L’esposizione, che presenta alcune delle opere più conosciute del
maestro belga, come L’impero delle Luci, La buona fede o La fata ignorante,
muove i propri passi dall’asserto magrittiano, secondo cui “La pittura è
soltanto un mezzo che mi permette di portare alla luce un pensiero grazie
all’utilizzo di elementi presi al mondo visibile”.
Magritte, infatti, riteneva, come Leonardo, che la pittura fosse una ‘cosa
mentale’, una proposta di riflessione o un’idea che deve prendere forma
attraverso di essa, mantenendosi entro i limiti della riproduzione del mondo
visibile. Ciò che rende diversa la sua pittura è la
rappresentazione circoscritta ad ambienti quotidiani, riprodotti con la massima
fedeltà, con lo scopo di provocare una riflessione che metta in discussione ciò
che si dà per scontato. Inoltre pretende, in questo modo, di rendere visibile
la poesia e di trasformare il mondo comune in un universo poetico.
Nella sua iconografia, seppur molto varia ed ampia, è facile riscontrare tali
“cose visibili”: i nuvolosi cieli del nord - che fecero coniare a Max Ernst il
motto “Fa un tempo Magritte” - il mare e l’aperta campagna; gli alberi e il
bosco, i notturni, i sobborghi; un certo stereotipo di borghesia dell’epoca,
belle e languide dame e l’uomo vestito di nero con bombetta; uccelli e colombi;
fiori e oggetti comuni come case, sonagli, balconi, sfere, mele.
René Magritte La connaissance de l'absolu
Il punto di partenza del percorso espositivo, giostrato su un doppio binario
cronologico e tematico, è rappresentato da L’amazzone, opera che può essere
considerata come un “Magritte prima di Magritte”, nella quale si accosta al
naturalismo una costruzione cubista.
La sua produzione è spesso intrisa di mistero. Come lui stesso
ricordava, “Io mi sforzo di non dipingere se non immagini che evochino il
mistero del mondo. Perché ciò sia possibile, devo cessare d’identificarmi con
idee, sentimenti, sensazioni”.
In Personaggio che medita sulla follia del 1928, nonostante l’opera sia
composta da elementi banali, trasmette una sensazione di attesa angosciata di
qualcosa che incombe. Angoscia che gli proveniva a volte dai ricordi tragici
della propria esistenza, come la rievocazione del suicidio della madre, che nel
1912 fu trovata annegata in un fiume con la testa avvolta nella camicia da
notte. A seguito di questo tragico avvenimento, dipinge la forma di una testa
coperta con un drappo bianco o lo stesso soggetto nascosto da una sorta di
lenzuolo.
René Magritte La Grande Marée, 1951 Olio su tela Dim: 65 x 80 cm Collezione privata, Bruxelles
Nel suo processo di assimilazione delle tematiche surrealiste, Magritte si
avvicina, nel 1927, alla tecnica del collage, fortemente utilizzata da Max
Ernst che rappresentava un “incontro fortuito di due realtà incompatibili, su
un piano estraneo ad entrambi”. Allo stesso modo, Magritte affianca in pittura,
immagini estratte dal quotidiano inserite in realtà contraddittorie o realtà
apparenti, come nel Ritratto di Paul Nougé, o nel Matrimonio di mezzanotte, o
ancora nel Supplizio della vestale, o nel Giocatore segreto.
Sono delle opere che giocano con il concetto surrealista della ‘metamorfosi’,
in cui alcuni oggetti si trasformano in altri, come nell’Incendio, nell’Isola
del Tesoro in cui le foglie degli alberi che si tramutano in uccelli, o nel
Sapore delle lacrime dove da un albero non nasce un fiore, ma un uccello con le
nervature del corpo in forma di foglia.
René Magritte Le joueur secret, 1927 Olio su tela Dim: 152 x 195 cm
Altro importante settore della mostra di Villa Olmo è riservato alla
serie di lavori sul linguaggio che manifesta le sue riflessioni circa le
diversità esistenti tra il linguaggio plastico e quello scritto, come La
lettura proibita o la Voce dell’assoluto.
