città (pensavamo che la cosa più importante della fotografia fosse il fotogiornalismo): solo dopo ho capito che questo era un aspetto strumentale".
Abbandonati gli studi di giurisprudenza "per timore di fare l'impiegato di banca, di questo fallimento nella mediocrità", occupato presso un'agenzia fotografica nel palazzo dei giornali a piazza Cavour, dove scrive didascalie e qualche pezzullo invece di fotografare, Mulas aggiunge alle passate esercitazioni pittoriche il gusto della ricerca iconografica: si appassiona a vecchie foto di briganti e brigantesse dell'Ottocento, compreso il Passator Cortese.
Questa esperienza avrà un'eco vent'anni dopo nella Verifica n. 4 dove due ritratti del re Vittorio Emanuele II incisi su una medesima lastra dai fratelli Alinari (una chicca trovata a Firenze dall'esperto Lamberto Vitali, che gliela mostra) attirano l'attenzione di Mulas nell'immediata percezione del ritocco che falsifica una delle due pose pressoché identiche (l'una col re tutto occhiaie e pancia, l'altra con Sua Maestà smagrito dal lifting in laboratorio), e gli consentono di provare le insidie del vero e del falso nell'uso della fotografia.
Non dura molto, lo scrivano d'agenzia. Stufo dei briganti di redazione, sbatte la porta e si ritrova su una panchina dei giardini di via Palestro senza arte né parte. Lì, incrocia un giovanotto bighellone, "un tipo straordinario, aperto, pronto a tutto, molto generoso". Gli dice: "Oggi mi sono licenziato da un lavoraccio, vorrei fare il fotografo". "Guarda te, io faccio il fotografo", dice il tipo straordinario, "ma anch'io mi sono licenziato oggi". Lavorava in un settimanale, doveva scrivere alcune didascalie anticomuniste per le immagini degli operai in rivolta a Berlino Est, da buon comunista lui ha detto no, me ne vado.
L'aspirante reporter ascolta il tipo pronto a tutto, e che conosce tutti, nella solidarietà fra venticinquenni arrabbiati e allo stremo. Con lui, con Mario Dondero, stringe una società di fatto per realizzare fotoservizi da vendere ai giornali. "È stato Mario Dondero che mi ha fatto fare le prime foto", dirà Mulas, ricordando un prezioso amico meno ambizioso di lui.
Col primo servizio realizzato alla Biennale veneziana nel 1954 egli individua subito la sua relazione preferenziale con l'arte, mai trascurata nonostante il successo crescente e più redditizio che gli riserveranno anche i campi della moda, della pubblicità e del teatro, e stabilisce la scena di una lunga frequentazione che lo vedrà scattare a Venezia le sue ultime foto pubbliche nell'estate 1972. Non sono tanto gli oggetti d'arte ad attirarlo quanto i personaggi, la gente, il senso dell'evento. È il fotoreporter che movimenta attori e quinte della mostra a Venezia ritraendoli come su un palcoscenico.
A Milano, si concede agli artisti molto meno. Lo circondano, in quegli anni, le nuove forme di astrazione che danno il cambio agli Astratti delle prime avanguardie e al Concretismo geometrico del gruppo "MAC". Vede primeggiare, nell'ambito milanese, lo Spazialismo che Lucio Fontana guida dal 1948 con diramazioni nazionali, nonché il Movimento nucleare animato da Enrico Baj e Sergio Dangelo tra intensi scambi internazionali con l'Informale parigino e gruppi europei quali Cobra e la Bauhaus immaginista. Lo attornia una marea di pitture a macchie, "tachiste", contaminata col figurativo dai Nucleari, poco invitante per un fotografo.
Inoltre, il giovane fotoreporter ama gli artisti, ma li giudica già con severità guardinga. "Mi piace molto dei pittori questa cosa", confesserà, "che a un certo punto una mattina si svegliano e dicono: io sono un pittore. E basta. E sono pittori, non c'è più niente da fare... Ci vuole anche un certo coraggio".
Allorché si dedicherà agli artisti, specie scultori, sceglierà i maestri.
A Milano, gli inizi di Mulas sono animati, più che dall'arte, dalla passione per la città, per la società urbana, anzi periferica. Tra il 1953 e il 1954, realizza le sue prime fotografie non solo fra gli aspiranti pittori e fotografi del bar Jamaica, ma anche tra l'umanità dolente delle periferie, della stazione ferroviaria, di un dormitorio pubblico. È un mondo a misura della propria indigenza di fotoreporter disoccupato che, con l'amico Dondero, sbarca il lunario tra la bohème di Brera per almeno due anni, facendosi prestare la macchina fotografica, ottenendone un'altra da un giornalista che bonariamente entra nella società Mulas & Dondero, finché riesce ad averne una tutta per sé in regalo da un gruppo di amici, come testimonia oggi Osvaldo Patani.
