Il grumo di Gabai
Di Flavio Arensi
[...]
Rimani lì, zitto, invisibile,
Come uno spirito che deve
Venire al mondo
E cerca qualcuno, qualcosa
Che ce lo metta.
Umberto Fiori (Un’indicazione)
Il grumo erompe dalla tela; col metodo di un singhiozzo esistenziale coglie Samuele Gabai nell’atto stesso di campare, e di nominarsi persona che respira, mangia, vive e crepa come tutti noi destinati ad interrompere, presto o tardi, la missione su questa terra, dunque ricongiungersi all’Altissimo da cui deriviamo. Il grumo impastato, impolverato, fradicio di consistenza che emerge,
come l’ombelico di un monaco onfalico, disteso a trovare nel suo centro il centro dell’universo: lì fermarsi in una sosta che oltrepassa le parole, le pitture, le storie e le vicende di chiunque. Siamo carne! Strati di muscoli, pelle, adipe, siamo carne, colore che sprofonda in ammassi di altro colore steso sopra il ricordo di un colore che era, ora non più. La costruzione della tela cerca la solidità della materia, della realtà come miracolo quotidiano cui
dedicare le pose meditative, nel quale perdere la coscienza ordinaria per trovare un segno o una porta da oltrepassare. E questo varco si chiama mistero: non ha coordinate, non servono mappe. Arriva e scompare senza opportunità di mediazione.
Cosa rimane dal defalco di tutti i peccati, di ogni singola esperienza, se non la congerie informe di fango, il fango primigenio col quale siamo stati mescolati per ottenere i sensi e tutte le loro dannate condanne? Dunque in
questi quadri giace la storia che ci comprime, mentre l’anima impasta,
disponendo uno sull’altro gli episodi del nostro sopravvivere. All’interno, come nel grembo materno di una giovenca o nell’utero fertile della madre, il germe della speranza non s’abbandona e cresce. Cresce persino già il teschio futuro della nostra fine, quella “crapa” che Gabai segna come memento, ma pure come fonte originale, termine e partenza dell’umanità: un uovo, simile a quello di Piero della Francesca nella pala di Brera sospeso sopra la maestà materna della
Vergine e del suo bambino, che però sarebbe il bambino di noi tutti, e ancora oltre di chiunque crede nella fertilità dell’amore. Così il senso del cerchio dispiega in questa pittura un valore avvolgente, di ciò che non ha mai fine, eternamente ripetuto nei grandi cicli del divenire; le rocce si raccolgono, trattengono il segreto delle viscere: esse stesse corporature e puerpere; la vita e il suo arcano vigono dappertutto, basta riconoscerli.
Intanto le tele si affollano di toni che salgono all’alto, si costruiscono come sculture, e in effetti in Gabai vige un residuo di monumentalità eroica, di forme che travalicano il segno contemporaneo della debolezza per ricercare una vicenda maggiore, senza limiti di pensiero. Si tratta di presenze che dunque lasciano alla parafrasi un ruolo fondamentale, eppure s’esibiscono agli occhi dell’osservatore, non spettri ma essenze meditate, non ricordi non parvenze non
silhouette marginali. Fosse esistita l’era degli dei allora ecco presentarvi i Titani prima della condanna al Tartaro, ma quale umanità ha mai davvero potuto contare su vicende così esaltanti? Guardiamoci, miseri come la polvere e grandi come la limatura d’oro, il nostro crocchio conosce soltanto l’ombra della luce, e per questo non dispera. Gabai conferisce una strutturata compostezza ai
soggetti, li ordina in una grammatica che non cede alla fatalità, se non nella misura che ogni cosa già s’intende partecipe di un destino istintivo eppure controllato, in una rigorosa e assurda logica oscura quanto inafferrabile. Stanno come montagne i suoi uomini senza storia, e una biografia la può scrivere chiunque, chiunque in effetti ritrovarsi nel personaggio in cui specchia: ritrattisti e ritrattati nel contempo.
La confraternita chiamata a raduno stringe i commensali in un cenacolo
taciturno, accoglie loro nello stretto silenzio dignitoso di chi assiste senza disturbare allo svolgersi di una liturgia preziosa, e poiché assiste ne prende perciò parte. Possibile restare ai confini dell’agire, ai margini di questa illusione che chiamano reale? Apro l’incipit delle Upanishad: «Aum. Quella è Totalità, questa è Totalità. Da quella Totalità emerge questa Totalità. Togli questa
Totalità a quella Totalità. E ciò che resterà è la Totalità. Om shanti, shanti, shanti-iii ». Un suono di danza, una spirale dervisci, om shanti shanti shanti-iii, “questa totalità – quella totalità”, si ripetono come gocce di pioggia che cadono cadenzate sulla pietra delle vecchie piazze cittadine. Recitati velocemente i mantra suonano alla stregua di singhiozzi ripetitivi, giaculatorie rapide: grumi, grumi di parole che costruiscono il mondo, l’universo stesso, nel medesimo istante in cui proferiscono. Quel grumo che è ormai feto sulla tela di Gabai, ansante perché deve giungere alla vita, forse
tornarci. Intanto sta aggrappato come uno spirito spaurito, appunto un grumo di totalità nella totalità della totalità senza coscienza di essere solo Totalità. Om shanti, shanti, shanti-iii.
Articolo pubblicato il 3 novembre 2005
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