L’esposizione comasca dà poi conto anche di un nucleo di lavori appartenenti al
cosiddetto periodo Vache, di tendenze fauviste, realizzati durante la seconda
guerra mondiale, caratterizzati da colori accesi e la cui tecnica ricorda il
modo di dipingere di Renoir. Sono tele nate in reazione all’occupazione nazista
che, secondo le parole dello stesso Magritte, “ha segnato una svolta nella mia
arte... Vivo in un mondo estremamente sgradevole e la mia opera vuole essere
una controffensiva”.
René Magritte La Fée ignorante, 1956 Olio su tela Dim: 50 x 65 cm Collezione privata
Inoltre, vengono esposti dei disegni preparatori e una piccola sezione dedicata
alle fotografie. Tra il 1928 e il 1955 Magritte scatta circa
un centinaio di fotografie di vita privata. Sebbene non si possa ritenere che
Magritte considerasse quelle fotografie alla stregua di quadri, tuttavia alcune
meritano di essere prese in considerazione: le fotografie dei volti di alcuni
amici dietro una maschera o quella del viso di Georgette sovrapposto al suo,
oscurandolo, rivelano una delle inquietudini del pittore circa il visibile e
l’invisibile.
Magritte e il surrealismo *
MICHEL DRAGUET, Curatore della mostra
David Sylvester ha ottimamente rievocato gli esordi artistici di René
Magritte tracciandone il percorso prima della sua scoperta del quadro di De
Chirico Canto d’Amore, sotto il segno dell’eclettismo d’avanguardia. Poco
conosciuto e anche meno apprezzato, questo aspetto dell’opera conduce
all’astrazione dalla quale Magritte si allontanerà solo quando avrà davanti a
sé l’orizzonte della metafisica. Se in una lettera indirizzata al suo amico
E.L.T. Mesens, il pittore afferma «A bas la plastique pure – vive la peinture
tout court», l’astrazione resterà il momento che determina la genesi della sua
opera e uno dei fondamenti della sua concezione dell’immagine. Quest’ultima assume
l’aspetto di uno schermo cieco la cui ovvietà non è altro che un’illusione. Pur
negando all’astrazione il diritto di ergersi a nuovo linguaggio, tuttavia
Magritte gli impone l’obbligo di decostruire l’idea di rappresentazione in
quanto tale. Involontariamente la pittura ha aperto la via ad un pensiero che
oggi in epoca postmoderna definiremmo «costruttore» di «poemi plastici»,
Magritte si è imposto come filosofo. Un’opera come Les Affinités électives,
eseguita nel 1933, ne è la testimonianza. Rinunciando a definire l’atto
pittorico in quanto tale, Magritte considera la pittura come il luogo
privilegiato di un pensiero in azione. Ciò conduce ad una forma di lucidità che
viene rivendicata ne La Clairvoyance. Lo spazio tra l’oggetto visto – e
pertanto vissuto - e l’oggetto rappresentato - e quindi pensato - si rivela
costitutivo dell’immagine in quanto immagine. L’uomo non potrebbe vedere altro
che un uovo, ma il pittore pensa ad un uccello.
Attraverso questo lieve slittamento, il reale si smaschera per testimoniare un
significato consacrato al mistero.
I pericoli dell’umanità
Il rifiuto della dottrina avanguardista porta Magritte ad inserirsi nel
surrealismo che, a Parigi, ha avuto inizio nel 1924 sotto la guida di André
Breton. Da Bruxelles a Parigi le differenze di sfumatura vengono considerate
tanto quanto i punti di contatto. E questo sia dal punto di vista della
sociologia dei gruppi artistici che da quello dell’estetica, con i Belgi che
conservano la sfiducia nei confronti del puro automatismo psichico.
