La biografia di Mimmo Rotella
Mimmo Rotella. Lamiere
Mimmo Rotella. Lamiere. Rapsodiche stratificazioni. Saggio di Alberto Fiz
MARCA. Museo delle Arti Catanzaro
Mimmo Rotella. Lamiere. Rapsodiche stratificazioni. Saggio di Alberto Fiz
“Ogni indagine di tipo iconografico fa saltare la gabbia rigida della storia
dello stile: ma per non rinchiudersi in un nuovo isolamento e ottenere
risultati davvero significativi essa dovrà offrire un contributo diretto anche
alla visione dello stile” (1). Quest'affermazione dello studioso austriaco Otto
Pacht chiarisce bene la metodologia applicata da Mimmo Rotella durante tutto il
suo percorso artistico. Il maestro del décollage, sin dai suoi esordi, è
perfettamente consapevole che l'arte non vada intesa come concetto aprioristico,
ma abbia l'obiettivo primario di proporre nuove soluzioni. E' stata questa la
ragione che lo ha spinto, in un primo momento, ad abbandonare la pittura
tradizionale giudicata priva di prospettive e, subito dopo, a superare lo
scoglio rappresentato dal collage: “Il collage ha purtroppo
nell'arte antica e contemporanea un'origine e uno sviluppo, una collocazione
storica. Dico: purtroppo, perché avrei voluto inventarlo io il collage.
Durante l'infanzia i cieli grigi, le case grigie, i volti, le strade, la
polvere, i sentimenti, tutte le immense cose grigie del Sud mi sollecitavano,
per rabbia, ad inventare i colori e ad incollarli su certi spazi ristretti
della fantasia”(2), ha affermato Rotella nel 1957 in occasione di una sua
personale alla Galleria del Naviglio di Milano.
La necessità di reagire ad un segno codificato dalla storia dell'arte lo
conduce verso il décollage, inteso come gesto decostruttivo che si
oppone alle regole imposte dalle avanguardie d'inizio secolo. La lacerazione,
infatti, va intesa, in primo luogo, come rottura degli schemi precostituiti nel
desiderio di raggiungere una nuova sintesi compositiva tra materia, colore e
spazio.
La forma incostante del tempo viene preservata dal gesto imprevedibile
dell'artista che apre nuovi squarci alla conoscenza sottraendo l'immagine alla
contingenza del significato. E' l'assoluta relatività nel suo flusso contradditorio
interno a far esplodere la trasmutazione perenne del segno.
Ma l'impianto dell'opera di Rotella non è affatto monolitico, come si tendeva a
credere sino a non molto tempo fa: l'ampliamento degli studi scientifici
condotti negli ultimi anni intorno alla sua ricerca (anche grazie al
fondamentale supporto della Fondazione Rotella) hanno dimostrato quanto sia
sfaccettato il suo percorso all'interno di una disposizione logica dove rimane
costante il riferimento alla società urbana e massmediale considerata una sorta
d'immenso laboratorio su cui l'artista realizza le sue infinite
sperimentazioni.
Il décollage che Rotella per primo ha esposto nel 1955 (la prima mostra
degli affichiste francesi è di due anni successiva) non è un gesto
isolato.
Sebbene rimanga il vertice della piramide e vada identificato come l'azione più
dirompente compiuta dall'artista in grado d'influenzare in maniera determinante
l'estetica del dopoguerra, non c'è dubbio che le indagini condotte da Rotella
si sviluppino in maniera organica con l'obiettivo preciso di giungere
all'identificazione tra stile e linguaggio nell'ambito di una ricerca che
s'impone per il suo aspetto fenomenologico.
Non a caso il maestro calabrese, sin dal 1949 quando realizza, in totale
solitudine, il Manifesto dell'Epistaltismo dove il décollage era
preconizzato dallo strappo della parola e dal superamento del confine tra
musica e linguaggio, tende ad imporre un approccio esclusivo e personale alle
problematiche estetiche che, in ogni circostanza, vengono sottoposte al vaglio
della tecnica intesa, non come prova di abilità fine a se stessa ma, piuttosto,
come scatto linguistico in grado di contrassegnare un percorso radicale e
trasgressivo. “L'arte che prediligo?”, ha affermato Rotella. “E' libera,
euforica, piena d'ironia, né volgare né popolare e mira soprattutto alla
creazione di un linguaggio inedito” (3).
