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1945-1955 Diario di un paesaggio che sceglie la città Di Flavio Arensi Gino Meloni ha ingiustamente scontato, negli ultimi decenni, un oblio critico immeritato. La sua smisurata esigenza di ragguagliarsi al contesto artistico nazionale ed internazionale, talché non sempre l’abbia condotto a stagioni straordinarie, ha comunque rivelato l’intelligenza pittorica di un autore intenso e importante. Importante, se non altro, in quel decennio che a ridosso del Dopoguerra impianta i cardini principali della sua opera, stabilendo tre parametri tematici essenziali, ossia le Donne, i Galli, le Venezie, in grado di separarlo dalla fonetica del naturalismo lombardo di stampo ottocentesco, e dal tentativo d’inserire - pur in capolavori come il Funerale del povero oppure La camera dell’artista - suggestioni derivabili dal Primitivismo e da Corrente, in anticipo su esortazioni esistenziali e sociali posteriori. Ma è proprio con le immagini femminili, presentate alla Galleria 15 Borgonovo di Milano nel 1945, che definisce la scappatoia al Picassimo, in cui invece stagnavano ancora - in attesa della liberazione successiva - nomi per altro notevoli come Ennio Morlotti, Bruno Cassinari, Renato Birolli. La soluzione delle Donne di Meloni inscena l’equilibrata acquisizione dei canoni innovativi delle avanguardie parigine, senza tuttavia lasciare che esse s’impongano sugli attributi ambientali e culturali vissuti dall’artista. Se poniamo a confronto tematiche simili, come La donna che si pettina di Meloni (pag. xx) del 1945 e la Donna che si lava di Morlotti, successiva di un anno (pur all’interno di un contesto espressivo che dura già da qualche tempo), risulta chiaro come il primo riesca a motivare una proposta totalmente personale e riuscita, matura e coerente, mentre al secondo spetta ancora una certa indecisione irrisolta. Paradossalmente, a metà degli anni Cinquanta, quando Meloni risente di una inflessione poetica e stilistica, nella parentesi meno riuscita della parola informale, Morlotti inizia a segnare il passo entrando in uno dei suoi momenti più alti; d’altronde si dovrebbe anche cominciare a leggere criticamente il periodo dei Feticci morlottiani come una presa di coscienza delle posizioni di Meloni, e proprio delle sue figure umane. Non devono stupire i rapporti così strettamente intrecciati fra autori che condividono non soltanto il sentire sociale lombardo o milanese, bensì i travagli bellici e soprattutto le crisi estetiche derivate dalle temperie straniere, anzitutto parigine. In quest’ottica, Meloni pare più interessato a formulare un proprio alfabeto dal conseguire pedissequamente altri valori che, se portatori di ricchezze, non nascondono l’attitudine ad imbrigliare. Perciò, l’intuizione meloniana assorbe intelligentemente la generosità coloristica e di soggetto di Henri Matisse, oppure l’erompente forza di Pablo Picasso, però riducendoli ad essere un medium secondario rispetto all’intero impianto teorico del quadro, che invece nasce da prerogative più intime, di certo legate alla ricerca lombarda. Il paesaggio entra dunque a far parte degli interni di stanza e ancor più diventa un continuo ritratto al femminile, tanto da caratterizzarsi negli abiti e nelle tappezzerie descritte, diventando non più panorama di un luogo, ma al contrario luogo interiore di un panorama (Donna sul divano, 1946 pag. XX; La brianzola, 1950 pag. xx). In Contadina brianzola del 1950 (pag. xx), il paesaggio e la figura si incontrano annunciando simbolicamente l’avvio di una nuova tematica, in effetti iniziata l’anno precedente, e la chiusura del ciclo dedicato alle Donne. Con il ritorno al mondo esterno, ed in particolare a quello brianzolo della campagna, Meloni attinge ispirazione dalla storia del proprio territorio, a cominciare dal mondo semplice dei lavoratori, come del resto Morlotti farà più tardi con le Lavandaie (1952) quale preludio alle Bagnanti. Ugualmente, Meloni accetta la sfida con il contesto sociale e dunque, dopo aver abbandonato l’orizzonte verde per concentrarsi sulla fisionomia umana, ritorna nell’aia - nel cortile - e comincia da lì un nuovo cammino esplorativo. È la stagione dei Galli, con la loro geometria verticalizzante che tende ad un’ulteriore semplificazione