Per Magritte, inizialmente si tratta di affermare una «nuova rappresentazione»
la quale, consapevole della sua qualità di linguaggio testimonierebbe la sua
lucidità nei confronti di una forma di rappresentazione ormai impossibile.
Senza dubbio si è poco sottolineato quanto questo processo di ricomposizione
della rappresentazione in forma emblematica, in un certo senso, sia collegato
alla cultura simbolista. Magritte non ha mai celato il suo interesse per tale
processo e la cultura simbolista ha costituito chiaramente una fonte
d’ispirazione per quanto si possa accostare un’opera come La réponse imprévue
del 1933 al Portrait de Marguerite dipinto dar Khnopff circa cinquant’anni
prima: stesso gioco sulla porta come schermo e come limite, stesso lavoro di
frammentazione della figura come evasione spirituale, stesso senso di mistero e
di indicibile. Ma il dialogo delle immagini non può placare le opposizioni
legate all’evoluzione del dibattito artistico. Ancorata ad una visione
accademica, la cultura simbolista ha fatto di questa la sua esperienza
fondante, soprattutto in Belgio dove artisti come Xavier Mellery o Fernand
Khnopff hanno basato la loro poetica sul rimettere in discussione la
rappresentazione. Dal simbolismo Magritte ha tratto vari elementi essenziali:
la pratica del quadro vivente, il miraggio che costituisce l’illusione
mimetica, il gioco della trasposizione letteraria, l’affermazione della
supremazia dello sguardo così come il senso del dettaglio significante che si
manifesta come «simbolismo nascosto».
La rappresentazione alla quale Magritte fa riferimento passa attraverso il
particolare, che non è pensato come riflesso del reale, ma scavalca una realtà
fissata per convenzione. Anarchico e dadaista, Magritte erige il dettaglio
quale strumento di emancipazione dalla morale borghese. È attraverso il
particolare che l’ordine - nella sua dimensione oggettiva - è sottoposto al
dubbio sistematico.
Con La Ligne de vie (La Linea della vita), famosa conferenza tenuta ad Anversa
nel 1938, Magritte testimonia l’importanza della focalizzazione sul
particolare:
[…] inserii nei miei dipinti oggetti con tutti i particolari che ci appaiono
nella realtà, e ben presto mi avvidi che era questa l’unica condizione perché
le mie esperienze potessero trascendere il piano delle immagini e mettere in
discussione il mondo reale.
L’oggetto, spogliato dei suoi dettagli, ritorna al centro dell’interesse del
pittore. Astratto dalla realtà concreta, isolato, smembrato, sottomesso alla
logica del collage, addirittura alla sua violenza, l’oggetto evolve solo
rispetto a se stesso. Tradisce un’aspettativa organica che Magritte esprime
attraverso il tema del trasformismo e della metamorfosi. Le Sang du monde
testimonia questa pulsione che ricusa qualsiasi forma predefinita: l’universo è
popolato soltanto da figure mobili, mosse dalla volontà interiore e da una
capacità infinita di trasformazione. Sottratte al peso delle parole, le forme
sfuggono a qualsiasi funzione. Sono le testimoni di un movimento perpetuo:
flusso sanguigno che dona la vita a ogni cosa o flusso psichico che conduce il
pensiero oltre i suoi propri limiti.
Il trasformismo favorisce il radicamento di Magritte nella cultura surrealista.
Parte dal frammento ereditato dalla retorica cubista, e lo investe di una
minacciante gravità. Un sentimento d’angoscia s’accompagna all’aggressione che
subiscono i corpi; ma il corpo non viene fatto a pezzi. Il numero di opere
dipinte nel 1927 - Entracte o Les muscles célestes - lo testimoniano. Le membra
hanno una vita autonoma e le figure portano con sé il loro essere in divenire.