Décollage, certo, ma anche tele emulsionate, artypo, effacage
e blank. In ognuna di queste circostanze Rotella è protagonista
assoluto, inventore lui stesso di metodologie che contraddistingueranno i
destini dell'arte. E' lui, per esempio, a battezzare, insieme a Alain Jacquet
il termine Mec-Art in cui rientrano le tele emulsionate partendo dalla
definizione di mechanical art e, certamente, i suoi artypo, esposti
per la prima volta nel 1966 alla Galerie Zunini di Parigi (il termine venne
coniato l'anno successivo dal critico Jan Leering in occasione della collettiva
Artypo organizzata al Van Abbe Museum di Eindhoven in Olanda), assumono
un aspetto radicale e definitivo dove l'artista, appropriandosi in tipografia
delle prove di stampa, evita ogni forma di mediazione narrativa o metaforica
ponendosi in diretta relazione con i combine painting di Robert Rauschenberg.
Se il décollage nasce come azione-reazione nei confronti del collage,
anche gli effacage hanno un loro precedente identificabile nel frottage
di origine surrealista. Con la differenza sostanziale che il primo non accetta
il dominio dell'originale ma lo modifica, lo deturpa attraverso il procedimento
della cancellazione che lo eternizza nella premeditata sfigurazione delle
apparenze.
“I frottage li ha inventati Max Ernst mentre gli effacage sono
stato io ad inventarli”, ha dichiarato con orgoglio Rotella proprio quando mi
apprestavo a realizzare una monografia su questo aspetto spesso trascurato
della sua ricerca (4). In effetti, l'effacage va considerata una sua
creazione su cui l'artista potrebbe imporre il proprio copyright.
La tecnica, dunque, così come il suo ribaltamento, sono fattori determinanti
all'interno di un meccanismo metamorfico che si sviluppa sempre intorno ad un
testo preesistente, ad un pre testo inteso come strumento irrinunciabile su cui
Rotella conduce la sua azione nient'affatto neutrale di appropriazione indebita
del reale.
“Una cosa è la lacerazione che io opero nella strada quando il manifesto mi
appare come un momento culminante della natura e un'altra è la lacerazione che,
nel mio studio, aderisce a un ordine non solo naturale ma alle mie esigenze di
visione e di creazione di qualcosa che sia anche sotto l'aspetto di ready made,
una metafora del mondo” (5), afferma Rotella nel 1961 in una lettera scritta
all'amico gallerista Guido Le Noci.
Una radicalità che nel 1960 convince Pierre Restany a inserire Rotella, come
unico artista italiano, all'interno del movimento del Nouveau Réalisme.
Ciò che interessava al critico francese era proprio la “diretta appropriazione
del reale oggettuale” (6) che avrebbe portato alle estreme conseguenze i
presupposto dadaisti e neo-dadaisti.
Del resto, Rotella, come ho scritto in diverse circostanze, integra la lezione
di Marcel Duchamp con quella dei futuristi, in particolare Giacomo Balla e
Enrico Prampolini. In tal modo, la neutralità primigenia del ready made
si trasforma in un'azione interventista dove la gestualità demistificatoria,
acefala e lacerante innesca un meccanismo di rivitalizzazione del reale che
sviluppa un flusso dinamico interno che passa attraverso la disintegrazione
dell'immagine, finalmente strappata alla sua logica significante, di per se
stessa banale e ridondante.
Si tratta di una liberazione progressiva, destinata a creare uno shock
imprevisto che va oltre il dato di partenza in un'alterazione semiotica e
linguistica destinata a coinvolgere direttamente l'osservatore, parte in causa
del processo emozionale e percettivo.
