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Gianfranco Ferroni. Diario esistenziale. 1956-1976 gli anni decisivi Flavio Arensi Il sottile discrimine che discerne la vita reale dalla parte immaginifica, talvolta più dolorosa dell’effettivo, sottratta dal diario all’anima del suo redattore, oscurando i divieti dello spirito al mondo, spinge a considerare la produzione di Gianfranco Ferroni (1927-2001) cominciando dai suoi appunti disegnati, da quella sorta di zibaldone per immagini trascritto nell’album del biennio 1961-1962. La sveltezza del tratto, in taluni casi modificato - si può immaginare - dopo anni dall’adattamento originario, sortisce dalla lunga notte ferroniana, dove intenzionalità della coscienza e autobiografia coincidono, oppure si alternano ripetutamente; esempio, non fortuito, di una logica che Ferroni esercitò tutti i giorni, come pratica vitale, imperativa: l’agio del disegno n’avvantaggiò il demone interiore, permettendogli di raggiungere subito il profondo stato del malessere, proprio e dell’uomo, quindi trattarne l’affioramento - forse con scopi terapeutici - per affrancarsi dal morbo della sconfitta che dominò tutta la sua pittura. Una sconfitta che è vittoria ed equivalse ad avversare la banalità dominante, cui per altro, nel corso della carriera, Ferroni vide sottostare molti colleghi, mentre egli preferì sviluppare l’esclusiva e critica riserva politica. In quegli anni molti sostennero l’utopia rivoluzionaria patteggiando però col regime una condizione di favore, declinando la rivolta per dirigere dipartimenti universitari, accademie e quant’altro, dunque non per ribaltare l’autorità e lo status quo bensì occuparlo. Ferroni preferì l’esilio; e quest’esilio principiò con un viaggio nel 1956, e col suo primo diario-relazione costruito sull’esperienza di un’estate spesa nelle terre siciliane insieme al compagno Tino Vaglieri. Da quell’attacco alle sorgenti del disagio, egli trasse l’impulso e le ragioni di una coerenza pittorica rigida che, pur influenzata da numerosi modelli, tanto esteri quanto conterranei, reperì un pertinente rilievo assoluto, sancendo il senso estremo della vera protesta, quella che evita i salotti della borghesia, ma combina gli uomini alle bestie nella zuffa per la sopravvivenza. In effetti, dai primi temi meloniani, al surrealismo del romeno Victor Brauner, fino all’abiurato realismo propagandato dalla cultura comunista e dalla critica di Mario De Micheli, eppure stretto alle necessità artistiche del giovane Ferroni, ancora intento a districarsi fra tentazioni autodidatte e pittura dai contenuti politicizzanti, il passo liberatorio avvenne coll’incontro delle fasce più deboli della cittadinanza. Non a caso la critica demicheliana sferzò la svolta di Ferroni e Vaglieri, per lui mancante di mediazioni nuove e filosoficamente opportune (L’Unità, 2 novembre 1956, pag. 3), accusandoli di sommarie e sbrigative soluzioni troppo affini a Bernard Buffet (Autoritratto, 1956) e Bernard Lorjou (Natura morta, 1956), nonché al Morlotti del 1945. A parte la diversità di materia pittorica e d’intenti che assolutamente slegano i due giovani alle esperienze post-cubiste di Morlotti, e lasciati i giusti paragoni coll’opera dei due francesi, emersi talvolta con vigore, insieme alla suggestione per Ben Shan, De Micheli dimostrò un vago sostenuto fastidio – quasi un accorato senso di tradimento – alla rinuncia di valori meditati o mediati dal pensiero culturale comunista. L’ottimo critico milanese non comprese quanto l’uscita dalla casa realista (sociale) di Ferroni marcava per converso il sua pieno sprofondamento in una realtà più intima, con disappunto e un certo orrore per ciò che egli riteneva detestabile e irreparabile: irreparabilità annunciata quale compito specifico, indagine dello habitat esterno in risposta al destino personale. Inoltre, si