Il corpo non dipende più da una forma predefinita dal nome che porta secondo
l’equivalenza che legherà la parola pipa al suo nome. La continua mutazione del
particolare impone la forma sul senso. Magritte riprende la dialettica /
rappresentazione secondo un ordine diverso che oppone il «senza oggetto»
all’inoggettivato. Il pittore trasforma l’immagine in ricettacolo di un
movimento progressivo che fa sì che un «oggetto si fonda in un altro che non
sia se stesso»; questo tipo di ricerca si impone alla propria metamorfosi fino
a «pensare in un modo diverso». Il momento è cruciale. Per Magritte, il
movimento della forma non è altro che la traccia del movimento del pensiero, il
quale, da solo, permette di reinventare il mondo sottoforma di una
«composizione fantastica». Parte da qui la posizione singolare di Magritte
all’interno del surrealismo, posizione che Breton gli riconoscerà solo nel 1941
dopo varie disapprovazioni e lacerazioni. Questa singolarità testimonia un
«deliberato passo» contro il linguaggio.
L’estetica di Magritte è considerata surrealista in quanto rivoluzionaria.
Oltre all’impegno complesso e paradossale rivolto al comunismo che caratterizza
il movimento negli anni ‘30, la necessità di rottura manifestata dal pittore
trae le sue origini dalla pratica del collage alla quale non ha mai rinunciato
e che ha ricondotto all’unità dell’immagine dipinta. Le Prince des objets
costituisce un momento importante di questa reinvenzione del collage in pittura.
Magritte non coltiva l’eterogeneità dei materiali, al massimo gioca con una
combinazione originale del suono - evocato in modo plastico con l’uso frequente
di partiture - e dell’immagine. Gradatamente dal collage procede una nuova
strada, pur segnando il ritorno all’illusione mimetica. Colpito dalla poesia
del montaggio cinematografico, Magritte conferisce dinamicità al collage, che
segna l’irruzione del tempo nella sua pittura: il tempo del pensiero che si
apre spazialmente.
Ispirata da Max Ernst, questa poetica trasformista non punta tanto sulla
sorpresa plastica nata dal caso, quanto sulla deliberata volontà di frantumare
il senso. Magritte scompiglia l’equilibrio delle forme, l’unità dei materiali,
l’integrità dei corpi. L’opera scopre degli orizzonti in cui violenza ed
erotismo si fondono. Associando la carne umana al manto peloso degli animali,
Découverte si allaccia al simbolismo di Khnopff - pensiamo a L’Art ou les
caresses del 1896 - per unire la femminilità a sembianze feline. Lasciando che
un’aggressiva figura maschile si introduca nel corpo nudo di una donna, Les
Jours gigantesques del 1928 rappresenta l’apologia di una violenza il cui
principale bersaglio resta il conformismo morale della borghesia.
Le opere di Magritte suscitano una sensazione di stranezza che si accompagna
alla violenza di ciò che la rappresentazione esprime di inconscio e alla
volontà di teatralizzare ciò che emerge dalla tela. Cupa, scura, la tavolozza
evolve nella stessa direzione, mettendo in rilievo il carattere notturno
dell’immagine magrittiana. Il modellato massiccio tradisce un’impressione di
pesantezza che i colori della tavolozza collocano in una dimensione di incubo.
Questa manifestazione verrà interpretata come conseguenza al trauma subito in
seguito al suicidio della madre nel 1912. Confermerà anche un tono di
«sentimentalismo» generalizzato dell’epoca. Ma al di là delle condizioni
culturali che caratterizzano questi anni di crisi, Magritte si è prefissato un
obiettivo più decisivo. Dalla messa in scena della rappresentazione a una
rappresentazione della messa in scena, il pittore ha un solo scopo: negare il
linguaggio come fondamento dell’illusione mimetica. L’esperienza si richiude su
se stessa: nella distruzione della rappresentazione che prende le cose alla lettera.
