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Poesia dei Macchiaioli
di Francesca Dini
Introduzione
Nel contesto attuale degli studi avanzatissimi che hanno ad oggetto i
Macchiaioli, studi che fanno tesoro di una letteratura ormai secolare e che
pure trovano ragione e motivo di ulteriori approfondimenti, complici le
numerose iniziative espositive che promuovono nuove occasioni d'incontro con
questo originale movimento pittorico, nonché inediti punti di vista critici,
potrebbe risultare insolito rievocare il titolo di una delle pionieristiche
pubblicazioni di Mario Borgiotti dedicate all'argomento. “Poesia dei
Macchiaioli”, titolo apparentemente semplice di un volume ben noto agli
appassionati e risalente al 1958, coglie l'elemento sorgivo di un'arte che
seppe coniugare realtà e utopia, un'arte che immergendosi nella cruda verità
del proprio tempo seppe tuttavia elevarsi per esprimere i sogni e le
aspirazioni ideali di una generazione di giovani. “L'ispirazione dei
Macchiaioli risponde al profondo moto d'idee e di poesia che dette il
Risorgimento italiano” asserisce del resto Emilio Cecchi; il quale aggiunge
come, rapportando la vicenda del movimento toscano al coevo contesto europeo,
una cosa in particolare stupisca di tali artisti, “la genuinità” del loro
fiorire: “La ispirazione dei macchiaioli proruppe con purezza ed energia
meravigliose, e austerità stilistica da reggere ogni paragone più egregio”1.
Unitamente a tali qualità (purezza, energia, austerità di stile) Cecchi
individuava del movimento toscano l'identità linguistica e culturale ove asseriva
che “già alla morte di Fattori fu rilevata la analogia di certi scorci
paesistici con quelli di Piero della Francesca; indi il rapporto, assai più
stringente, con l'Angelico. Richiami dei quali può anche essere stato abusato,
ma che vivono in pieno significato formale: nella parentela fra la schiettezza
di quegli antichi e di chi, sopra il neoclassicismo, astratto come un nuovo
gotico, ricongiungendosi alla semplicità quattrocentesca, riaffermò la
inesausta felicità della natura paesana”. Tali felici intuizioni, riprese e
approfondite con consapevole maturità dagli studi più recenti, sono
sopravvissute a decenni di inutili bagarre sul presunto provincialismo
dei toscani, su una men che probabile (anche per motivi cronologici) sudditanza
nei confronti dell'impressionismo francese, sulla presunta “non cultura” dei
nostri pittori, evinta forse dalla travisata valutazione della caratterizzante
ingenuità di modi (solo apparente peraltro) nell'approccio di costoro sul vero.
Da qui, proprio dalla “natura paesana” che Cecchi individua come approdo
poetico dei macchiaioli vogliamo oggi ripartire, proponendo un percorso
scientificamente corretto che dopo aver analizzato la complessa genesi della
“macchia” si soffermi poi sulle qualità innovative dei paesaggi di Castiglioncello
e di Piagentina, nei quali l'osservazione della natura, sentita non nella sua
immanenza, bensì garbatamente osservata e indagata nelle sue sottili variazioni
luministiche e atmosferiche, genera una sorta di “poesia del paesaggio
domestico” che da questo momento diviene propria dell'arte dei macchiaioli. Dal
connubio tra arte e vita quotidiana, tra semplicità del vivere ed essenzialità
dei mezzi pittorici, termini entro i quali tali
pittori calibrarono le loro potenzialità espressive, sgorga l'epos, una
nuova dimensione antiretorica e intimamente solenne del Vero. Così nel
salotto della quieta e laboriosa borghesia fiorentina, fra mezzo delle
cucitrici di camicie rosse aleggia un sentimento di struggente partecipazione
alle vicende risorgimentali: un amor patrio assolutamente non declamato, bensì
effuso dalla gestualità rattenuta delle protagoniste, nel muto scambio di
sguardi pudichi, nel silenzio carico di emozione e di attesa. Fuori dal
penetrale domestico la realtà del nuovo Stato italiano offre materia di
riflessioni drammatiche: la sofferenza dei moderni prometei che lungo l'argine
dell'Arno trascinano contro corrente un'imbarcazione, scena che si carica di un
efficace significato di drammatica attualità nel contrasto con la bellezza
naturale e architettonica di Firenze richiamando l'attenzione sui problemi
sociali della neonata nazione; mentre le statuarie canefore ritratte da Fattori
nella verdeggiante campagna livornese, le macchiaiole, propongono un nuovo
obiettivo di bellezza agreste all'arte e alla vita. La tensione etica di
questi anni è destinata ad affievolirsi, mano a mano che la delusione si fa
crescente negli animi di tali artisti, le cui aspettative di giustizia sociale
vengono disattese, mentre nessun sostegno morale ed economico è offerto alla
loro arte. Il diversificarsi delle vicende biografiche dei pittori macchiaioli
mina definitivamente l'unità del movimento, la vita stessa di questa piccola,
originale avanguardia artistica. I tempi impongono un'accezione più “gentile”,
ossia narrativa e descrittiva del Vero e di questo si fanno interpreti dopo il
1870 soprattutto talune figure comprimarie del gruppo toscano, in particolare
Francesco Gioli, Niccolò Cannicci e Egisto Ferroni, cui il percorso espositivo
dedica una sezione, ruotante attorno al ritrovato “Le boscaiole” di Gioli (il
confronto inedito e straordinariamente calzante con “Le Macchiaiole” di Fattori
rende quanto mai esplicito al visitatore il senso della diversità tra “vero
evocato” e “vero narrato”). Le tre sezioni monografiche dedicate poi a Lega,
Signorini, Fattori documentano come i tre grandi maestri macchiaioli seppero
modulare con sensibilità la loro sostanziale fedeltà ai principi del vero,
consegnando di fatto l'eredità dei Macchiaioli al Novecento.