Rotella, al contrario degli artisti pop americani, in particolare Andy Warhol, Jasper
Johns e lo stesso Robert Rauschenberg, non ordina il caos ma ne accetta la
permanenza esaltandola e questo gli consente di sviluppare un'estetica
relazionale ricca di conseguenze sulla ricerca contemporanea.
Rotella non accetta di riprodurre l'immagine dell'oggetto ma ne sconvolge la
logica ponendosi in relazione dialettica con quest'ultimo. Per lui vale
l'affermazione di Honoré de Balzac per cui “la vita è forma e la forma è il
modo della vita” (7).
La peculiarità, non di poco conto, sta nel fatto che la natura pregressa è
rappresentata dall'universo artificiale dei manifesti che lui aggredisce a suo
piacimento, sgretola, cancella, decolora sino a recuperare l'essenza primaria
dell'immagine in un ambito di ricerca dove l'idea primigenia è quella di
sviluppare una nuova visione partendo dall'epidermide.
La radicalità di Rotella passa, senza compromessi, attraverso le diverse
segmentazioni della sua indagine e giunge, immutata, sino alle grandi opere su
lamiere che, per la prima volta in questa circostanza, vengono analizzate come
nucleo a se stante nella produzione dell'artista senza rientrare all'interno di
una trattazione generica.
Le lamiere sono, a tutti gli effetti, un supporto ma Rotella, con il suo
atteggiamento rabdomantico e cleptomane, le trasforma in una rinnovata forma di
sperimentazione che consente un ripensamento complessivo di tutto il lavoro da
lui realizzato.
La presenza delle lamiere come supporto dei décollage astratti già alla
fine degli anni Cinquanta (basti pensare ai due décollage su lamiera del
1958) non è affatto casuale e indica l'attenzione di Rotella verso un materiale
che nello stesso periodo entrerà a far parte della ricerca di molti artisti tra
cui Alberto Burri, Ettore Colla e Raymond Hains.
Ma è solo tre decenni dopo, nella seconda metà degli anni Ottanta, che Rotella,
quasi settantenne, giunto ormai alla celebrità, decide di ripartire dalla
pagina bianca e la lamiera rappresenta per lui il luogo su cui riscrivere il
proprio messaggio polimaterico e multidirezionale.
L'artista rimette indietro le lancette dell'orologio ed è nuovamente pronto a
stupirsi come se quei fogli di metallo sottili su cui sono attaccati i
manifesti non fossero altro che gli appunti di un diario segreto ancora tutto
da scoprire.
Non c'è più lo slancio ideologico degli esordi, ma la medesima volontà
d'interpretare i crepitii della materia, le lacerazioni anonime della strada, i
trascinamenti segnici, le impronte stratificate e contingenti. Tutto questo in
perfetta sintonia con quanto aveva affermato nel 1957: “Non potrei sopportare di
essere schiavo di un'arte prevedibile e scontata. La mia ricerca si affida non
all'estetica, ma all'imprevisto, agli stessi umori della materia. E' come una
tromba, un tamburo, un sassofono che suonino da soli. Io sostengo la tromba, il
tamburo, il sassofono”. (8)
In tal senso, le opere su lamiera rappresentano un ciclo a se stante dove il
supporto entra direttamente in causa partecipando al rinnovamento linguistico.
Rotella, infatti, non si limita a strappare i manifesti dai muri, come faceva
negli anni Cinquanta, ma, in una sorta di relazione metonimica, s'impadronisce
fisicamente e psicologicamente del contesto urbano, inteso esso stesso come
spazio su cui interagire con il proprio gesto.
Insieme ai manifesti, si appropria delle scritte sui muri, di ogni forma di
segnale o d'impronta più o meno casuale estendendo la dimensione spaziale ben
oltre il décollage tradizionale in base ad una costruzione dove le
traccia della pittura e quelle del manifesto stampato creano una
parcellizzazione degli elementi compositivi.
