Arte

Una bestemmia per débâcle

di Flavio Arensi

In occasione della Mostra Una grande opera di Ettore Greco
Cento (Ferrara)
Dal 14 ottobre al 5 novembre 2006
Nell'Auditorium San Lorenzo, quasi mille sculture in terracotta compongono l'installazione dell'artista patavino, dal titolo Débacle

"Mon dieu". Sì! Una bestemmia "porco…", come Céline sul ponte della nave di tradotta all'Africa e al termine della sua lunga notte, così questa perduta gente in débâcle di Ettore Greco grida al santissimo, l'altissimo, l'eterno, che lascia loro in miseria a gestire la vita di tutti i giorni come cani affamati di una speranza e poi rabbiosi e saturi di bava colante, accidenti se cola. Come il montone che, sul fianco, in un prato, agonizza e bruca senza posa col rivo di saliva bianca fin quasi a terra. "Mon dieu" gridava, quello, per salvarsi la ghirba da una ciurma suburbe che intendeva ammazzarlo, scuotendo il nome del padre, del figlio, dello spirito santo per salvaguardare le sue quattr'ossa, oltraggiando vilmente il nome del suo dio piccino, con la "d" minuscola, che tanto non s'offende e non s'arrabbia e soprattutto lascia incolume l'impegno per una salvezza. E qualcuno invece gridi Dio, Dio, ingiunga le sue preghiere - ora - al Creatore del Cielo e della Terra, pregando, anzi elemosinando una scappatoia dalla tragedia di affetti che devasta la coscienza di ogni essere vivente qui, proprio qui, in queste equipaggio di uomini nudi e verghe alzate che Greco incatena alla sorte della sconfitta e alla nostra, umilissima, disfatta. L'ora tremenda del estremo Giudizio s'appresta senza scampo all'impossibilità di un orgoglio che vinca la morte e il dolore: dolore e morte contorcono queste membra spezzando il fiato all'idea strisciante dell'immortalità di ciascuno.


No, in tale bolgia non s'accendono mutui di fiducia, si deve già sapere che tutto finisce, tutto svanisce; inutile perpetrare la auspici senza futuro; i muscoli tacciono e quieti attendono la ripresa dell'ennesima battaglia. Dormono assopiti come le menti ottuse dei finocchi che giocano alla bella vita, e non sanno, davvero non sanno, che la burla presto s'arresta. E poi? Poi spariranno medaglie e onorificenze, fama e gloria. Memento mori, memento memento memento. Che trionfi? Che abnegazioni? Tutto è perduto qui in terra! Greco strangola nel vortice articolato dei suoi profughi in cerca di un approdo, come i superstiti della Medusa di Theodore Gericault e la follia del loro cannibalismo, dell'orgia avariata dei sessi; cosa importava delle ricchezze, dei magnifici palazzi mentre il mare seppelliva i lamenti?


Non possono alzarsi: i crampi attanagliano le ultime vicissitudini e ottundono la mente. Prostrati e inerti come la tartaruga capovolta ormai all'ultimo respiro, pensate e asfittica, sognante e asfittica, abbandonata e asfittica. Qui sono in molti, sono infiniti corpi gettati al suolo alla stregua di pugili rintronati dalle botte in ascolto del suono di stacco fra un round e il successivo; ding, ding: la campanella del quadrato. Ding, dong, dong la campana per la messa. E sarà per il loro funerale che suona lontano, a nord ovest, dove principia il tramonto. Capiranno questi che il ponente è per loro? Che il mezzodì è trascorso da un pezzo? ormai giunge la sera e l'inverno occupa le ore autunnali. La primavera: Aprile mese più crudele, diceva T.S. Eliot; per intanto Greco disegna i lillà generati dalla terra fredda, e già li abbassa come chi plasmando uccide, come chi per amore inventa, e per dolore rinuncia. Come Dio, si - di nuovo lui, non possono farne a meno certi derelitti - crea l'uomo e lo mette nel suo bel Paradiso e poi - oh misericordia - ci siamo tutti sbagliati, adesso quel Paradiso diventa l'Inferno.


Il Pandemonio, eccolo signori: ammassi di carne sdrucita, stiletti allungati, tirati come l'ostentazione protrae il lutto sul viso delle vedove, distorcendone i tratti e migliorandone l'umore. Personaggi strappati a Rosso, Pontormo, la Venere del Sustris al Louvre che, androgina sublime, coi seni minuti e le cosce tese tocca le colombe in amore; le accarezza o scuote come l'impellenza d'affetto tormenta il cuore. Greco tormenta il destino dei suoi caduti, li umilia e salva al contempo: umilia nella perseveranza di ogni poverocristo a peccare, e salva offrendogli loro uno spiraglio di tempo. Uno spiraglio soltanto, non vi è difatti eroe che superi le soglie apocalittiche del Giorno finale. Scenderanno invece le polveri di stelle cancellando i nomi dei nostri paladini, raschiando il memoriale delle nostre illusioni. Frattanto, qualcuno ancora s'inganna di una sorte che offre il serto di allori precari, appena sul capo già pronti a ingiallire. Perciò, cari sconfitti, cari umiliati, cari salvati, il bravo Ettore Greco disseminando i simulacri stanchi delle vostre quasi-salme riscuote in anticipo il debito accumulato. E non si accettano ritardi o piagnistei, il gabelliere non attende.



