Arte

La biografia di Carlo Levi
Carlo Levi e Roma. Il respiro della città
Carlo Levi pittore a Roma negli anni Trenta di Daniela Fonti
Il Realismo mitico di Carlo Levi. Uno scrittore più sperimentale del pittore di Filippo La Porta
Il Naturalismo essenziale della pittura di Carlo Levi Testo inedito di Carlo Levi firmato con lo pseudonimo di E. Sacerdoti e scritto nei primi anni Trenta
Paura della pittura di Carlo Levi e le paure di prospettive di Guido Sacerdoti
Carlo Levi e l'ambiente romano di Claudia Terenzi

Il Realismo mitico di Carlo Levi. Uno scrittore più sperimentale del pittore

di Filippo La Porta

Il concetto straordinariamente ricco di realismo che si deduce dall'opera letteraria di Carlo Levi, che con qualche approssimazione definisco "mitico" non può essere in alcun modo appiattito sul neorealismo. Ma, al tempo stesso, la sua coeva produzione pittorica è destinata a restare un po' indietro rispetto alla ricerca letteraria: proprio negli anni '50 il pittore Levi, che era passato attraverso esperienze di vario genere, rivissute in modi personali ("Nuova Oggettività", post-impressionismo…) aderisce al movimento del neorealismo (nel '56) e probabilmente comincia una fase meno creativa. Alla XXVII Biennale veneziana del 1954, dove espone 50 opere, Levi riceve significative, e fondate, punzecchiature critiche dall'autorevole Roberto Longhi, il quale distingue severamente tra la produzione pre-lucana, fino al '35, di livello europeo, e quella post-lucana, che è "cronaca spenta, opaca". Per Levi compito dell'artista è illuminare, in virtù dello sguardo e dello stile, il carattere potenzialmente mitico che ha l'intera realtà. Rappresentare la realtà - sempre ambigua - significa ritrarre ciò che si vede ma anche ciò che è solo evocato dalle cose, tutto quanto rientra nel "poco-razionale", come lo definiva Pier Paolo Pisolini (un autore assai vicino a Levi). A Roma lo sguardo insieme partecipe e distaccato di Levi si sofferma sulle tracce del "popolo" dei rioni del centro, che incontra per strada e nelle osterie, della plebe dal cuore antico cantata nei sonetti del Belli, in quei re e in quelle regine dispersi nella folla anonima, in quegli operai che, chiamati per una riparazione, "con viso beatamente feroce" dicono che "bisogna sfascià tutto", in una piccola borghesia ancora onestamente moralista. Infine: per lui Roma è città di fratelli, di persone che ti prendono in giro bonariamente, "crudeli senza cattiveria, dispettosi senza vero odio", ma, appunto, fraterna. Intuizione giusta, anche se il problema di un mondo composto solo da fratelli è proprio l'assenza del padre, di una qualsiasi autorità morale. Nel romanzo L'Orologio si schiude una concezione più drammatica, barocca, dell'esistenza, non immemore di Belli ("La Morte sta anniscosta in ne l'orloggi"). E anche questo ha a che fare con il realismo di Levi poiché la realtà non è più scandita da un tempo lineare e misurabile ma da un tempo che si allunga e si contrae, che risponde alla "metrica" dell'esperienza. Sartre a proposito dell'Orologio parlò del coraggio "di rifiutare tutti i realismi in nome della realtà" … Il cielo di Roma, nel romanzo, non è alto come quelle delle città nordiche ma "gremito di nuvole barocche, pieno di curve mutevoli, appoggiato sulle case, sulle chiese e sui palazzi come una cupola fantastica"..Ma questo cielo romano, "denso e popoloso", l'ha mai dipinto? Roma non fu per Levi pittore un soggetto molto frequentato.

Levi pensava che la letteratura, l'arte, inventa la verità e scopre la realtà. Sulla base di questa convinzione non avrebbe mai potuto aderire, pur diffidando della pittura moderna(che "fuggendo se stessa nella astrazione, ha chiuso gli occhi") alla poetica neorealista, alla ingenua equazione arte = mimesi naturalistica. . Se davvero l'altro mondo - quello contadino arcaico o popolare subalterno - non ha confini precisi, ma "è dentro di noi, dentro a ciascuno di noi", allora qualsiasi realismo nell'arte dovrà fare i conti con questa alterità, con la duplicità irriducibile che caratterizza la realtà stessa, incorporando dentro la storia, la sociologia, la psicologia, etc. la dimensione sfuggente ma fondamentale del mito.