Nell'ambito di un'estetica globale, l'artista concepisce la sua operazione in
termini di architettura ambientale: “Con le grandi lamiere o i monumenti
dipinti, la distanza psicologica ed estetica subisce un mutamento, la pittura
non è più un “doppio” del corpo umano, ma si offre come suo environment”,
afferma Germano Celant. (9)
Del resto, questo era l'obiettivo di Rotella espresso già nel 1957 quando
dichiarò che avrebbe voluto donare al pannello pubblicitario uno statuto di
scultura-architettura (10). E nel 1990 crea, con l'utilizzo della lamiera, due Scultura-architettura
dove la manipolazione coinvolge anche la dimensione plastica.
In un'ottica di gigantismo architettonico, va segnalato Coca-cola del
1997 che ben testimonia il gusto ironico e paradossale che ha sempre
caratterizzato la sua ricerca. Quell'anno, infatti, Rotella decise di
appropriarsi di un enorme manifesto su lamiera in parte cancellato di 22 metri
d'altezza che appariva sulla facciata laterale di una casa milanese. La scadenza
dei termini d'affissione e la fine delle Olimpiadi di Barcellona, avevano avuto
come conseguenza la cancellazione con segni rossi delle scritte pubblicitarie
che, tuttavia, continuavano a intravedersi. In alto si stagliava l'immagine
retorica della Coca-cola portata in trionfo.
Ebbene, l'artista, dopo aver sempre prelevato gli umori dalla strada, questa
volta ha compiuto un simbolico atto di restituzione trasformando, con la sua
firma, il gigantesco manifesto in un ready-made installativo. Ma quella
che avrebbe potuto essere la più imponente opera di Rotella, qualche tempo
dopo, per ironia della sorte, andò distrutta.
Coca-cola a parte, la lamiera intesa come fattore di resistenza sul
quale l'artista deposita il proprio segno, contiene le incisioni rupestri dei
lacerti anonimi, le schizofrenie intermittenti e instabili del nomadismo urbano
eternamente precario. Così, questo supporto ingombrante irrompe sulla scena
dell'arte dal momento che essa stessa si porta dietro la devianza del segno in
un confronto fisico con la materia sgretolata e accelerata.
Che si tratti di una nuova virata nel percorso di Rotella, lo sottolineava con
chiarezza Restany nel 1987. Il critico francese, in uno dei pochissimi testi
esplicitamente dedicati a questo tema scritto in occasione della prima delle
due mostre monografiche organizzate dallo Studio Marconi di Milano sulle
lamiere, scrive: “Dopo tante versioni dello strappo e tante interpretazioni
della fenomenologia lacerante, Mimmo Rotella ci propone oggi un nuovo concetto
operativo di intervento fisico sul manifesto strappato. Sulle lamiere
metalliche destinate all'affissione pubblicitaria in città e ricoperti di
frammenti di carta - avanzi della memoria dei messaggi tipografici anteriori -
l'intervento grafico di Rotella segna il marchio vitale del discorso urbano. I
graffiti rotelliani si presentano come una calligrafia mimetica del discorso
anonimo della città” (11).
Rotella, in seguito ad una delle periodiche crisi attive che attraversano il
suo percorso artistico, approda alle lamiere considerandole il mezzo più idoneo
per riconquistare nuovi spazi in una fase di profondi cambiamenti. Gli anni
ottanta segnano il ritorno alla pittura intesa come recupero di un'identità
storica soggettiva dove il segno, nella sua persistenza, decreta l'annullamento
del tempo storico in base ad un orizzontalità linguistica. I nuovi selvaggi in
Germania e soprattutto la transavanguardia in Italia annunciano la fine di una
visione darwinistica dell'arte identificando la perenne mobilità del gesto
pittorico e la contaminazione di moduli e stili all'interno di un contesto in
perenne mutamento.
In America, dopo il periodo underground, è all'inizio degli anni ottanta
che il graffitismo conquista le gallerie newyorkesi per la sua capacità
d'imporre una matrice infantile, arcaica e provocatoria assorbendo calligrafie
e immagini catturate dalla strada. “I miei soggetti sono la regalità, l'eroismo
e le strade” (12), afferma Jean-Michel Basquiat.