Como, 24 marzo 2006
* Estratto dal testo in catalogo Ludion
Approccio ai meccanismi creativi di Magritte *
MARIA LLUÏSA BORRÀS, Curatore della mostra
I vari meccanismi creativi che René Magritte applica frequentemente nella
sua vasta opera ci offrono cinque possibili chiavi di lettura, esposte qui
sinteticamente e a rischio di apparire anche troppo semplicistiche, che possono
aiutarci a comprendere meglio i quadri selezionati per la mostra di Como. Pur
attraverso un’analisi semplice dunque, rileveremo la tendenza di Magritte ad
accostare diversi meccanismi all’interno di una singola opera, dando vita a
variazioni e contaminazioni continue. Analizzando queste chiavi di lettura
potremo arrivare a comprendere le riflessioni e la poetica di Magritte.
Crediamo inoltre che una panoramica che non segua esattamente la successione
cronologica potrebbe compiacere l’artista il quale dichiarava: “La pittura è
soltanto un mezzo che mi permette di portare alla luce un pensiero grazie
all’utilizzo di elementi presi al mondo visibile”.
Senza avere la pretesa di affrontare in modo esaustivo tutta la problematica
che ha interessato il pittore, fisseremo l’attenzione su cinque tra i
meccanismi creativi applicati da Magritte nelle sue opere: narrativa e mistero,
collage e incontri fortuiti, metamorfosi, giochi del linguaggio e quadro nel
quadro.
Il punto di partenza della mostra è rappresentato da due opere che rivelano i
contatti dell’artista con Gleizes e che dovrebbero essere considerati come dei
“Magritte prima di Magritte”: Portrait de l´écrivain Pierre Broodcoorens e
L’ecuyère, nei quali egli accosta al naturalismo una costruzione cubista.
Dedichiamo anche un piccolo spazio alla fotografia; fra il 1928 e il 1955
Magritte scatta circa un centinaio di fotografie di vita privata, presenti
anche gli amici. Sebbene non si possa ritenere che Magritte considerasse quelle
fotografie alla stregua di quadri, pur tuttavia alcune meritano di essere prese
in considerazione: le fotografie dei volti di alcuni amici dietro una maschera
o quella del viso di Georgette sovrapposto al suo, oscurandolo, rivelano una
delle inquietudini del pittore circa il visibile e l’invisibile. Ciò traspare
anche in opere come La Bonne Foi nella quale un presunto autoritratto è
nascosto dietro ad una pipa. In una tela eseguita precedentemente il ritratto è
nascosto dietro ad una mela. Afferma che il visibile è quello che vediamo, la
mela sul viso; il visibile nascosto (l’invisibile) è quella parte del volto che
esiste ma che non possiamo vedere perché nascosta dalla mela. In altre opere
sfoca i volti per renderli irriconoscibili oppure li cela completamente dietro
una macchia di luce (come nel quadro del 1937 Le principe de plaisir). La
fotografia, in quanto visione verosimile, risulta per l’artista uno spunto di
riflessione sulla realtà e le sue, pur essendo fotografie amatoriali, rivelano
la sua indiscutibile firma, il suo gusto per l’insolito, per l’anticonformismo,
per l’irriverenza.
Marcel Duchamp abbandona la pittura, alla quale ha dedicato i suoi primi anni,
per proclamare che opera d’arte può essere uno schema, un concetto, un’idea.
Apre così un percorso che, dall’arte concettuale e neo-concettuale avrebbe
condotto fino alle attuali tendenze quali l’inespressionismo che rifugge da
ogni effetto emotivo e considera la pittura una rarità, obsoleto retaggio del
XIX secolo.
Max Kozloff, nel catalogo della mostra su Magritte del 1966 al MOMA, sostiene
con forza la contraddizione fondamentale di un’affermazione di Magritte,
secondo la quale il pittore sarebbe inscindibilmente fedele alla pittura pur
asserendo che la pittura non lo interessa.
