Indice degli articoli di arte


Finalmente l’ombra

di Flavio Arensi

«Dove c'è molta luce l'ombra è più nera».
J.W. Goethe

«Tutto quello che è interessante accade nell'ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini».
L.F. Céline

Se non eroico cos’è intravedere Andrea Martinelli salire le rampe che inerpicano allo studio? E subito ad attenderlo, dietro il chiuso della porta, l’incombenza ossessiva degli sguardi o delle presenze inquisitorie dei suoi regesti affettivi, insieme agli spazi della memoria; se non proprio fuggire da lassù, verrebbe di girare al muro i palchi d’incubi da cui quegli spiriti s’affacciano sul mondo. Pur nel tentativo di sgominarli, tornerebbero (tornano) gli occhi robusti e le rughe caricaturali dei suoi incontri di ieri, con la nostalgia di chi non soltanto visse quell’attimo di vita, bensì lo rinnova al presente. In altre vicine stagioni, i personaggi principali replicano clonati alle spalle del primo, come uno specchio nello specchio, una bestemmia calcata sul labbro dell’eretico in preda all’eresia; talvolta, nel fondale d’architettura urbana egli colloca la scena alla stregua di una mitologia terrena, in quella sorta di cittadella esistenziale che nel caso non sia Prato stessa, è senza dubbio l’appendice di una città irreale tuttavia eccessivamente d’uomini. Emana il colore terrigno (la gravità dei corpi sbilanciati verso il caracollare della loro medesima intimità) lo strano sapore di concretezza, di caducità da sottobosco, dove il marrone e il giallo mescolano i loro destini di fine. Alcuni spunti di materia pittorica, di pastello schiacciato all’accesso ma di quiete aguzza, rammentano la carnalità di facce ormai balorde, o quel manifesto alla vecchiezza che è e sarà il Nonno. Poi, la gracilità incavata di alcune guance… di converso i menti saldi o le pupille enormi, franate nel freddo paglierino delle atmosfere pittoriche brune, e insieme nel silenzio chiostrale che certuni fra quei ceffi d’altri tempi proclamano con la sicurezza di chi ha già un motivo valido per non rimanere fra noi mortali. Il cerone freddo e le atmosfere rigide, la visione che si fa incubo gentile, senza mai tradurre in disagio, ma soltanto in assillo che non demorde ne sfugge ai suo doveri di vera illusione -  vera: quasi fatta d’ossa e pensieri. Ecco, i pensieri di Martinelli erano quei visi a ridosso di visi identici, le mani appresso alle mani, le finestre confuse come altri occhi fra occhi di figure sempre in verticale, e il primo piano che s’allarga per estendere e non per mitigare l’assiduità di quel cospetto, bensì amplificarlo, anzi ripeterlo come un affanno del respiro.
Nel corso degli ultimi mesi, e mesi qui significano almeno un biennio, la tonalità è smagrita, lo spessore della materia ha assorbito le parti colorate, e la luce balenante fra le increspature della pelle ora riempie il vuoto querulo dei viventi, di noi insomma che guardiamo – nel contempo guardati. Il corpo si è perduto, se ne sono andate le braccia, le gambe, i busti, però ne avanza la testa; ma non come una decollazione che pone l’ultima parola sul piatto della morte, bensì un avvicinamento esaltato alla radice, al nocciolo del problema. Intanto, la topografia espressiva di quelle esistenze catturate adesso – qui proprio ora - riduce alla sua sintesi, e neppure nella logica di amplificare l’oggetto veduto fino allo spasmo per renderlo più grande e poderoso, quanto per infondergli il coraggio o il pretesto di un suo atteso intervento nelle faccende domestiche. Non penso che Martinelli abbia in testa il macroscopico assillo di Domenico Gnoli (1933-1969) o gli oggetti del quotidiano che divengono mania megalomane in Wolfango (1926), mentre egli insiste nel dialogo con strutture sempre più minuziose, e nel farlo, recepisce l’aura della loro (in)esistenza. Non esistere, quello sì che faciliterebbe