Origine della “macchia”
Il primo tempo della “macchia” si compì al Caffè Michelangiolo. Questo
locale del centro storico di Firenze, all'indomani dei moti rivoluzionari del
1848, era stato prescelto quale luogo di ritrovo da quella parte della gioventù
cittadina che era decisa ad emanciparsi dall'insegnamento accademico. In quei
primi anni che corrispondono all'epoca “semiseria” della sua lunga storia, il
Caffè Michelangiolo era “il ritrovo dei capi ameni, degli eccentrici, dei matti
insomma come ha sempre qualificati i pittori il tranquillo borghese amatore
delle arti” scrive Telemaco Signorini. Ed aggiunge: “difatto le burle di tutti
i generi erano all'ordine del giorno, gli stornelli popolari delle campagne
Toscane cantati con mirabile armonia trattenevano la folla che sotto la
finestra del caffè inondava la strada e framezzo alle nubi del fumo dei sigari
e le gambe levate sulle tavole, vedevi taluno che schizzava da una parte un
gruppo d'amici impegnati in una seria questione, ed un altro che, preso da
mania di robustezza, alzava con un braccio solo diversi marmi dei tavolini
legati insieme (…) e in mezzo a tutto questo, la terribile ironia fiorentina…”2
che metteva a dura prova la tolleranza individuale. In un siffatto ambiente
dove si era disposti a simpatizzare con chiunque, anche straniero, apparisse
“giovane e franco”, si era invece ostili a chi volesse imporre con autorità la
propria supremazia. Dunque tra le cause concomitanti che produssero la maturità
di quella società artistica, ci fu la disponibilità ad accogliere e a far
tesoro di quanti nuovi amici emigravano lì dalle altre regioni creando il
presupposto per nuovi punti di vista e sempre più approfondite riflessioni. La
generazione dei Macchiaioli approdò al Caffè Michelangiolo nel 1855. Signorini
avrebbe ricordato nel corso di poco più di un decennio (tanto sarebbe durata la
leadership macchiaiola nella vita del Caffè) oltre alle presenze più o meno
prolungate di artisti e uomini di cultura stranieri, quali Edouard Manet, Edgar
Degas, James Tissot, Marcellin Desboutin, Georges Lafenestre, legami di
proficua collaborazione con artisti della scuola napoletana quali Domenico
Morelli, Saverio Altamura, i fratelli Palizzi, Federico Maldarelli, Bernardo
Celentano, con i lombardi Eleuterio Pagliano e Giuseppe Bertini; con il romano
Nino Costa e i piemontesi Enrico e Francesco Gamba, Vittorio Avondo, Antonio
Fontanesi, Enrico Reycend, Federico Pastoris, Ernesto Bertea, Lodovico Raymond,
con Alfredo de Andrade e il genovese Niccolò Barabino3.
E' quanto mai vero che la “macchia” ebbe origine da una complicità di intenti
e di avvenimenti misurabile, a posteriori, dalla complessità delle relazioni e
delle esperienze che la società del Michelangiolo seppe alimentare. Ragion per
cui se la coraggiosa proposta inizialmente fu dello storico gruppo toscano
(non dimentichiamo però che di tale gruppo facevano parte integrante Abbati,
napoletano d'origine e veneziano di formazione, il veronese Cabianca e il
veneziano Zandomeneghi) essa fu partecipata alle altre scuole regionali, con il
fine sotteso di raccogliere sotto il vessillo della “macchia” e la bandiera del
“realismo”, un movimento progressista nazionale che fosse espressione del
nascente stato italiano. Mano a mano che tale disegno unitario e progressista
si delineava negli animi degli avventori, cambiava anche il tenore delle
riunioni del Caffè, fino a quel momento improntate alla burla e al disimpegno.