Di questo processo di trasformazione, Rotella è perfettamente consapevole e,
non a caso, sembra tratteggiare gli anni ottanta con una serie di opere che
creano uno spartiacque chiaro tra il prima e il dopo. Si tratta dei blank
(i più imponenti tra questi sono su lamiera tra cui un lavoro di sei metri) che
irrompono sulla scena nel 1980 creando un'improvvisa sospensione, un black
out comunicazionale, un vuoto inteso come spazio di riflessione.
Ancora una volta Rotella, con un procedimento ipnotico, lascia che la realtà
venga a lui e si appropria delle coperture rifacendosi a quella fase di
passaggio tra un messaggio pubblicitario e l'altro dove la separazione viene
fatta con fogli di carta bianca monocromi applicati sull'immagine. Da queste
cancellature nascono opere di notevole importanza dove, sotto l'achrome,
naviga l'immagine, traccia di un messaggio silenzioso che si distacca momentaneamente
dal mondo e si preserva nella sua assenza apparente.
“Il risultato è forte e suggestivo, anche per via delle pieghe che si formano
in superficie” (13), sentenzia Rotella con la sua consueta sintesi.
Se i blank introducono il decennio, negli anni successivi Rotella si fa
interprete consapevole del cambiamento in atto e, per la prima volta dopo 35
anni, torna ad utilizzare la pittura che aveva abbandonato nel 1951: “Mi
accorgo che la pittura cambia. Stufo della pittura insignificante e retrograda
che vedevo in giro, decido di ritornare al pennello e al colore. Insomma,
voglio far vedere quale sia la sensibilità nuova e la tecnica del nuovo modo di
esprimersi adeguandosi al nostro tempo. Ormai, secondo me, l'estetizzante
nell'arte è finito. Si deve tornare a una pittura barbarica di tipo
semiespressionista dai colori piuttosto brutti. E', insomma, un'antipittura,
una bad painting che poi diventa bella pittura, buona pittura, forte,
geniale e quasi magica. Studio, quindi, gli espressionisti tedeschi dei primi
del Novecento, ma…la pittura, per avere effetto di vivezza e di spontaneità,
deve essere molto rapida” (14), afferma Rotella nel 1987 in quella che potrebbe
essere considerata come una vera e propria dichiarazione di poetica.
Quella brutta pittura che diventa bella, semiespressionista e veloce, sfocia
nelle sovrapitture, un'ulteriore forma di appropriazione del segno ibridato che
può esistere solo in relazione dialettica con il testo preesistente. E sono
proprie le lamiere il luogo dove i manifesti squarciati convivono con le
interferenze di una pittura sovraesposta e rapsodica, apparentemente casuale e
anonima, nata dal desiderio di mimetizzarsi con le infinite stratificazioni del
metallo che assorbe, nelle pieghe, ogni forma di tracciato: “Nel 1987 ho
cominciato a recuperare vecchi pannelli metallici su cui avevo già incollato
manifesti pubblicitari lacerati vi ho dipinto sopra figure, simboli, graffiti
che vedevo non solo sui muri della città, ma anche nelle metropolitane e su
alcune pubblicità delle riviste” (15), annota Rotella.
Sovrapitture e décollage raggiungono la loro sintesi espressiva compiuta nel contesto
dialettico delle lamiere dove i differenti elementi creano un ritmo sincopato,
obliquo e provocatorio. Sono scoppi imprevisti della materia, segnali devianti
in un contesto disarticolato dove lettere e parole sono incise sulla superficie
indelebile. L'immagine della sovrapittura s'insinua tra i décollage
generalmente astratti in una chiara relazione con i retro d'affiche
degli anni cinquanta. “Quella pre-sintesi dei processi simultanei di esplosione
dei linguaggi visivi e sonori”, come afferma Restany (16), si trasforma, negli
anni ottanta, in un cortocircuito magmatico urbano, contingente e promiscuo.
