La biografia di Arturo Ghergo
Arturo Ghergo. L'immagine della bellezza. Fotografie 1930 - 1959
Arturo Ghergo fotografo. Il glamour autarchico di Claudio Domini
Arturo Ghergo fotografo. Il glamour autarchico *
di Claudio Domini, Curatore della mostra Arturo Ghergo. L'immagine della bellezza. Fotografie 1930 - 1959
Arturo Ghergo è uno di quegli autori che solo raramente hanno avuto accesso
alle zone più nobili della storiografia d'argomento fotografico, se non
nell'ambito specifico della fotografia di moda, di cui è legittimamente
considerato un precursore, in un'Italia che era ancora lungi dall'essere un
riferimento mondiale del settore, o citato frettolosamente come campione della
ritrattistica celebrativa, dove pure risulta adombrato dai suoi colleghi e
“rivali”, Ghitta Carell e, soprattutto, Elio Luxardo, che hanno saputo
evidentemente meglio di lui colpire l'attenzione degli avveduti compilatori dei
patrii testi di storia della fotografia. Niente di strano, beninteso, i nomi
esclusi dall'empireo sono molti e alcuni di rilievo ancora maggiore di Ghergo.
Pensiamo solo ai tanti fotoreporter – da Franco Pinna a Caio Garruba, da
Giuseppe Coluzzi a Tino Petrelli, solo per citare quelli che negli ultimi anni
hanno comunque trovato qualche concreta soddisfazione storiografica – che,
probabilmente in ragione di un ruolo troppo colluso con funzioni professionali,
occupano ancora posizioni di rincalzo, stipati in lunghi elenchi, alla voce
“fotografia giornalistica”, ai margini della storia che conta, quella
autoriale, ça va sans dire. Eppure, la fama di Ghergo in vita era notevole, e
lo si può facilmente dedurre dalle modalità con cui viene riferito il suo nome
nelle didascalie delle immagini pubblicate sui periodici d'informazione
cinematografica: la tal attrice “fotografata da Ghergo”, o “in una foto di
Ghergo”, a indicare che quella firma, quasi sistematicamente presente, in basso
a sinistra, nel campo dell'immagine finita, era un marchio riconosciuto e
desiderato, garanzia di qualità, oltre che rivendicata attestazione di paternità
fotografica.
Probabilmente la sua scarsa attitudine a promuoversi al di fuori della pratica
professionale – intendiamo attraverso mostre, concorsi, associazionismo di
settore, pubblicistica specializzata – avrà inciso sulla percezione complessiva
della sua produzione, frutto di un “mestiere”, in fondo, più che di un sacro
fuoco creativo (pare che per molti storici della fotografia questa risulti una
colpa difficile da espiare), soggetta dunque a valutazioni contraddittorie, che
da un lato ne “criminalizzano” gli anacronismi formali, sistematicamente e
frettolosamente assimilati alle poetiche pittorialiste, dall'altro ne esaltano
la modernità concettuale, configurata attraverso l'adozione di modalità
estetiche da Glamour Photography, fino ad allora inedite nel nostro Paese.
Di forma e funzione (e di alcune radicate convenzioni)
La fotografia di Ghergo certo si presta particolarmente a questi e ad altri
equivoci, non solo sul piano dell'apparenza formale, ma proprio su quello più
controverso dei suoi caratteri strutturali, spesso sconfinanti in pratiche
extrafotografiche (nel senso strettamente ontologico del termine), così
tangenti e colluse con la pratica pittorica, e ci riferiamo al sistematico
ricorso al ritocco manuale, inevitabilmente percepite oggi come forme residuali
di un gusto che la profonda e rapida modernizzazione della cultura visiva
nell'Italia degli anni trenta e quaranta tendeva a marginalizzare. Ma è altresì
evidente che è soprattutto sul piano delle “motivazioni” produttive che Ghergo
continua a suscitare i maggiori imbarazzi a tanti crocianissimi critici e
storici di casa nostra, che, se proprio devono occuparsi di lui, si affannano
ad ammantare la sua figura di quel côté artistoide, mitologico e aneddotico,
evidentemente indispensabile per poter dissimulare o attenuare la matrice
prosaicamente funzionale della sua fotografia.