le cose; invece, queste facce parlano di un coraggio opposto, e nel pallore grigio delle loro espressioni più tese, sono i sigilli del tempo che è stato. Certe rughe sono trincee di piccole vittime silenziose, alcune sfumature la nebbia che al mattino cancella i resti degli scontri notturni, scontri e conflitti interiori. Talvolta le coscienze sono come le grandi navi ammiraglie a capo di guerre lontanissime fra le pagine dei libri scolastici. Se non fosse perché ho conosciuto alcuni modelli, li ho sul serio visti sospirare costatandone la verità di nascita terrena, potrei ritenere i loro ritratti come le cronache inventate di ostilità fra eserciti nemici, fondali di zuffe d’anime e di spiriti… gli orizzonti chiaroscurali di Willem van de Velde (c. 1611-1693) nelle tre battaglie del Rijksmuseum ad Amsterdam, col biancore degli spazi aerei o marini, e il nero segnico, incisorio, dei motivi navali, degli alberi e delle ombre sulle vele, ombre impresse dal vento. Finalmente l’ombra! Finalmente la carne dei fantasmi evapora e lascia nei quadri di Martinelli l’impressione di un’assenza disumana, come sono tutti gli addii, come sono le pance gonfie di velieri gravidi di polveri da sparo; partorivano ruggiti di cannoni, e qui, in queste tavole grida invece la voce di chi non s’arrende alla solitudine e viene (volenti o nolenti) al nostro cospetto per un incontro, un convegno di sensi ed occhiate.
Mi è capitato d’ incrociare spettri umbratili nelle pupille assenti di qualche volto di Roger Eliot Fry, e del suo apostolo visionario Stanley Spencer (1891-1959), su per quella strada anglosassone che giunge alla figurazione di Lucian Freud (1922), però senza eccedere nel grasso del compiacimento, fermando piuttosto sull’orlo del precipizio ossessivo, del buio pecioso di certe notti percolanti dalle ferite dell’esistenza che sono pure dei grandi ritratti martinelliani. Ferite, però diverse dalle lacerazioni d’epitelio, ma tagli profondi, scavati dalla pratica del vivere, che è poi esperienza d’incontrare. E benché di questi volti enormi (piantati come batteri su slide d’analisi biochimica) quasi si possano calcolare gli interminabili frammenti di composto materico, la loro storia sfugge, assieme alle vicende che sono state per davvero, però segrete. Se pure raccontano, lo fanno con discrezione, fissando il vuoto, o gli astanti; talvolta la medesima cosa. Martinelli offre loro compagnia. Di quando in quando dorme sullo sprofondante divano dell’atelier, in simbiotica vicinanza. Non hanno lo sgomento freddo del Nord, delle passioni carnali vomitanti di Francis Bacon (1909-1992), né la materia pulita dell’orrore realista di altri autori italiani o tedeschi, o la lenta meditata analisi di Antonio Lopez Garcia (1936), bensì la grumosa disagiata corpuscolarità dell’inquietudine. I bianchi o i grigi che hanno sostituito le terre sono raggelanti come la verità sentenziata di fronte all’imputato e alla sua colpevolezza delinquenziale. Intorno rimane sempre un alone più chiaro che non permette alle figure d’immergersi, ma le salva dalla notte che incombe. L’aureola cancella la necessità d’affollare la tavola, non serve ripetere i soggetti, né i palazzi e l’urbanità metafisica. La semplificazione iconografica traduce il chiarimento dello stato d’animo; i disegni scarnificano maggiormente, il tratto incide come un bisturi, e la sua lama si fa tagliente. Sulle carte da disegno, Martinelli stende un velo malinconico, e l’attesa che pulsa nei dipinti qui è una confessione di stanchezza da parte delle anime ritratte. Si sistemano nella posizione ottimale per la posa, e intanto il cervello esplode in cerca di un momento quieto. Di fronte, l’artista prende le misure per strappare un brandello d’interiorità; la matita è più leggera, la punta magari eccede nella pressione, ma non si ripete come una fisima, non ripassa decine e decine di volte sullo stesso punto; la leggerezza diventa la poesia di un’icona un po’ sbiadita, cancellata dalla polvere del ricordo, senza pretesa di poterla trattenere. Qualora le tavole afferrino l’evanescente immagine di un attimo trascorso e perso, i disegni ne possiedono l’idea, quella parte impalpabile che altrimenti in pittura diventa pelle, calli, rugosità, ossa sporgenti e secche.