René Magritte crede, come Leonardo, che la pittura sia una “cosa mentale”, una
proposta di riflessione o un’idea che deve prendere forma con la pittura,
mantenendosi in ogni caso entro gli stretti limiti della riproduzione del mondo
visibile. Ciò che rende diversa la sua pittura è la rappresentazione
circoscritta ad ambienti quotidiani e grezzi, triviali quando non anodini,
riprodotti con la massima fedeltà, con lo scopo di provocare una riflessione
che metta in discussione ciò che si dà per scontato. Inoltre pretende, in
questo modo, di rendere visibile la poesia; di trasformare con la pittura il
mondo comune in universo poetico, tentando di essere egli stesso, citando Paul
Éluard, il poeta che ispira e non colui che trae ispirazione. Alla fine dei
suoi giorni, l’artista potrà dunque affermare che con le sue opere ha sempre
perseguito l’impegno originario: quello di rappresentare, mediante la
riproduzione di oggetti prescelti - chiamati di preferenza “cose visibili” -
partendo esclusivamente dalla loro apparenza.
Nella sua iconografia, se pur molto varia ed ampia, è facile riscontrare tali
“cose visibili”: i nuvolosi cieli del nord, che fecero coniare a Max Ernt il
motto “Fa un tempo Magritte”; il mare e l’aperta campagna; gli alberi e il
bosco, i notturni, i sobborghi; un certo stereotipo di borghesia dell’epoca,
belle e languide dame e l’uomo vestito di nero con bombetta; uccelli e colombi;
fiori e oggetti comuni come case, sonagli, balconi, sfere, mele.
I titoli dei suoi quadri sono rilevanti, non consentono di ridurre l’autentica
poesia a un mero gioco fine a se stesso. Non titola mai un quadro senza prima
averlo terminato, spesso il titolo lo decide dopo vari giorni e talora lo
cambia più volte. In alcune lettere indirizzate a Harry Torczyner (per una
corrispondenza che lo occuperà negli ultimi anni di vita), si legge spesso che
per convincere Magritte a titolare un quadro già venduto, l’acquirente doveva
scrivergli ripetutamente insistendo affinché si decidesse.
Magritte non ha titolato personalmente tutti i suoi quadri: talvolta se ne sono
incaricati gli amici e così alle opere sono stati attribuiti nomi poetici da
Paul Colinet, filosofici da Paul Nougé, polisemici da Marcel Mariën, letterari
e sovversivi da Scutenaire, pirotecnici dalla moglie di quest’ultimo, Irène. Si
racconta che Magritte amava convocare gruppi di amici per mostrare loro le
ultime opere: le serate duravano un paio d’ore, durante le quali ci si intratteneva
nel “gioco del titolo”, passatempo particolarmente gradito al pittore. Per ogni
quadro che esibiva, si proponeva un titolo che Magritte commentava sempre con
un “tiens, tiens!”; ma alla fine l’ultima parola spettava all’autore.
Paul Nougé, in Images défendues, osserva che i titoli dei quadri di Magritte
non sono esplicativi, sono soltanto un modo pratico per distinguerli: ”I titoli
vengono scelti in modo che impediscano un approccio neutro al quadro,
sottostimando lo sviluppo automatico del pensiero”.
Como, 24 marzo 2006
* Estratto dal testo in catalogo Ludion
Informazioni
René Magritte. L’impero delle luci
Luogo: Como - Villa Olmo
Via Cantoni, 1 - Como
Periodo: dal 25 marzo al 16 luglio 2006
Orari: martedì, mercoledì e giovedì 9.00 - 20.00; venerdì, sabato e domenica
9.00 - 22.00. Lunedì chiuso (La biglietteria chiude un’ora prima)
Ingresso: intero: € 9; ridotto: € 5 dai 6 ai 16 anni, over 65, studenti
universitari, gruppi, soci A.C.I. Visite guidate su prenotazione: per gruppi
fino a 25 persone, € 100; scuole medie e superiori € 50; scuole elementari e
materne € 35. Audioguide: € 3
Catalogo: Ludion (€ 25 in mostra, € 30 in libreria)
Info: Comune di Como - Assessorato alla Cultura, tel. 031 252352
Numero verde ripartito: tel. 848 800834
tel. 031 571979 - fax 031 3385561
Articolo pubblicato il 26 maggio 2006
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