La lamiera, del resto, nella sua discontinuità e nel suo ritmo accidentato,
appare come il ricettacolo di ogni forma di scrittura, di ogni intreccio
multisensoriale e in questo contesto Rotella deposito il suo gesto che, al
contrario di quello di Keith Haring o di Jean-Michel Basquiat, non richiede di
essere riconosciuto.
Rotella applica con abilità il concetto della mimesi e, molto spesso, copia le
scritte anonime spruzzate con lo spray sui muri della strada con la medesima
meticolosità con cui gli artisti classici si avvicinavano ai modelli greci. Ma
lui non è un writer e fa della realtà urbana un ulteriore elemento di
riflessione creando un'aderenza quasi perfetta con gli “originali” sia esso un
simbolo dell'anarchia, un turpiloquio sessuale o un paesaggio esotico.
Nell'ultimo capitolo di quell'immenso romanzo sulla strada iniziato nel 1953,
Rotella si autosospende ipotizzando il deragliamento finale del segno entrato a
far parte della collettività. A lui interessa intercettare la non arte e così
come aveva fatto con i manifesti lacerati, negli anni ottanta, risponde alla
nuova pittura europea e americana andando incontro all'appropriazione di una
realtà anonima che si dissolve nella sua assoluta precarietà. Sovrapittura e décollage
sono, dunque, l'ultima grande rivoluzione. Su lamiera, naturalmente.
(1) Otto Pacht, Metodi e prassi nella storia dell'arte, Bollati Boringhieri,
Torino 1994, p.37.
(2) Mimmo Rotella, testo che accompagna il catalogo della mostra alla galleria Selecta
di Milano (1957), pubblicato in Tommaso Trini, Rotella, Giampaolo Prearo
Editore, Milano 1974, p. XV.
(3) Giuseppe Appella, Colloquio con Rotella, Edizioni della Cometa, Roma 1984,
p.12.
(4) Il riferimento è alla monografia curata da Alberto Fiz, Mimmo Rotella. Effacage,
Torino 2005.
(5) La parole di Rotella sono tratte da una lettera che scrisse al gallerista
Guido Le Noci datata 1961 e pubblicata in Pierre Restany, Mimmo Rotella: dal décollage
alla nuova immagine, Edizioni Apollinaire, Milano 1963.
(6) Pierre Restany, Nuovo Realismo, Giampaolo Prearo Editore, Milano 1968.
(7) Honoré de Balzac, in Meyer Shapiro, Lo stile, Donzelli Editore, Roma 1995, p.XI.
(8) Mimmo Rotella, testo che accompagna il catalogo della mostra alla galleria Selecta
di Milano (1957), pubblicato in Tommaso Trini, Rotella, Giampaolo Prearo
Editore, Milano 1974, p. XV.
(9) Germano Celant, in Mimmo Rotella. Avenue Rotella (a cura di Germano Celant),
Skira, Milano 2005. Catalogo della mostra al Museo Tinguely di Basilea 25
ottobre-2 gennaio 2006.
(10) Giovanni Joppolo, Mimmo Rotella, Fall Edition, Parigi 1997, p.56.
(11) Pierre Restany “Le nuove lamiere di Mimmo Rotella” in Mimmo Rotella. Sovrapitture
1987, Studio Marconi Milano 1988, p. 5.
(12) Citazione di Jean-Michel Basquiat in Jean-Michel Basquiat, Charta, Milano
1999, p.80. Catalogo mostra Civico Museo Revoltella, Trieste, 15 maggio-15
settembre 1999.
(13) Mimmo Rotella, L'ora della lucertola, Spirali/Vel, Milano 2002, p. 228.
(14) Mimmo Rotella, L'ora della lucertola, op. cit., p.230.
(15) Mimmo Rotella, L'ora della lucertola, op. cit., p.254.
(16) Pierre Restany, “Uno sguardo sempre all'altezza della situazione” in
Tommaso Trini, Rotella, Giampaolo Prearo Editore, Milano 1974, p. VI.