del costrutto narrativo rispetto al passato. La forma si stilizza maggiomente, quasi raccogliesse le speranze urbane della Milano postbellica, con il rumore dei cantieri e le nuove geometri architettoniche della Ricostruzione. Questi galli-totem simulano lo slancio delle antiche città mediovali, delle loro torri (Galli turriti, 1954), ed in effetti divengono i vessilli di una umanità che si ritrova a fare i conti con la tradizione e un futuro ancora incerto benché promettente di nuove allettanti indulgenze. I Galli sono la contrazione definitiva della forma, la sua definitiva astrazione, e non è dunque difficile comprendere come mai, nel pieno delle eccitanti indagini informali, Meloni senta come un limite la stesura della usa materia luminosa ma non materica, e quindi cerchi echi e approdi inediti, soprattutto metodi alternativi di lettura della realtà. Se i paesaggi degli anni Trenta assumono col tempo i contorni poco suadenti però solidi delle Donne, e le Donne divengono a loro volte linee di un paesaggio esterno e quasi Metafisico, per poi trasformate in elemento agreste, ossia i Galli (coi colli lunghi alla Modiglioni); i Galli a loro volta mutano in città. Il passo successivo non poteva infatti che riguardare l’aspetto urbano del vivere; per farlo, Meloni non sceglie la metropoli a lui più vicina, piuttosto - come altri colleghi - preferisce recarsi in esplorazione ed individuare la propria città ideale: Venezia. La Serenissima diviene, con tutti i suoi molteplici motivi ed elementi, l’accorta sede di un nuovo discorso tematico, ma - soprattutto - tecnico. L’avvicinamento ad una materia più corrusca, talvolta affastellata, comincia sulla metà degli anni Cinquanta, quando cioè Morlotti entra nella fase pienamente informale, e lo stesso capita per esempio ad Alfredo Chighine, al quale Meloni guarda in certe opere del decennio successivo (Brianze del 1960). Ma è con le Venezie - apparse intorno al 1953, ormai all’esaurirsi della tensione dei Galli - che la materia esplode, si fa essa stessa motivo dialettico: qui l’estrema pulizia condotta negli ultimi anni, pulizia di motivi e di immagini, totalmente contratta tende adesso ad allargarsi improvvisamente, gettandosi in un dirompente canto sinfonico (La salute dorata, 1957 pag xx). Questa fase costruita intorno ad una pittura che, apparentemente, potrebbe somigliare ad una manifestazione quasi ansiosa di un fremito interiore gettato fragorosamente sulla tela, dimostra invece una notevole e consueta volontà di costruire il quadro nel tentativo di far compenetrare il più possibile tutti gli elementi chiamati a corrispondere. Più che in precedenza, la materia pittorica permette a Meloni di lasciare che i contorni del soggetto entrino nel contesto paesaggistico e viceversa. Si tratta di comprendere come il gioco delle masse alleggerisca mentre l’elemento sentimentale aumenti, fragoroso come i piccoli e impastati frangenti che riempiono la superficie del quadro. Le Venezie, tuttavia, benché siano un approdo nuovo, chiudono anche la stagione più importante e matura di Meloni, in quel decennio che, iniziato nel 1945 si conclude intorno al 1955 col l’incedere di altre tematiche: le Brianze, in cui la sostanziale autonomia dell’artista perde di consistenza, in virtù di una ricerca purtroppo non sempre all’altezza delle sue qualità dialogiche. La ripresa, negli anni Settanta, di alcune vecchie suggestioni, ed in generale della figura, riconducono il pittore a più incisive risultanze, che spesso il periodo più strettamente informale non sembra raccogliere. Eppure, Meloni, a ragione del decennio qui analizzato, in questa breve e sentito omaggio alla sua poetica eccezionale - nel centenario della nascita - lascia lo spazio ad una rilettura critica approfondita che individui i crediti trasmessi alla storia dell’arte: la vivacità del suo modo d’operare, l’indole a non cadere nella trappola di uno stilema eccessivamente matrigno, che ingabbi la ricerca nella stretta prigione della ripetitività; tutto ciò, se da un lato l’ha condotto a una sperimentazione fin soverchiante, dall’altro gli ha concesso, come a pochi altri artisti, di realizzare una dinamica lirica affatto unica, severa, spesso ineccepibile e soprattutto salvifica. Articolo pubblicato il 31 ottobre 2005 |