Fra questi, il suo maggiore estimatore è il critico Pietrino Bianchi che lo introduce a "L'Illustrazione italiana" nel 1955, quando lui già collabora con i settimanali "Tutti" e "Settimo Giorno" sulla scia aperta da quei primi fotoservizi sui milanesi.
Quindici anni dopo. Il celebre fotografo dell'arte, che dopo il 1968 e il grande successo del suo libro sui Pop e su New York ha deciso di "finirla di correre dietro ai pittori" per non diventare "lo specialista dei pittori", torna a guardare quelle immagini scattate anni prima a Milano. Le giudica "un po' populistiche, in chiave neorealista", però gli rammentano un progetto, l'idea di completare un archivio su Milano.
Il fotoreporter di una volta ha in realtà la visione di un fotografo di storia.
"Vorrei che fosse un archivio di fotografie", spiega Mulas, "archiviarle e metterle a disposizione delle persone alle quali queste fotografie possono servire, cioè non fare un libro per il pubblico". Dunque, è chiaro, nessun luogo comune, né Scala, né Madonnina; bensì "immagini che siano le più quotidiane possibili, le più apparentemente scontate (in realtà poi mai documentate)".
Ne ha già una prefigurazione visiva che peraltro è meglio ravvisabile adesso sia nelle prime foto milanesi sia nelle scenografie del Giro di vite e del Wozzeck realizzate alla Piccola Scala e a Bologna nel 1969: una figurazione di silenzi. "La cosa fondamentale sarebbe una serie di immagini deserte, senza persone", spiega ancora al suo intervistatore, "vorrei proprio che si vedesse dove viviamo". Pensa alle strutture sociali più che al vissuto degli individui, ai luoghi comunitari e ai vuoti della solitudine, ai posti dove si lavora e dove si abita, dove si soffre oppure si gioisce. Intende evitare il sensazionalismo sui ricchi e sui diseredati o, fotografando un manicomio, sui "matti", aborre la morbosità di tutti per la diversità degli altri. Vuole "lavorare fotograficamente sulla mia città" da storico.
Non avrà la salute né il tempo necessario per costruire con l'entusiasmo di sempre questo archivio su Milano, che probabilmente avrebbe coinvolto altre persone, giovani fotografi, in un lavoro di équipe, in una scuola mulasiana.
Realizzerà per contro la serie altrimenti stringata delle sue Verifiche, che invece verterà sui fondamenti della fotografia e avrà come attore, anzi come maschera, la sua persona nella cerchia dei suoi affetti in un orizzonte profondamente autobiografico. C'è più di un tratto in comune tra l'archivio solo iniziato dal giovane Mulas e le sue Verifiche conclusive, dove accanto ad alcuni ritratti possiamo vedere "immagini deserte" di cieli, finestre e materiali fotografici.
Apparentemente diverse, sono entrambe opere di analisi sulle strutture, là sociali e qui linguistiche, su cui esercitare un giudizio creativo.
Commentando la qualità dei ritratti e la complessità delle sequenze di Mulas – da Giacometti alla scena artistica di New York Quintavalle le ha paragonate alle serie classiche di Walker Evans e di Dorothea Lange, alle campagne fotografiche della Farm Security Administration durante la Depressione americana, a quelle celebri "immagini che condensano nel loro tempo lentissimo una situazione". È una buona indicazione. Saliamo al livello dei fotografi che attraverso la cronaca hanno saputo esprimersi come storiografi diretti delle vicende nodali del loro tempo. Le Biennali, i libri, l'archivio di Mulas costituiscono un contributo enorme alla storia dell'arte contemporanea, non c'è dubbio.
Il fotoreporter degli inizi è diventato un grande fotografo di storia.
L'avventura di Mulas ci rimanda a un'altra parabola intellettuale a lui più vicina per luoghi e tempi; al cinema di Roberto Rossellini; al lavoro di Rossellini documentarista, insieme testimone e narratore; alle preoccupazioni del regista didascalico che ha guardato ai lunghi tempi della storia sulla scorta dei minuti fatti quotidiani, evocati con distacco oggettivo e insieme con partecipazione.