aggiunga, che il viaggio dei due sodali si trasformò, al loro ritorno, in una parabola collettiva, non per una forzata identità di programma che tra i realisti esistenziali è improbabile afferire, bensì in virtù di un collegamento empatico che unì atelier differenti. L’insufficienza del motivo realista, e della pittura coeva, spinse Ferroni a ricercare nella linguistica incisoria un’ulteriore forza espressiva che i rilievi chiaroscurali e le lacerazioni della punta nella lastra offrivano, quasi riportando i segni del tedesco Wols e dell’informalità (col rigore di Alfredo Chighine) nella figurazione; ugualmente accadde che un giovane scultore (l’unico della compagine) come Floriano Bodini lesse la novità del gesto in chiave concreta, striando la scultura con linee, macchie di spazi e masse, nel processo di una tela astratta ridotta entro margini e figure. Le prime acqueforti (1957) si concentrarono sulle vedute urbane e delle periferie, già annunciate da Giuseppe Banchieri, e riproposte dal livornese in chiave forse più volitiva, prive del sordo tormento grigio del compagno, però in preannuncio di un risultato meno polemico e aporistico. Un tema similare come quello della Bambina uccisa nei sobborghi cittadini fu da entrambi svolto in direzione del dramma, del correlativo montaliano, con una grammatica che tese a sfumare l’immagine in cerca dello scavo materico, quasi fisico, o come infossamento della figura nella tela, portò Ferroni (sul finire degli anni Cinquanta) a intessere un ciclo poderoso di ritratti, talvolta barocchi nelle prerogative estetiche, che stagliarono allungandosi come macchie torbide: esasperazione del sentimento espressionista evinto nel ciclo siciliano. Qui, le forme, esplosero verso l’alto, in un richiamo baconiano negli istinti, e quasi informale negli esiti, nel diluvio di pece nera che assecondò l’umore pesto e tristemente solipsistico, irrazionale, di un Alberto Giacometti massimamente tetro. Questa serie di ritratti, che si accompagnarono a nature morte della medesima concezione, verticalizzanti, come Omaggio al mio lavoro (1958), s’esplicarono nella ripetuta e quasi edipica ritrattistica dedicata alla madre, col volto cavallino, la faccia di un’altra epoca severa e distante, prebellica: una prospettiva schiacciante, fulminea come il taglio di Lucio Fontana, del quale leggere il tentativo di sfuggire alla normale dimensionalità spazio-temporale. A partire dal 1960, con la serie delle Città, il prospetto mutò di nuovo, allargando l’inquadratura ormai adagiata in orizzontale, coi toni vischiosi del realismo fosco di Giovanni Testori, uno dei critici più adatti a leggere l’epopea ferroniana. Anche le nature morte, gli oggetti, assunsero colori e proporzioni nuove, rigettando il catramoso malessere del decennio precedente, volgendo piuttosto a una nuova fase esistenzialista. In verità, Ferroni condusse pedissequamente a termine l’intento del gruppo milanese di addentrarsi nelle vicissitudini umane attraverso il caleidoscopio dell’angoscia macerata, del sentimento tragico condotto a misura del mondo, non per esibizione astuta del malessere, ma per indole, attenzione filantropica; fino all’epilogo della vita, Ferroni non disattese il proposito iniziale - principiato colla visita in Sicilia – delatorio della triste condizione in cui versava e versa la (in)civiltà contemporanea: strada non sempre battuta dai vecchi compagni milanesi, dirottati ad altre – pur efficaci – visioni. Il 1964, colla scomparsa di Bepi Romagnoni, la successiva crisi personale e artistica di Mino Ceretti, la sbandata ideologica di Vaglieri - che gli costò l’isolamento da parte dei suoi stessi commilitanti di partito, la scelta di Banchieri di perpetuare il malessere in un’arte solitaria e senza dialogo, la attitudine di Giuseppe Guerreschi per un racconto talmente deflagrante e fastidioso da porre