Dopo l'esposizione universale del 1855 la pittura dei maestri di Barbizon
arrivò diffusamente a incidere nelle scelte artistiche dei pittori del
Michelangiolo, attraverso le esemplificazioni che ne veniva dando Serafino De
Tivoli con opere importanti, e attraverso le edotte parole dell'Altamura, dal
momento che entrambi erano reduci dalle sale dell'esposizione parigina.
“Era Altamura - racconta Martelli - una bella figura d'artista meridionale,
barba folta e folti capelli castagno scuro, faccia quadrata leonina, bello lo
sguardo cogitabondo e il sorriso. Parlava a parole tronche e spezzate, come di
chi sappia molto di più di quello che dica, e fra un pezzo di frase e l'altra
bagnava l'estremità delle dita in un bicchiere di acqua gelata e si rinfrescava
la fronte. Fu lui che in modo sibillino ed involuto cominciò a parlare de Ton
gris allora di moda a Parigi, e tutti a bocca aperta ad ascoltarlo prima, ed a
seguirlo poi per la via indicata, aiutandosi con lo specchio nero, che
decolorando il variopinto aspetto della natura permette di afferrare più
prontamente la totalità del chiaroscuro, la macchia”4.
Individuato l'antidoto alla eccessiva levigatezza e alla scarsa consistenza di
tanta pittura accademica, gli artisti del Michelangiolo si dettero anima e
cuore ad applicarlo nei diversi campi d'interesse, ossia il quadro di storia,
il paesaggio, la scena di genere.
Dietro suggerimento del De Tivoli si iniziò a privilegiare la pittura di
paesaggio, avendo constatato direttamente o indirettamente all'Esposizione
Universale di Parigi del 1855 i progressi enormi conseguiti da quello che era
stato sempre ritenuto la cenerentola dei generi pittorici. “Il paesaggio è la
vittoria dell'arte moderna” affermavano Edmond e Jules de Goncourt nel loro
articolo sull'esposizione, aggiungendo : « La Primavera, l'Estate,
l'Autunno, l'Inverno hanno per servitori i più grandi e magnifici talenti, che
stanno per essere sostituiti da una giovane generazione ancora anonima, ma
promessa all'avvenire e degna delle proprie speranze (…) e da questa comunione
sincera sono usciti i nostri capolavori, le tele di Troyon e di Dupré e di
Rousseau e di Français e di Diaz…”5 . Colto l'incipit e
indirizzatisi verso quella “verità del ritrarre” che doveva subito distinguere
i nuovi cultori del paesaggio dalla vecchia scuola dei Markò, di Antonio
Morghen e di Giuseppe Camino, i Macchiaioli per meglio chiarire a se stessi il
senso dell'evoluzione storica del paesaggio moderno, presero a frequentare la
collezione di pittura moderna del Principe Anatolio Demidoff, ricca - tra le
altre cose - dei paesaggi dei maestri di Barbizon. In tali opere possedute dal
nobile russo, i toscani ebbero modo di verificare il tanto decantato “ton-gris”
vale a dire l'uso di un sottofondo monocromo scuro e di una tavolozza minimale
che privilegiando i neri e i bruni consentiva di concentrarsi sui problemi del
chiaroscuro e sul contrasto dei toni; da tali esempi De Tivoli derivava ( si
veda in mostra lo splendido Paesaggio del 1856) anche l'effetto delle
variazioni luminose sulle fronde “bucate” dalla luce tersa che penetra e muove
di uno scintillio dorato il sottobosco o la quieta campagna. La connotazione
locale del paesaggio, già presente nell'inglese John Constable, assumeva nei
pittori francesi nuovo e potente vigore; dall'esempio di tali artisti i toscani
trassero lo spunto per rigettare l'uniformità dei paesaggi costruiti in studio
dalla precedente generazione, confortati in ciò dall'esempio del romano Nino
Costa. Domenico Morelli, le cui protratte permanenze in Firenze trovavano ampia
eco presso la colonia dei fuoriusciti dal Regno Borbonico (colonia che annoverava
lo storico Pasquale Villari e artisti come Altamura e Federico Maldarelli) fu
figura di assoluto riferimento per la società del Michelangiolo. Agli albori
del movimento, infatti, i Macchiaioli temporeggiavano ancora nel genere del
quadro di storia rinnovato secondo i criteri di verosimiglianza introdotti dal
francese Paul Delaroche e importati tra di loro dall'esempio del caposcuola
napoletano. Ripercorrendo le origini della pittura italiana moderna
Zandomeneghi avrebbe scritto:”Tutto il movimento si concentrò interamente sul
Morelli, il quale, dotato di un potente temperamento di giovane pittore e
colpito dalle bellezze della scuola veneziana del XVI secolo in generale e da