Sopra Padova sale una luna stupenda: pregate insieme stanotte tu e la tua gentaglia di creta. In ginocchio a piatire perdono: non è bene prostrare oltre l'anima sottile dei vostri cuori. Lascia che l'umanità avvizzisca e rigeneri la nuova vita. Questi tuoi soldati avviliti, rare nantes in gurgite vasto, comunque ossequiano l'istinto della vittoria, non s'accontentano della poca sabbia che scorre nella clessidra dei nostri orologi terreni. Passa fra le maglie del tempo e noi s'invecchia, ma non le sculture, quelle stanno imbecilli a guardarci sfiorire. Almeno noi mettiamoci a riposo, demandiamo a loro il tentativo superfluo di varcare le colonne della morte. Non è dato all'uomo resistere agli inganni e alle tentazioni. Tutto finisce. Tutto svanisce. Martiri! Martiri sono di una volontà superiore che annienta qualsiasi speranza. Ma la disperazione? No, questa è davvero orribile. Dunque recitano - ah sì! - gli attori dello scultore passeggiano sul palcoscenico inscenando il dramma metaforico dell'esistenza. "quel tal filosofo XYZ (Qualcheparte 1905 - 1980) potrebbe associare le grandi débâcle alla prospettiva negativa del mondo esistenzialista; ciascun soggetto appare in un'atmosfera apparentemente disconnessa dalla vita che lo circonda"… bla bla bla. Il filosofo potrebbe, il dotto potrebbe, magari persino il professore universitario potrebbe…. Potrebbero cosa? Spiegare davvero il mistero, lo stimolo che porta uno qualsiasi a mettere in versi modellati o scolpiti l'ansia di trovarsi carico di paure e avversioni. Potrebbero spiegare il disagio della notte, se non togliendo magia al senso tiepido della verità? Le débâcle sono adesso. Sono ora, sono per tutti, di tutti, su tutti. Questa è la sintesi dell'arte, costruire il mistero, dargli un volto, non aspettare qualcuno lo descriva in tanta prosopopea, ma farlo, sintetizzarlo, dargli un motivo di esistere. Esistere? To be or not to be. La ghigliottina ha risolto molti problemi eliminando le ragioni dei colti, dei colli. Rimase il popolo e la sua anima, l'identica che condusse in trionfo la Maestà di Duccio, cantando, esaltando, magari bestemmiando - ma quello in segreto, tanto per non doversi confessare.

Talvolta, prima ancora che annotti, lo studio di Greco diviene… freddo. Radunano fra un brivido e l'altro le indecisioni e i timori, non per il mestiere, quasi questo fosse una risorsa vitale, ma per il confronto quotidiano col mondo, e più ancora con le marionette che, abitandolo, declamano i loro piccoli, sempre più modesti, brogliacci. Le débâcle (incautamente) si propongono di rappresentarci, noi protagonisti del XXI secolo, e se non fosse per quelle due X il nostro sembrerebbe proprio un tempo gracile. I protagonisti giacciono a terra, distesi, forse finalmente in preda al più vivace rigor mortis; la maggior parte di loro stanzia impotente. Perché alzarsi? Appunto, per quale ragione? Dolore, passione, lo sguardo segreto prima del bacio. In fondo ogni elemento sfuma nell'ombra nitida della morte, e la mortalità resta il cruccio univoco dell'intera schiatta vivente. Morire, cessare d'esistere, tanto facile a dirsi. E come si muore? Si chiudono gli occhi, ci si adagia al cuscino, si stringe il culo dalla paura. Questi non parlano. Eppure... bestemmiano, vivaddio, si rivoltano all'ordine costituito, ne denunciano la follia pura, e che follia! È folle pretendere l'infinito? L'eroico sforzo di superamento delle memorie, quasi protrarsi al domani sia un vezzo imprescindibile, se non carnalmente nei propri lavori, nei figli, nelle cialtronesche parole di critici e criticazzi. Si contino le figure: una, due, tre, quella gamba appartiene alla quarta, no, no invade appena appena la quinta… sono adesso ottocentoquranta disgraziati. Cosa sono demoni o angeli caduti dal loro Paradise Lost? Meglio governare all'Inferno o servire in Paradiso? Intanto sono caduti. Lo scultore, è lui il malefico che sgambetta l'umanità, la riduce a un incubo precario. Forse cerca di salvarla davvero, non scherzavo, in fondo ne è quasi innamorato di questa marmaglia terrestre che soffre e soffre e paventa di liberarsi dalla paura. Bestemmiate, bestemmino. A Céline è valsa la vita una bestemmia! La débâcle non è l'insuccesso, ma la sconfitta tiepida di chi cadendo debolmente tenta di rialzarsi. Nel suo tentativo sopravvive il vomere di Adamo, la fatica dei campi sopportata per rientrare in Paradiso. La speranza del Paradiso. La speranza che, dopo la sconfitta, qualcuno emani un verdetto comunque clemente; grazie a Dio, clemente!