Arte

Filadoro e Di Pietro: tratti e ri-tratti

di Mimmo Grasso

L’operazione , creativa e intellettuale, con un che di  paradigmatico, elaborata  da Filadoro e Di Pietro è molto intrigante. Cercherò di ri-trarre  brevi note e, soprattutto, di essere chiaro ai fini della trasferibilità dei complessi intrecci offerti al lettore con eleganza, e cioè economicità.

Innanzitutto, come si suole, osservo il  titolo: (ri) tratti. Lo terzeio (scrutare con trepidazione, sleng napoletano, ndr.) e vedo  che ha già un bel po’ di informazioni biforcute. Quelli di Filadoro sono tratti e quelli di Di Pietro ritratti? I lavori di entrambi sono ritratti? Uno ritrae l’altro? Prevale comunque il concetto di due, quasi che ambedue si pongano l’uno verso l’altro come  dioscuri o gemelli, speculari, e, tra i tanti significati possibili, prelevo quello che mi sembra più attentamente definire i contorni dell’azione: tratto e ritratto, cioè Filadoro trae, Di Pietro ritrae. Insomma uno tira di qua, l’altro di là. Questo senso mi sembra nascondersi anche nel numero 11 (cioè 11 ritratti) che, in fondo, sono due uno giustapposti Del resto, la scacchiera che Filadoro installò su un pavimento e la bella clessidra deposta sotto gli archi della chiesa dell’Incoronata  nel 2005 a Napoli, autorizzano a pensare questo. Filadoro  è orientato alla matematica (cosa ben diversa dall’aritmetica) e, tra le operazioni fondamentali, al moltiplicare seriale senza sommatorie: un processo dunque di costanti giustapposizioni quasi a non precludersi le possibilità infinite delle combinazioni derivanti dagli elementi accostati tra loro. E, infatti, con questo processo si aprono universi cognitivi ed estetici molto interessanti. Una clessidra dalle forme curve installata sotto gli archi di una chiesa (e una clessidra è fatta di due coni giustapposti,anzi di un cono + un cono)fa nascere nell’osservatore simboli nuovi . Quasi sento di dovermi battezzare di nuovo in questa fonte del tempo (ma in questo caso mi battezzo con la sabbia e non con l’acqua, anche se ambedue fluiscono, scorrono).


Questa stessa struttura di duplicità la si trova nei distici di Di Pietro, una linea piana più una linea piana (ma in verità, piuttosto le basi di varie onde).
Chi unifica tutto è il Re degli Interstizi di Pessoa..
Poeta e pittore  confermano, per vari aspetti, la struttura binaria  della mente, il suo  essere bicamerale: i distici sono allora  “voci”, voci mute: la scrittura,  ascoltata dai  personaggi convocati come sacerdoti o coreuti di una danza (che si basa sul movimento) fuori del tempo, che è movimento.
.Non si tratta di dire due volte la stessa cosa con intenzioni o atteggiamenti diversi ma di un’unità, nel senso che non può esserci l’uno senza l’altro. Dissimilmente somiglianti.
Tratto va inteso nel senso, anche, di trarre. Analogamente ritratto, nel senso sia di trarre di nuovo che di ritrattare il primo negoziato o assunto o immagine.
Un famosissimo dagherrotipo è quello di Edgar Allan Poe. Penso a quest’americano ed ecco che qualcosa di misterico mi intercetta. I volti, evocati, si sono voltati. Hanno tutti lo stesso sfondo, si producono (ri)producono sullo stesso materiale e il fatto che siano, in fondo, tutti uguali, li fa tendere a porsi come partecipi di un processo iconografico;un’unica posa. Si pensa subito anche a  Wharol, ma l’operazione ha poco a che vedere con la serialità. Ha invece a che vedere con il concetto di uno e con la camera oscura della memoria tant’è che il dagherrotipo , come si sa, era una tecnica per lo sviluppo delle immagini non riproducibili e i cui elementi sono quelli dell’al-chemè (occhio),alchimia. il rame, l’argento, la luce, il mercurio. Se si deve parlare di serialità, questo vale per la galleria d’occhi , per queste specie di foto segnaletiche sottovetro, per quella parte del proprio sguardo che il visitatore lascia sul vetro. Quanto alle immagini dal punto di vista della ritrattistica, questi sono autoritratti di Filadoro e autoscritture di Di Pietro (che strano accoppiamento i nomi: l’oro e la pietra) che fanno, nell’ambito delle mie conoscenze, pensare a una profondità psichica più che fisica,.
Il primo a fare in modo che ritratto e spettatore dialogassero tra loro fu, come si sa, Antonello da Messina, grazie al quale il quadro non si guarda ma si vive, facendo entrare in gioco altri significanti. Anche qui  i convocati dialogano con noi e tra loro e la cornice ha la funzione di un recinto messo invano intorno a un territorio storico che si sviluppa in profondità più che in altezza e larghezza.Si tratta di anime condotte per mano dall’argenteo e mercuriale psicopompo.Penso anche al Bellini e ai suoi componimenti metaforici come l’uomo nella conchiglia, a  Vemeer che inquadra i suoi personaggi, rappresentati in gesti quotidiani, come apparizioni  incorniciate dall’altra cornice che è la finestra dalla quale perviene la luce (come in Filadoro ci sono due coni, in Vermeer ci sono due quadrati: c’è una comune passione per gli scacchi) e, se fosse qui presente la clessidra di rame, potrei, suggestionato da Di Pietro (misericordia: ho detto “potrei” che è anagramma di “pietro”) scrivere un distico per Luigi, questo:


Che sia piana o cilindrica c’è un’ombra
che fa, Luigi, dei tuoi coni icona.

E,ovviamente, penso a ritrarre il volto di Bruno Di Pietro tra i personaggi di Filadoro. Conosco la poesia di questo elegantissimo poeta che fa parlare i suoi versi in evi sempre incerti, sempre perifrastici. I suoi versi hanno il sapore del q.b. parsimonioso e necessario. Lo immagino accanto a Benjamin, l’unico a non guardare diritto. Avrebbe, come Walter, il capo chino, un po’ malinconico. Se lo potessi vedere a figura intera sono certo che avrebbe i piedi in cubi di cemento. Il piombo, il rame, il mercurio di Bruno avrebbero un che di atrabiliare, come se sul suo capo cadessero atomi democritei e lui li stesse  guardando in riposo a terra. Vicino a Benjamin ci sarebbe l’Angelus Novus; vicino a Di Pietro l’Angelus Antiquus, quello di Duhrer, quello della malincolia.
Forse è questo angelo il personaggio che campeggia dietro ogni volto, che li (ri)chiama. E, infatti, si tratta di persone che osarono l’impensabile, anche il demoniaco. Vuoi vedere che l’angelo è melancolico perché sa che diventerà, tra poco, nel suo passato futuro, demonio?
Ed ecco che il detto o il dicibile si trasformano in non detto, in detto per inciso e le parole mettono le ali ai piedi e alle spalle e lasciano il segno qui sul muro, da solo.
Ho enunciato varie volte la frase  “ questi lavori fanno pensare a “, mi sono cioè spostato nella mia memoria, ho seguito un percorso di  confronti cercando  affinità tra le opere e i versi, tra le opere e altre opere, tra queste e i simboli, tra i versi e il taciuto. Sono addirittura giunto a conclusioni di angelologia.La nostra mente, per conoscere, ha bisogno di confrontare un oggetto con un altro oggetto (cioè creare una relazione con un’altra relazione già esistente) già presente nella mente. Questo concetto  conduce a immaginare un’ uguaglianza degli oggetti e delle situazioni in cui essi appaiono nel senso che creiamo relazioni costanti tra di loro. Ciò che rende simili due cose dissimili è l’ identità della relazione (nostra con loro, loro tra loro). E’ la  similarità del dissimile di Filadoro, che qui si può proporre nel seguente modo aforismatico: due cose sono così diverse da essere uguali. Specifichiamo l’assunto, altrimenti è una bizzarria (ma già questo che ho detto è un’equazione). Due cose possono essere uguali evidentemente o per la forma o per gli effetti sull’osservatore. In tal senso il caldo e il freddo, pur diversi, sono uguali quanto a effetto (suscitare una reazione, un turbamento dello stato omeostatico del sistema percipiente) o possono essere uguali quanto ad atteggiamento del soggetto. Faccio un esempio banale ma significativo perché quotidiano, inosservato: l’acquisto di un’auto nuova, lo sfogliare una rivista femminile da parte di un uomo (io, in questo caso). L’acquistare un’auto nuova produce indecisione tra il lasciare l’auto vecchia e scegliere quella nuova nel senso che gli elementi positivi, anche affettivi, del vecchio contagiano quelli del nuovo oggetto. Non solo: se anche mi decido ad acquistare l’auto nuova, non saprò scegliere tra ,poniamo, una granturismo e un fuoristrada. Quando sfoglio una rivista femminile, mi metto a confrontare le donne fotografate (è l’unica cosa che so fare: ma è ovvio, sennò perché ne mettono tante?)  e, scegliendo scegliendo, alla fine ne rimangono sempre due o tre che mi creano insicurezza, indecisione: non so scegliere. Siamo, dunque, nell’area della “dissonanza cognitiva”. Due cose diverse sono uguali quanto ad effetto di dissonanza.. E’ precisamente questa la similarità del dissimile. Il cono di sopra di una clessidra non è quello di sotto, è anzi opposto, vertice contro vertice, ma si tratta di un’opposizione strumentale e funzionale, tant’è che senza il cono di sopra rimane solo il cono di sotto e non possiamo giungere né al concetto di clessidra né di tempo.
Noto che la parola che più ho usato poco fa è “scegliere” (che ha etimo da sciogliere) e si sa che scegliere comporta mille rinunce. I personaggi qui esposti sono sempre stati dimidiati e annodati nelle loro due metà. Anche nella vita reale si sono scambiati a volte le reciproche metà (molti di loro si sono conosciuti).
I materiali usati da Filadoro  sono il rame (tendente al rosso) ,la sabbia (che non c’è  ma che ascoltiamo scendere dentro la clessidra) (la sabbia è generalmente immaginata di colore giallo, affine al rosso)  e serve sia nei processi di fonderia che per la produzione di vetro. C’è poi l’acqua, che serve sia come ur-icona che come elemento sapienziale per lo sviluppo dei dagherrotipi  di questi volti non so se cianotici o amniotici..
L’aura dei personaggi nati dal processo di lavorazione del mercurio e dell’argento  è identica.
Il volume consegnatomi da Bruno di Pietro, si apre con l’immagine di un merlo sorpreso nell’angolo buio, come se non si aspettasse di essere scoperto e che ci guarda un po’ ironico e perplesso, come uno che sa parecchie cose. E’ un merlo che si nasconde nell’apparenza di merlo.. E’suo  il fischio buio che si annida negli angoli della nostra mente, il richiamo dei ritratti. E’ il suo fischio a essere impaniato.
I personaggi sembrano pagelline con dedica commemorativa, incisioni su lapidi; ognuno di loro sembra leggere il proprio epitaffio. Guardano il lettore, lo seguono  con gli occhi, come accade con le fotografie che abbiamo sul comò. Sono gli occhi l’elemento mobile e, se vi soffermate su quelli –p.es.- di Kakfa, fuggite via spaventati per l’abisso che lasciano intuire (ricordando che sul vetro ci sono anche i vostri occhi).I distici  sono immobili e, per farli muovere (per far sì cioè che il loro significato disorienti il lettore creando movimento) sono stati messi  tutti insieme in una stessa cornice, creando un ritratto di (ri)tratti .Ed ecco che, come su breve mare silenzioso, c’è il fruscìo di una risacca:

forse per stelle implose nobiliti la bile nera.
l’incrocio tra due vie non si è risolto
manca il sogno ad occhi aperti
fili profili e palloncini rossi
diversi soli al bordo della sera
buccia  d’arancia gettata al confine,
il tempo dei poeti non è ancora.

Ma guardiamo questi occhi :quelli di Baudelaire sono sofferti, allucinati e investiganti, quelli di Rilke sognanti, aperti sull’Aperto,  quelli di Freud sostituiscono il canale uditivo -sono occhi che ascoltano- ; Magritte sta vedendo qualcosa di familiare e remoto,tanto remoto da essergli indifferente come una ferita abituata a guarire col sale; Cvetaeva ha lo sguardo a caschetto di una bambina che si ucciderà per gioco e il cui corpo appeso alla corda sarà il pendolo del tempo dei poeti; Duchamp ha gli occhi di un illusionista che ha appena seriosamente tirato fuori dal cilindro qualche magia ecc.
Noto che la duplicità di Filadoro si manifesta dei tratti dei volti e che veramente essi sono ri-tratti
Vi propongo un gioco: coprite con la mano la metà del volto di Kakfa e osservatelo a lungo. Fate lo stesso con l’altra parte del volto. Noterete come si tratti di due persone diverse. Kafka, ovviamente, annuisce mentre Eleonora apre chiude gli occhi come per attrarre la vostra attenzione. Ci andate vicino e vi rendete conto che dietro le palpebre ci sono due contrappesi di piombo come nelle bambole.
Altrettanto dinamica è la sequenza dei personaggi e le relazioni che vi sono tra loro.
Il periodo storico non è qui significante. Suppongo che Filadoro abbia scelto i personaggi intuitivamente e seguendo il proprio istinto o, magari, scegliendoli tra quelli di cui abbiamo abbastanza testimonianze (sempre la stessa posa) per essere icona. Tuttavia, sotto sotto, le limpide logiche del sogno ad occhi aperti lo influenzano. Si tratta per lo più dell’area culturale franco-tedesca, con prevalenza della mittleuropa in un periodo molto fecondo culturalmente  e, ovviamente, come per i volti, a ogni nome si associano i loro lavori o le loro esperienze. Abbiamo così un ulteriore percorso di senso, come un percorso  è l’aver messo in limine e alla fine della mostra due donne (Salomè, Cvetaeva)
Ai distici degli occhi , al loro eco fanno da pendant, sintetizzandoli in modo folgorante, con lo stile dell’epigramma, quelli di Bruno Di Pietro, vere katabasi all’interno del pensiero fisso delle icone fisse.. La cosa interessante, in termini di funzionamento, è che i versi di Di Pietro (ri) petono La struttura ideologica del lavoro di Filadoro e la ripetono istintivamente, come per un’antica complicità o un comune “saper sentire”. Non solo: l’epigrafe dell’uno è spesso ideale anche per  l’altro giacché ripropongono, in genere, la radice della scissione -oserei dire ontologica- di cui i personaggi sono indagatori e testimoni.
Con esattamente due pennellate Di Pietro trae la direzione e il senso di marcia delle esistenze, sorridendo sornione. E’ lui il merlo che la sa lunga? Certamente è lui che corre  all’albero della vita e batte “31”, che scopre il nascosto dei personaggi.
Vediamo:
Marina, morta suicida, esisterà solo quando verrà il tempo dei poeti.
Freud ha dimenticato di analizzare il sogno ad occhi aperti, quello che regge la psicopatologia del vivere quotidiano.
Magritte  “rimuove” con serenità le nuvole, bianche come il lenzuolo che copre il volto di molti suoi soggetti e come quello  che, bagnato, nascondeva il volto della madre, morta suicida per annegamento.
Proust  non sa di nutrire un complesso edipico letterario nei confronti della zia Elizabeth (la “Ricerche”  inizia proprio con le madaleneinette che la zia inzuppava nel the).
Baudelaire appare ciclopico e solitario tra soli “diversi” (divergenti? di versi?) ai bordi del crepuscolo (il sole giallo cede il posto al sole nero?)(vi prego di memorizzare questa potentissima immagine).
Rilke  rimane dimidiato  sugli incroci (il salire e il cadere della felicità nella X elegia)
Benjamin, guarda  le sue bucce d’arancia (simbolo solare) buttate al confine del tempo  e del senso (l’arte che lascia l’arto dell’artista e finisce nella tecnica seriale).
Ma come faccio a sostenere che il merlo mimetico e diffidente è Di Pietro? Elementare, Watson:
Leggiamo i versi:

la prossima che migri a meridione
sappi che lì le femmine son nere
simili a merla che vive d’incanto
ma sono ghiotte di ciliegie e d’uva
(ti succhieranno l’anima ed il canto)

e leggiamo adesso “Ante - a”, ultimo ma psicologicamente primo

nino berremo la catalanesca
spumosa di giugno all’imbrunire
decantata dal fondo terroso
cicalecciando di bellezze capuane.
Lucio distratto come sempre accorda
senza cavarne suoni la chitarra
e Peppe eternamente polemizza
mentre ci avvolge lattiginosa
la pigrizia delle sere estive
la malia della musica sull’acqua
l’opulenza barocca dei frutti
tanti quanti chicchi ha la granata.
Non ci si addicono codici spartani
ma sabbie lambite dal grecale
in balia della vite e dell’ olivo.
Gonfiando il petto bucheremo il vento
e nel buio inventeremo luce
e di nuovo al risveglio esploderemo
come narcisi in cento corolle.

In ambedue i testi compaiono il canto e l’incanto, la malìa-balia nonché l’opulenza dei frutti, le ciliegie, l’uva, la granata (faccio notare che si tratta di frutti rossi, come lo sfondo dei volti che nel buio si inventa (si inventa, cioè si trova, si fa l’inventario) la luce e che, come nei (ri)tratti, c’è un (ri)sveglio.E aggiungo: il libro si apre con il merlo/merla in contrasto di positivo-negativo. Questo merlo sta sulle spalle di ogni personaggio. Alla fine del libro, c’è una lastra di rame vuota. Come dire: cucù-cucù, tutti erano qui e non ci sono più.
Non so per quali oscuri percorsi -forse per la parola “simile”-  mi viene voglia di inserire un altro personaggio della stessa area culturale, del quale desidero insieme ai miei amici  fare il ritratto. Penso a  George Trakl. Prelevo il testo dal cassetto e lo dedico, qui e ora, a Bruno e Luigi:

a cinque anni camminò in uno stagno fino a scomparire.
galleggiando, il berretto consentì di capire dove s’era acquattato.
lo portarono a riva intontito e felice.
trakl era innamorato di un’acqua malinconica,
di uno scorrere asciutto: ”fino a vent’anni nel mondo esterno
 (il corsivo è mio) non avevo notato nient’altro che acqua”.
lapsus vivente, ibrido  leid-lied,
fu un classico: non-nato che rimane non morto.
concimava silenzi saturnini concentrado  tinture
blu-egizio. sapeva, da buon farmacista,
che il simile col simile si cura.
fu dunque  margherita  una similitudine?
il dio che lo protesse a cinque anni,
colto da timor panico, lo lasciò andare a fondo,
chiamò indietro il suo vento