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Il vuoto raccolto di Flavio Arensi Non è facile imprigionare una speranza di calma pacata, il vuoto che emerge dopo il fragore della tempesta, e l’odore umido della terraferma che s’abbandona alla pioggia: intanto respira. Alberto Ghinzani prova a recuperare lo spazio nullo liminale al pieno, il senso caldo della serenità che succede al freddo intenso; talvolta, le sue sculture rincorrono proprio questo caldo e questo freddo, alternando ferri a cementi, materiali porosi a sagome levigate. Ci si accorge del fremito mite di alcune opere, come il calpestio del selciato umido, o della zolla ancora rigonfia della valle, la Lomellina, ma potrebbe darsi una delle tante che sormontano la Lombardia. In fondo Ghinzani proviene da un territorio sospeso fra monti e marcite, e non conosce il sentimento allargato del mare o degli orizzonti troppo lontani, piuttosto partecipa del rigore minimale e assettato della pianura, ch’entra in alcuni suoi lavori strisciando come un solco grasso in altrettante solchi aperti dal vomere: lì germinando. Non che le sculture cerchino il conforto dialettale delle origini contadine di tali regioni, tuttavia trattengono il sapore lirico di una vita in germoglio (Guscio, pag. 24), scricchiolante mentre si apre al cielo, quello bello quando è bello delle zone padane. Egli riesce a trasformare la normalità della consuetudine in astrazione di concetti, nel palpito serrato della materia che diventa sogno: talvolta; tal altra attesa. Così un suo disegno di Approdo (pag. 25) non soltanto scopre la limacciosa stasi dell’imbarcazione appoggiata alla riva del fiume, ma delinea uno stato d’animo prima ancora di una vera condizione tranquillizzante e, magari, noia; Franco Francese, che Ghinzani segue di una generazione, raccolse le estreme forze dell’apatia quotidiana e del tedio intimo per racimolare una feroce serie di tematiche relative allo stare abbandonati nella pancia tutelare di un’angusta barca, lasciando l’acqua scorrere fra le dita. Eppure, mentre Francese ricercò il giusto movente per proseguire il viaggio alle sorgenti del disagio interiore, per distogliersi dal nulla maligno del vivere, Ghinzani trova nella pace che arreca il vuoto un motivo di racconto, residui di tempo senza descrizioni o percorsi letterari come nel collega, piuttosto secchi tuberi di eliotiana memoria; ma tutto è dentro la materia. I monaci zen passano intere frangenti a fissare la vacuità, che significa ben altro di quella nihilente aspettativa addotta nei giorni stanchi dall’Occidente. Allo scultore servono pochi ferri e una speranza per concludere l’atmosfera di serena organizzazione dei turbamenti. Di norma, i suoi lavori protendono a un luogo concepito per piani di equilibrio, esattezza farmaceutica delle ombre, talvolta indotte dalla luce che egli stesso afferisce artificialmente alla parte scultorea (Una stanza, pag. 28,29), affinché il contesto formi una soluzione unica fra quote piene e particole di niente. Se poste contro il sipario immaginifico del foglio bianco, oppure addosso al cielo, le sue linee disegnate o scolpite dividono nettamente gli ambienti separando lo spazio aperto (Piccola solitudine, pag. 59). Qui si vive una sorta di sospensione, gli oggetti, il tavolo, la porta, una parete, sono riconoscibili però non reali, ectoplasmi riassuntivi di uno stato esistenziale. Ghinzani squarcia con un fendente secco ciò che è già sgombro: per animarlo, per dargli un senso, per affermare: "in questo stesso istante, invadendoti, t’assolvo dal tuo mancare". Perciò tenta, con eleganza, di allestire una scenografia di oggetti parlanti che non rompano il silenzio meditativo della mente, e in cosiffatta complessa antinomia di significati egli elargisce una visione nuova