l’osservatore in imbarazzo, il dinamismo di Bodini nel solco di una plasticità razionalizzata, risolsero una situazione d’ambiente, ripresa da figure secondarie, però senza nuove risultanze. Il nucleo esistenzialista, quello che Edith Stein definì col termine kern, un nocciuolo costante tuttavia in progresso, si mantenne intatto – fedele – anzitutto in Ferroni, che a partire dal 1960 inscenò una serie di ricorrenti meditazioni, sempre più raffinate nei dettami tecnici, e insieme rarefatte di turbamenti immediati. Egli abdicò alla ferocia o al livore baconiano, quello che nel Vescovo (1957) assurse a esempio del recondito berciante, per scoprire la tenuità della sofferenza e le sue nuance, il ricordo, la metabolizzazione del passato, anziché il suo pieno ed eccitato rifiuto: accettò l’uomo, pur con le sue inevitabili contraddizioni. Accolse una diversa fase interpretativa, che cercò di sovrapporre i diversi ambiti dell’esistenza, non per elaborazioni autonome: la figura, il lavoro, l’oggetto, la società, la metropoli, ma tutto questo all’unisono. I nuovi quadri sancirono la presa di coscienza della vastità umana, alternando tagli prospettici e tematici, alla Leonardo Cremonini, con colori soffusi, cilestri, nel tentativo di un recupero coscienziale, ovvero dell’intenzionalità della coscienza, o Cognizione della colpa, citando un capolavoro del 1965. Un quadro straordinario e fondamentale come Racconto di situazione (1963-1965) consacrò l’impegno alla nuova direttiva, preannunciando gli scorci degli anni seguenti pur senza smettere alcuni topoi come la madre, il lago, l’esterno, gli oggetti, le ombre incombenti e interrogative. Si tratta di opere che riassunsero gli approdi e nel contempo provocarono i germi di rilievi futuri, ma soprattutto stabilirono una nuova disamina: i contenuti si nascondono, il portato simbolico estende, piccoli dettagli conferiscono significato, la tragedia eclissa dietro a una parvenza tranquilla; sono i quadri in cui l’olocausto ebraico affiora e simboleggia l’olocausto collettivo, mentre l’immagine assurge a finestra interdimensionale fra passato, presente e futuro, squarciando il contingente, in virtù di una condizione denunciataria e di subita sopraffazione, nel triplo ruolo dell’artista quale vittima, osservatore, carnefice (Arabo ferito, 1967); i fattori principali richiamano la sofferenza dei campi di sterminio tedeschi, ma non dissimulano la passione cristica, pur richiamata in sbocchi contestuali alla realtà moderna, ebbene di forte laicismo, lo stesso che portò alla stagione degli Altarini, prima sporchi di tradizionale religiosità di provincia, poi soltanto rigorosamente profani. Si fece allora largo la predisposizione fotografica - convertita in arte pittorica dal Banchieri delle Spiagge e degli Ambienti - tradotta da Ferroni in elemento di studio e compartecipazione delle opere: la fotografia ferroniana infatti conduce spettri, memorie, frangenti crudeli che sulla tela divengono istantanee di un momento o di cronaca, oppure veri e propri ritratti, come in Ultimo ricordo di Tradate (1967), in cui l’immagine femminile s’incornicia allo stesso modo di un vecchio dagherrotipo domestico riposto sulla cassettiera. Ferroni operò una specie di accumulo pop, in virtù degli sbocchi già conquistati da Romagnoni e Guerreschi, da lui assorbiti con parsimonia in chiave di affastellamento psicologico più che materiale; egli, difatti, definì la stratificazione emotiva, non solo degli oggetti o dei personaggi reali, annunciando il mondo delle ombre, dei fantasmi interiori compagni dei viventi: in Sequenza: fine di una piccola storia (1966), la morte, la vita, il nulla, compongono il teatro immaginario della nostra biografia ponendosi dinnanzi all’urgenza di considerare, oltre all’ammasso mnemonico di figure ipnagogiche o in carne ossa, l’inevitabile ufficio del