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L’esplosivo frammento visionario di Alberto Montrasio

Di Flavio Arensi

Eppure, ciò che germina al di là della finestra, nel verde claustrale del giardino, e poco oltre della Brianza, filtra nel riverbero esistenziale dei processi intimi di Alberto Montrasio, amalgamando in unico flusso di coscienza creativa l’intero destino delle cose. Interno ed esterno, "Dentro e fuori" - come titola un dipinto del 1975 - vivono in connubio divenendo materia pittorica grassa, frammista di squarci lucenti e di quel senso rigoglioso della natura più suadente. Il gesto non cede alla casualità, ma costruisce il racconto come la boscaglia il suo castello di tralci, fili, radici e piante, mentre l’animo cuce le ferite ed assimila le gioie della vita, che non sono poche. Montrasio permette all’esistenza di accarezzare il paesaggio, scivolandoci sopra, come le stesure d’impasti gravidi che divengono grembi; e dal regesto della vegetazione alcune donne stagliano contro l’orizzonte che n’assimila la carne, trasformandole in humus, sul quale inalberano nuove coltivazioni. Il ciclo vitale che egli inscena non distingue o separa la visione dall’occhio, permette altresì che il sentimento esploda e tocchi il motivo del ritratto. Il frammento visionario dunque traduce in esplosione, esso deflagra interamente nel tutto che circonda. Non si tratta di rappresentare il territorio in chiave naturalistica, ma di adottarlo come linguaggio personale ed unico per esercitare la propria identità, e con quella il carattere complesso della passione. Montrasio è un uomo colto, un conoscitore della storia artistica, e pur non rinunciando agli approdi di molti colleghi passati, anzi serbandone il sentito, travalica il significato del vedutismo ottocentesco, e cerca nell’informale la strada di ritorno all’esperienza piena del mondo. Mondo che detiene i colori accesi dei vitigni, o il bagliore tenue della neve che batte leggera sugli infissi, o il marrone terrigno delle "Brianza".

Proprio la finestra si frappone fra l’intimità dello studio e la libertà esplorativa della veduta panoramica, abbacinante nel quadro "Finestra e paesaggio" (1969), dove il chiarore rosato ed aurorale asperge piano piano il terreno, mentre in altri episodi del medesimo ciclo prende il sopravvento la dinamica più gestuale vicina alle soglie spazialiste e d’indagine americana della action painting. In questi casi Montrasio sembra interessato a procedere per sovrapposizioni, fino a ricavare un grumo intenso di emotività ("Fiori inutili", 1967), mentre altre volte, come in "Nudi terra" (1967) – un quadro assoluto - l’immagine affonda direttamente nel sostrato. È una compartecipazione emotiva piena, una militanza d’intendimenti vasti che riportano alla superficie quella tradizione lombarda che trova nell’orizzonte una ragione poetica d’entusiasmo. Però, il distacco qui sta nell’affrancare un unico punto di vista in misura di una più ampia dispersione dell’io-osservante non soltanto in direzione del veduto, bensì fin dentro alle proprie viscere. Non sono più necessari contorni definiti e definitivi, è sufficiente intendere ogni singolo elemento come parte originale di una complessità ben più vasta; nel "Nudo" del 1973 avanza soltanto un’impronta di figura umana, distesa ed estesa nell’intorno: i segni che la distinguono sono rapidi, fino a toccare una sorta di convulsione allorché arrivano a significare quelle poche parti dettagliate, come il ventre, oppure la coscia sinistra, pur nel groviglio profondo di calami che infrangono e penetrano nelle membra, in un unico assolo organico. Si tratta di un’evoluzione del contesto già evidente in "Contro al muro" (1968), in cui il personaggio si annulla nella cupezza dei rossi e dei bruni, come una vittima piantata davanti al suo martirio; mancano invece (o attenuano) le stilettate dei quadri che chiudono il decennio degli anni Sessanta e si trasformano nel successivo in striature germinali, rinunciando alla spessore dei solchi di certi paesaggi ("Paesaggio" 1963), bensì divengono lingue verticalizzanti che portano il soggetto ad elevare in specie di volute filamentose ("Nudo nel canneto" 1974, "Dentro e fuori", 1975) tese all’interno di una materia assottigliata rispetto ad esercizi precedenti, ma sempre con fluidità.

Rispetto alla "Natura morta" del 1959 e alla successiva "Le case" del 1960, le opere susseguenti che parlano del contesto naturalistico modificano tanto la prerogativa tecnica e d’immagine quanto la musicalità; al sottile ed immobile silenzio di queste, Montrasio sostituisce il crepitio scorrevole e continuo dei campi, dei rumori atmosferici, dei pensieri che inondano i corpi generosi delle modelle. Il brulichio del Creato si espande nella selva, e il verde o l’azzurro, finanche il cremisi, intonano una melodia a tratti rapida e vorticante, altre alla stregua di un canto portato all’infinito, ma comunque sempre a modi di spirale. La rapidità di certi gesti, contrasta dunque con la meditazione celebrale che sottende i passaggi lirici, dove l’artista cerca un contesto ancora più personale, se vogliamo di elegante rigore, per poi destabilizzarlo con uno scatto rabbioso. Il disfacimento vegetale, che trasmuta nell’ottica assoluta del mistero posto oltre il dato reale, lambisce gli archetipi della creazione, cercando il luogo esatto in cui tutto principia e probabilmente muore; la macerazione delle carni - degli elementi erbosi, del cielo e della terra - provoca l’accalcarsi di stati psicologici che divengono sostanza viva, accumuli di colore vibrante, in cui la luce non smette di recitare una parte da grande protagonista. Non si tratta di una luminosità dell’organico, con punti focali precisi, siccome avviene la ricerca di quel sottile intermezzo fra il chiarore e l’oscurità che in qualsiasi boscaglia emerge con la delicatezza sfumata delle cose preziose. Anche quando si tratta di quadri interamente dedicati alla sinfonia del luminoso, come in "Finestra e neve" del 1964, le minuscole variazioni tonali e i riflessi pieni argomentano una fenomenologia degli opposti che divengono mescolanza pura, sintesi esatta fra ciò che accade nel vero e nel sogno personale. Laddove il vero è l’infinita ombra del sogno. E non viceversa.


Articolo pubblicato il 31 ottobre 2005