della realtà, inseguendo, dove vi è assenza, una presenza, viceversa, rincorrendo l’essere laddove potrebbe sussistere il non-essere (Assenza, pag. 26). Si tratta di attimi, di condizioni impermanenti per loro natura effimere, passaggi - insomma - di scintille transitorie, come la stagione invernale col suo manto di ghiaccio presto sciolto. Si accumula, tuttavia, negli studi, quindi nei compimenti tridimensionali, una concrezione di polvere e altri depositi (Le nevi di un tempo; Col tempo, pag. 55), ammucchiati strato dopo strato, livello seguito a livello, per un comando ancestrale di ordine analogo ai sottili mutamenti polverosi delle bottiglie di Giorgio Morandi. Anche in tal caso gli oggetti risolvono nel significato metaforico della vita che si dichiara all’individuo con mistero: Ghinzani la percorre in un lungo cammino alla riscoperta dei ricordi, o delle sensazioni piacevoli come riaffiori di rêverie, in luoghi-non luoghi della coscienza e del mondo (Progetto per scultura da percorrere, pag. 61; Ponte di brina, pag. 64). Vi è comunque un apparente o totale silenzio, situazione di taciturnità incombente, oppure rispetto, lo stesso assunto durante le passeggiate silvestri per non disturbare l’immenso che sovrasta e annienta i cuori ansanti, di chi riconosce la piccolezza estrema della condizione umana di fronte al Creato. Non si può che opporre il silenzio all’ineffabile complessità del Cosmo; ecco nascere una Piccola solitudine (pag. 59), un avanzo di collegiale malessere, d’inadeguatezza affaticata (anche solo momentanea) alle faccende sociali, quelle che impegnano oltre il limite della pazienza – e del buon gusto. Nelle ultime realizzazioni le forme si assottigliano, compreso il vuoto, le strutture creano minimi spostamenti del senso; il pezzo di carta è sempre al margine. La scena è lo studio stesso, in cui Ghinzani sosta tacendo: negli orecchi romba il rumore feroce degli utensili da costruzione, le lamine piegate, i secchi di cemento o polveri sospese. Appronta la sua immaginifica ricetta per cogliere la speranza che ogni momento di calma trascina seco, come il sereno dopo il temporale; quando l’erba della Lomellina assorbe l’odore tenero della terra, che è un miraggio sospeso. Respira, e nel frattempo vuole fare lo scultore. Disegnando, persino, nella tridimensionalità che cerca per i suoi fogli bianchi, insieme allo sporco della grafite, tanto per non lasciare il vuoto sospeso a un filo invisibile, bensì raccoglierlo; quietamente. Questa esposizione, inoltre, rinnova il legame fra il maestro lombardo e la Civica Raccolta che, già a partire dagli anni Ottanta, contava in collezione alcuni disegni dell’artista, inseriti nel corpus ragguardevole di oltre seicento carte di autori del calibro di Sironi, Capogrossi, Licini, Fontana, Gnoli, Afro, De Pisis, Romolo Romani, e una lunga serie di artisti degli anni Sessanta sino alle più giovani realtà degli ultimi tempi; tutte le opere sono consultabili on line sul moderno ed efficace sito internet www.civicaraccoltadisegno.com, all’interno del quale, oltre ad una corretta ricostruzione cronologica della collezione, sono inserite le schede tecniche dei disegni e le biografie degli artisti. Come scrive Marcello Riccioni nel suo testo in catalogo, "Nel disegno di Ghinzani si respira la completa riflessione sulle forme perfette dettate dall’equilibrio, oltre la ricerca della staticità nello spazio, le linee condotte in tutta la loro spinta verso tutte le tensioni. Sembra l’attesa di un momento, in cui il palcoscenico respira l’eccitazione dell’evento che sta per accadere. L’hic et nunc che diviene equilibrio e, come nel mondo del mito classico, attraverso la perfezione ferma il tempo cessandolo nello spazio". Informazioni: Articolo pubblicato il 6 settembre 2004 |