Come l'arte è stata percorsa dai pittori di storia fino ai tempi di David, così la fotografia ha avuto i suoi fotografi di storia fino a Mulas. Fra costoro si annoverano i suoi maggiori protagonisti e tramite loro la fotografia ha espresso forse le sue potenzialità di fondo (è un'ipotesi, bisognerebbe verificarla). E il nostro autore matura più di ogni altro la consapevolezza di partecipare agli eventi del suo tempo nella funzione di uno storico. Con i prediletti Calder e Fontana, Consagra e Melotti, Arnaldo Pomodoro e Duchamp, diventa il più ambito biografo del progredire della loro opera o delle idee che impersonano.
Fra i fotografi apprezza solo chi nel tempo ha ricreato un universo.
Con David Smith, nella primavera 1962, gli bastano poche sedute di lavoro tra una mostra a Spoleto e una fabbrica di Voltri per approfondire l'intesa con un artista che fino allora ha preferito fotografare lui stesso le proprie sculture.
Non si limita a fotografarne le opere in mostra (ha già celebrato in una bellissima immagine il suo capolavoro Australia nel 1958 a Venezia).
Lo segue al contrario nel grande atelier naturale in cui lo scultore assembla "vecchi arnesi di fabbrica, rottami, tenaglie, residui anche trovati per terra".
Nel libro David Smith (introduzione di Carandente, Pennsylvania, 1964), le sue fotografie sono pubblicate fra quelle fatte dallo scultore che scrive: "They are great (sono fantastiche)". "Vederlo mentre sceglieva i pezzi ed eseguiva le sculture nella fabbrica", spiegherà Mulas a Consagra, "aiuta a capire l'operazione mentale dell'artista e non soltanto quella fisica". Aiu ta anche gli storici che sovente scrivono basandosi sulle riproduzioni invece di guardare le opere in studio.
Nei reportage dalle Biennali costruisce sequenze di un'opera, e di un artista lunghe dieci, quindici anni. È il caso di Lucio Fontana che già nel 1954 inscena un gesto divertito di apparizione, come pure di Pietro Consagra. Il fotografo annota l'attore naturale che è Fontana, gentiluomo borghese di cui ammira la gaudente spontaneità, coi suoi oggetti prima e dopo lo Spazialismo, dalle Biennali alle ultime mostre del 1967, in un duetto narrativo che ha una scena madre: quella del maestro che taglia una tela. Questa superba sequenza del 1965 comincia da una tela bianca che Fontana in gilet e cravatta affronta mentalmente brandendo un taglierino e si conclude sul movimento della mano che ha appena inferto il taglio; ma con un artificio, in quanto l'ultima immagine mette in posa il gesto dell'artista su una tela già in precedenza tagliata; giacché si vuole mostrare "non il risultato di un raptus, ma proprio il calcolo portato con estrema freddezza fino all'estremo". Invece di subire passivamente levento, 'Mulas ricostruisce la scena in modo analitico compiendo un'operazione critica, privilegia il concetto (spaziale) sull'azione.
Meglio degli storici d'arte, più dei critici, il fotografo intuisce in Fontana il "recupero di una ingenuità, di una immediatezza", di una "certa istintività dell'uomo primitivo"; e lo raffigura visivamente quando fotografa le Nature (bocce o sfere in vari materiali squarciati) come se rotolassero da una distanza primordiale. Lo affascinano le figure e le opere segnate da lunga durata; le incontra in Calder e in Giacometti e in Fontana.
Mulas è un impareggiabile fotografo della distanza e della durata.
Con Fausto Melotti intrattiene ugualmente un lungo sodalizio e tuttavia incontra qualche difficoltà nel trarre un'interpretazione critica delle sue sculture filiformi, retinate, trasparenti, degli anni sessanta. "Esiste una vera difficoltà per riprodurre queste cose molto sottili". Però il fotografo contribuisce molto alla riscoperta dello scultore che, dopo la capitale presenza con Fontana tra i primi Astratti italiani a Milano nel 1935, passerà un ventennio oscuro di gran ceramista. La stima degli artisti più giovani e poi il mercato consacrano Melotti dopo il 1960, non diversamente da Marcel Duchamp, d'altronde, lui pure riscoperto a New York come a Milano in quegli stessi anni. Con Melotti, concluderà Mulas, "ho fatto un lavoro di traduzione. Ho cercato di essere il più possibile fedele e utile. Però mi piace di avere incominciato a fotografare le sculture di Melotti quando non era famoso come adesso". Nelle immagini raccolte dal libro Lo spazio inquieto l'artista diffonde calma e ironia sul suo lavoro.