vuoto, dell’assenza, finanche dell’addio; Pavimento (1975) esplicò l’atrocità dello spazio sgombro (tanto inteso alla stregua di luogo animico quanto sociale, effettivo, intellettivo), quale metafora intrinseca e collegiale, che ne La stanza vuota (1976) stabilì un vertice di vacuità zen, ossia di piena vuotezza: traguardo cui l’artista attese negli anni successivi, eppure cercando di restringere lo horror vacui nel più segreto e minuscolo campo possibile, quasi condensandolo in un grido massimo e intenso. Con Comodino di corsia (1976) la degenza, che si rilevò nella malattia di Norge coi tratti di un’infermità comune a tutta la congerie terrena, divenne essa stessa esemplicativa del vuoto, quale nuovo correlativo oggettivo, adducendo due elementi peculiari, il letto come sudario in cui riposare e dormire - nella doppia accezione equipollente di sonno ristoratore e sonno mortale - quindi l’altarino composto di oggetti, parafrasi del tavolo da lavoro che tanta parte ebbe nelle analisi degli anni Ottanta e Novanta, in quel gioco di rimandi autobiografici o autoreferenziali allestiti fin dagli esordi. Ferroni elogiò la prassi del quotidiano offrendola col carisma dell’arte; descrisse il letto di un qualunque degente, di Norge, di un infermo, persino un nostro famigliare, uno sconosciuto: tutti attori dell’epopea di un eroe sconfitto, di colui che, in procinto d’andarsene per sempre, si volta in cerca di complici sguardi. L’abitudine diviene esclusiva e comunitaria perché di ciascheduno e nel contempo privata: ricordo la camera da letto del pittore Pierluigi Lavagnino, nella casa milanese di via Monti, qualche giorno successivo alla sua scomparsa. Un materasso semplice, appoggiato al tavolato e al muro, e lì, sulla testata inesistente, il segno indelebile di notti trascorse nel dolore della malattia, in solitario silenzio. Nell’incapacità di poter salutare un compagno prima del definitivo distacco, il convincimento di una mancanza che è presenza, e viceversa una presenza ormai assente, la stanza angusta, i segni dell’infermità sulla parete, il silenzio, rammentarono i lettini sfatti di Ferroni; un qualunque letto di corsia, la corsia degli incurabili che Patrizia Valduga sentenziò in uno dei capolavori della sua poesia-diario, e presente ora davvero nella stanza di Lavagnino, non dipinto per caso da Ferroni nell’attimo proustiano della coscienza ritrovata, ma vero, eppure impalpabile come un quadro. Nella seconda metà degli anni Settanta il registro sentimentale di Ferroni si completò volgendo alla suprema metamorfosi distintiva degli ultimi due decenni della carriera, allineati alle poetiche del foggiano Giuseppe Ar, di Pascal Vinnardel, fino a López Garcia e al danese Vilhelm Hammershøi, pur nelle rispettive autonomie e negli improbabili confronti diretti, che facilmente il livornese cercò in Vermer piuttosto dei contemporanei. D’altronde, con Pavimento e La stanza vuota si chiuse un ventennio decisivo alla formulazione di un percorso iniziato agli estremi opposti della pittura, lentamente, passo dopo passo guadagnando ogni meta con scrupolo. Perciò, quantunque paradossale per un artista novecentesco, gli anni decisivi di Ferroni, determinanti per l’approdo finale, non si consumarono in pochi mesi d’introspezione, me nel continuo e minimale superamento del dato acquisito, provato, corretto quindi emancipato, appunto come lo scritto del diario: talvolta rapido e furtivo, altre pigro per occorrenza meditativa. Un ventennio servito al successivo ventennio, senza mai tagliare il traguardo. Il diario esistenziale di Gianfranco Ferroni consta di innumerevoli guizzi e stasi, di stravolgimenti e recuperi, nel delirio proprio di ogni animo incline a trasformare tragedie e tripudi in una benedizione, eludendo la farsa di chi soggiace alla grandezza dell’essere senza sobbalzare. Articolo inserito il 12 maggio 2004 |