Tuttavia, questi calli, pelle, rughe ed ossa sono imprendibili e distanziano il ritrattato dall’ammiratore come il Risorto dalla Maddalena. Noli me tangere, gridano, e perciò la loro carnalità astrale è il presidio di viscere e spoglie sollevate dall’ingombro della carnescenza mondana, ancor più degli individui che popolavano gli ambiti di Martinelli fino (almeno) al 2003. Già il colore mutuato dalla terra, magari dal fango biblico in cui soffiò il Verbo, che li caratterizzava nei loro toni ambrati, vira oggi ad una lucidità nuova, più serena forse, anzi meno di tranquilla, col chiarore intangibile dell’anamnesi. Questi quadri nivei si portano dentro l’attesa nervosa della tigre in gabbia che muove intorno al cerchio perfetto del suo disgusto incredulo; gli occhi saldi sembrano altrove, ma non perdono d’incrociare i pellegrini davanti alle sbarre della prigione. Il loro divertimento è la sua condanna, così l’ammirazione o il biasimo del visitatore e la pena da scontare per i soggetti di Martinelli; sono lì, al limitare del perfezionismo maniacale, nel loro equilibrio preciso, ansiogeno. Laddove l'uomo scopre un minimo di ordine, immediatamente ne suppone troppo, e così molti ne decretano l’iperrealismo formale, ne giudicano gli inusitati passaggi di sostanza pittorica, l’attenzione chirurgica di certi particolari certosini. Ma questi volti che aspettano un qualsiasi accadimento diverso dall’attesa cui sono forzati, attraverso il immenso ordine manifestano per converso un tragico scompiglio; cosa dunque attendere se non atre presenze vive, altre persone umane, altri probabili utili soggetti per ritratti futuri, e ancora più grave è aspettare qualcosa che non si desidera, che disturba o semplicemente ricorda alle ombre di essere ombre. Soltanto.
Quando Hector Berlioz (1803-1869) scrisse Les Troyens, rifacendosi ai motivi virgilani, inscenò con infinito rimpianto il reame degli eventi passati: Panteo e i capi troiani erano prossimi alla partenza, nonostante l’incertezza agitata di Enea; in quegli istanti un coro d’ombre lo chiamò per nome: ecco gli spettri degli eroi concittadini per esortarlo a compiere la sua missione fatale. Enea ordinò la partenza. Martinelli, in fondo, non fa che accogliere nello studio, il suo – personale – coro di ombre giunte dai piani antichi del passato. La grandezza tragica della sua opera non sono i temi figurativi – le solite usate effigi di pochi amici e compagni fedeli alla medesima follia -  bensì la metodica con cui considera loro alla stregua di simboli di un mondo ideale, forse mai esistiti (benché in verità una parte di esistenza sia documentata), o comunque appartenenti ad un lontano regno di memorie. Che egli avverta con sovrumana malinconia i rappresentanti di avvenimenti accaduti, insieme al loro bagaglio di considerazioni sentimentali, attesta il convinto asserto di un ufficio della pittura che alle ragioni della spettacolarità oppone quelle dello spirito e del dialogo intimo. Non tutte le missioni sono atte a salvare il cosmo intero dalla minaccia di chissà quale pericoloso sgherro. C’è chi tutte le mattine, svegliandosi, rende piacevole essere vivi (come fanno molti cari compagni di strada sorridendomi), chi, d’altra parte, scavalcando uno a uno i gradini della scala che conduce al suo atelier – eroicamente - dona al nostro consorzio d’anime un piccolo pretesto per guardarsi dentro. E se questo sguardo capita, allora, il cosmo intero è di fatto salvo.