Insomma, per le abitudine storiografiche nostrane, Ghergo rischia di restare
confinato in una specie di limbo, di “terra di nessuno”, dove se valutato in
esclusiva relazione alla coeva produzione d'ambito artistico, fotografico e
non, finisce per essere considerato come un “passatista”, al pari di tanti
altri dignitosissimi colleghi, un attardato epigono di una fotografia
concettualmente superata, eventualmente paradigmatica dello stato
d'arretratezza del panorama italiano degli anni trenta, cui si concede
volentieri l'onore delle armi, in virtù di una non meglio identificata “qualità
estetica”... e se considerato invece come un professionista dell'immagine, diventa
materia da sociologia, buona al massimo per fare da sfondo o contrappunto ai
più meritevoli campioni dell'arte fotografica.
Ma siamo davvero convinti che Ghergo fosse interessato ad emergere come
artista, almeno nell'accezione idealistica del termine? Per capirlo dobbiamo
metterci d'accordo, una volta per tutte, sulla definizione e sui parametri
d'identificazione di ciò che viene chiamata fotografia artistica.
Innanzitutto, dobbiamo considerare che secondo le concezioni vigenti ai tempi
di Ghergo (ma affatto difformi da quelle attualmente in auge), la qualifica di
artisticità comporta l'assunzione dell'aspirante prodotto artistico in un
sistema istituzionalizzato, gestito dalla doxa competente, specialistica,
costituita da storici e critici d'arte, da artisti affermati (allora
prevalentemente pittori), accademici di varia estrazione, mercanti.
L'attività dei circoli fotografici, associazioni amatoriali assunte negli anni
successivi come paradigma di una pratica fotografica a finalità
estetico-artistica, completamente sganciata dalle funzionalità professionali e,
in ragione di ciò, più meritevoli di altre di essere studiate con continuità,
per essere iscritte di diritto nell'albo professionale della fotografia d'arte,
costituisce un esempio illuminante e del tutto legittimo di questa concezione.
Meno legittimo è buttare nello stesso calderone la produzione fotografica a
finalità ibrida, come quella dei tanti atelier, variamente interessati a
partecipare al dibattito estetico e più inclini a considerare l'elemento
“commerciale” come fondante, per nulla in contrasto con qualsivoglia
motivazione estetica, tutt'altro, ma la cui Kunstvollen va vagliata caso per
caso e debitamente dialettizzata con il contesto produttivo che la governa.
Nella sua accezione più allargata, infatti, il termine artistico, ai tempi di
Ghergo, ha valenza affatto univoca ed è spesso indifferentemente riferita a
qualunque opera d'ingegno intellettualmente ed esteticamente qualificata.
Nel nostro caso specifico, dobbiamo dunque considerare le reali aspirazioni e
aspettative che Ghergo possa aver manifestato, a parole o con i fatti, nel
perseguire finalità a specifico indirizzo artistico, dichiarazioni di poetica,
ad esempio, frequentazioni significative dell'ambiente che avrebbe potuto “laurearlo”
come artista. Certo, non possiamo escludere a priori che egli avesse della
pratica artistica un'idea personale e nozioni affatto specialistiche, anzi
piuttosto empiriche, considerata la sua formazione entro la prassi della
bottega artigiana, non già dell'Accademia, o degli studi teorici specifici.
Dovendo valutare le sue aspirazioni in un quadro definito essenzialmente dai
riscontri produttivi, questi ci dicono chiaramente che di sicuro non si
considerava un mestierante prezzolato, un semplice commerciante, sebbene
produrre immagini attraverso una pratica esteticamente consapevole e
formalmente qualificata non significhi automaticamente aspirare a essere un
artista. Per fare ciò occorre appunto intraprendere, attraverso determinati e
codificati meccanismi, un percorso fatto di mostre collettive, concorsi,
partecipazione al dibattito estetico costantemente alimentato dalle riviste
specialistiche, tutte circostanze, queste, non solo mai riscontrate, ma
sistematicamente negate – lo abbiamo già ricordato – dalle fonti
memorialistiche più vicine a Ghergo, concordi, anzi, nel sottolineare il totale
disinteresse del fotografo per siffatte pratiche.
In assenza di professioni esplicite di fede nei sacri valori dell'arte, di
elementi documentali in accordo con questi parametri, l'introduzione della
fotografia di Ghergo nell'ambito di pertinenza esclusivo dell'istituzione arte
è dunque da considerare arbitraria e fondamentalmente costruita su
un'assunzione acritica e astorica delle risultanze formali della sua produzione
fotografica. L'assunto suonerebbe in questi fragilissimi termini: sono immagini
esteticamente compiute, dunque arte tout court, classificabile e valutabile
secondo i criteri adottati dalla storiografia e dalla critica specifica.
Ci pare quantomeno un azzardo, e, pur tenendo conto dell'ambiguità linguistica
della fotografia gherghiana, anzi proprio in ragione di ciò ci sembra corretto
collocarla e definirla secondo modalità più articolate, che non costituiscano
una gabbia, comoda e circoscritta, entro cui razzolare per rinvenire reperti
poetici e facili dogmi estetici. Preferiamo fare riferimento a un'idea di
fotografia come pratica sociabile, soggetta a funzioni storicamente
determinate.
A scanso di equivoci, dunque, secondo i parametri appena sommariamente esposti,
partiamo dall'idea che Ghergo vada a occupare più o meno consapevolmente un
ambito più vicino alle modalità della comunicazione visiva che a quelle
dell'arte, che produce materiali a partire da finalità specifiche, formalmente
contigue a quelle della pratica artistica più evoluta, ma che da quest'ultima
debba necessariamente essere distinta, e non certo in termini gerarchici,
proprio in ragione delle differenti finalità che persegue. Se di arte si deve
parlare, essa è da intendersi, insomma, nel senso più strettamente etimologico,
schiettamente artigianale del termine. Sì, perché Ghergo concepisce la
fotografia principalmente come una professione, una pratica altamente
qualificata, dove l'intuizione estetico- formale si coniuga con la più
sofisticata perizia tecnica e con i moduli tipici dell'organizzazione
artigianale del lavoro. È lavoro, appunto, lavoro su commissione, svolto con
piena coscienza estetica, con l'intenzione di creare un carattere
riconoscibile, uno stile, ma anche dettato da esigenze commerciali, prima fra
tutte la piena soddisfazione della committenza. Perché, ce lo fossimo scordato,
la pratica fotografica di Ghergo ruota esclusivamente intorno a questo
principio fondamentale, conditio sine qua non della sua stessa esistenza. Non
fotografa per diletto, o per gratificazione spirituale, non vaga in cerca di
soggetti attraverso cui esprimere la propria insopprimibile creatività, ma la
devolve a richiesta e dietro adeguato compenso a chi riconosce in lui un
garante autorevole di un determinato risultato formale.
Trovare tutto questo disdicevole, limitante e poco poetico significa non
comprendere che la fotografia, tutta la fotografia, è altro rispetto alla
produzione artistica tout court, è una pratica sociabile, vincolata alle
funzioni cui è preposta, siano esse documentarie, mnemoniche, celebrative o
anche puramente estetiche, ed è all'interno di questa indispensabile dialettica
che va indagata, pena non comprenderla che parzialmente, o non comprenderla
affatto.
Le motivazioni ad indagare, a inquadrare e comprendere, insieme a Ghergo, la
complessità del fenomeno di cui è parte, e parte affatto trascurabile,
potrebbero nascere proprio da qui, dalla verifica che certe convenzioni
epistemologiche abbiano costituito e costituiscano ancora – non solo per
Ghergo, ma per un intero vastissimo settore della produzione fotografica – un
difetto percettivo tanto frequente quanto pericoloso, che ha finora
pregiudicato in questo Paese un corretto sviluppo di una decente storiografia.
Milano, 20 maggio 2008
* Estratto dal testo in catalogo Silvana editoriale