Andrea Martinelli
Note biografiche
Nasce il 12 Marzo 1965 a Prato, dove vive e lavora. Dal 1992 al 1993 lavora con grande intensità a una serie di grandi carte dipinte, dal titolo "Senescenze", che attirano l'attenzione del critico e storico dell'arte Giovanni Testori. Nel Dicembre del 1993 le prestigiose sale dell'Accademia delle Arti del Disegno di Firenze ospitano la mostra "Senescenze - opere 1992/1993", introdotta in catalogo da un saggio di Maurizio Cecchetti. La mostra, itinerante, continua a Milano alla Compagnia del Disegno, con saggio di saggio di Enzo Fabiani. Alcune di queste opere figurano alla rassegna "Venti Pittori in Italia", curata da Marco Goldin, ospitata in spazi pubblici e privati, fra i quali Palazzo Sarcinelli a Conegliano Veneto. Il 1997 è l'anno di due importanti personali, che si terranno a Milano alla Compagnia del Disegno e a Torino alla galleria Davico, con presentazione in catalogo di Marco Vallora. È inoltre invitato alla mostra "Ritratti a Testori", curata da Marco Goldin, nel cui catalogo risultano gli interventi critici di Giovanni Raboni, Luca Doninelli, Marco Vallora e Giorgio Soavi. Sempre nello stesso anno gli viene conferito il XXXVII Premio Suzzara. Nel 1998 è presente alla Quadriennale di Roma, dove riceve il premio acquisto dalla Camera dei Deputati. Del 1999 è la personale di disegni alla galleria dell'Incisione di Brescia con saggio di Franco Fanelli. È inoltre invitato da Marco Goldin alla mostra: "Sulla pittura - artisti italiani sotto i 40 anni" a Palazzo Sarcinelli di Conegliano Veneto. Al Museo Pecci di Prato presenta una cartella di incisioni in occasione della commemorazione di Bruno Tassi. Nel 2001, tiene delle personali al Palazzo del Parlamento Europeo di Strasburgo, a cura di Vittorio Sgarbi, alla Galerie Le Point di Montecarlo, a cura di Gilbert Lascault, e alla Galleria Comunale d'Arte Contemporanea di Ciampino, a cura di Tiziana D'Achille e testi di Marco Di Capua. Nello stesso anno, gli viene assegnato il riconoscimento "Le Muse", al XXXV Premio Internazionale, in Palazzo Vecchio a Firenze. Del 2003 è la personale "Un certo sguardo" alla Montrasio Arte di Milano - in catalogo saggi di Carlo Castellaneta e Flaminio Gualdoni - e quella alla Compagnia del Disegno di Milano di sole opere grafiche. È invitato da Alessandro Riva alla mostra "Volti" nel contesto della 50° Biennale di Venezia. Nel 2005, partecipa a "Il male. Esercizi di pittura crudelle" alla Palazzina di Caccia di Stupinigi e a "Il Ritratto interiore" al Museo Archeologico di Aosta, curate da Vittorio Sgarbi, e a Londra alla Albemarle Gallery in "What's realism?" a cura di Edward Lucie Smith.


Informazioni

Andrea Martinelli. Il volto e l'ombra
A cura di Flavio Arensi
Conferenza stampa giovedì 10 novembre 2005 alle ore 11.30
Inaugurazione sabato 12 novembre 2005 alle ore 18.30
Testi in catalogo: di Flavio Arensi, Ada Masoero, Mario Botta, Stefano Crespi (oltre all'antologia critica, con testi di V. Sgarbi, L. Smith, etc etc). Il catalogo è corredato da alcune immagini di Martinelli scattate dal celebre fotografo Gianni Berengo Gardin


Articolo pubblicato il 27 ottobre 2005