Delacroix, forse particolarmente, in quest'epoca si trovò ad avere una superiorità
artistica che tutti questi pittori, o per meglio dire, i giovani pittori gli
riconobbero senza contestazione. (…)Morelli rivelò coi suoi quadri il colore e
la luce che i cattivi insegnamenti accademici del suo tempo avevano fatto
dimenticare…”6. La vicenda dei Macchiaioli infatti parte dal
“colore”, in antitesi con la secolare tradizione accademico-disegnativa dei
fiorentini; il colore che dietro l'esempio di Morelli si viene scoprendo capace
di dare sostanza di verità e dunque, applicato ai soggetti storici e religiosi,
conferisce loro verosimiglianza e pregnanza di contenuti. Il recupero
morelliano della pittura veneziana del 500 è fondamentale e tutt'altro che
scontato se si valuta ad esempio come un Paolo Veronese fosse stato bistrattato
dal Neoclassicismo per la presunta superficialità nella resa storica delle
figurazioni. Ora è estremamente significativo che Zandomeneghi (riportando un
pensiero condiviso con i compagni del Caffè Michelangiolo) abbini tale recupero
all'esempio di Delacroix, tra i primi a riscoprire le potenzialità espressive
del cromatismo del Caliari e la vicinanza spirituale con tale artista.
Delacroix scriveva intorno al 1854 nel “Journal”: “C'è un uomo che riesce a far
chiaro senza violenti contrasti, che dipinge il plein-air, che ci fu
sempre detto esser cosa impossibile: quest'uomo è Paolo Caliari. A mio
giudizio, egli è forse l'unico che abbia saputo cogliere tutto il segreto della
natura. Senza dover imitare esattamente la sua maniera, si può passare per
molte strade sulle quali egli ha collocato fiaccole indicatrici…”7.
Rischiarare alla luce di quelle fiaccole indicatrici i molti fermenti artistici
che turbavano in quel momento le menti e gli animi dei giovani pittori
fiorentini, apparve a taluni di loro una necessità non procrastinabile.
All'alba di un giorno di giugno del 1856, dopo una serata turbolenta trascorsa
al Caffè Michelangiolo, Signorini e D'Ancona furono svegliati dai compagni al
grido di “viva i viaggiatori” e forzosamente accompagnati alla diligenza, una volta
saliti sulla quale furono raggiunti da mazzi di fiori scagliati “graziosamente”
sulle loro teste8. Una volta giunti a Venezia (ove si sarebbero
trattenuti per tre mesi), diversamente dal più anziano D'Ancona, Signorini,
preferì allo studio metodico degli antichi maestri, la ricerca di un percorso
emozionale che doveva confortare la sua idea della “macchia”, quale egli veniva
dentro di sé elaborando. Colto e sagace, il Signorini cercava conferme sulle
potenzialità di quel colorire alla prima e dal vero che Giorgio Vasari
denominava “macchiare”, attribuendo quella pratica a Tiziano. La pratica del macchiare
in quanto stadio intermedio di esecuzione pittorica era ben nota del resto ai
giovanissimi pittori del Caffè Michelangiolo. Quello che Signorini acquisisce
durante il soggiorno a Venezia del ‘56 è la duplice certezza che la macchia
possa essere lo strumento per ottenere una presa efficace e rapida sulla realtà
contemporanea e che quest'ultima debba essere il solo repertorio del pittore
moderno. E' ben presente in Telemaco la necessità di aprire un nuovo dialogo
con la natura e la realtà della vita contemporanea, seguendo quell'intima
istanza di verità e di sincerità che la filosofia positivista veniva affermando
come qualità precipua dell'artista moderno. Sappiamo del resto come Telemaco si
fosse a quest'altezza appassionato alla lettura di Proudhon9 e
come il contatto con quelli che egli definisce altrove “maestri macchiaioli
dell'antichità”, produca una vera e propria “metamorfosi” del giovane artista
alla luce di quelle che egli qualificava come vere e proprie “rivelazioni
artistiche”. Si capisce dunque come da tutto questo derivi un punto diverso di
osservare la pittura dei grandi maestri del passato; diverso certamente da
quello dell'amico di Signorini, l'inglese Frederic Leighton (anch'egli a
Venezia dove aveva portato a termine il grande quadro La processione della
Madonna di Cimabue). Non la ricostruzione “in vitro” di un passato idealizzato,
tendenza che sarà propria della scuola preraffaellita; bensì il recupero
analogico di quello stesso passato col “sentimento umano” del presente,
atteggiamento caratterizzante il rapporto nuovo e fondamentale instaurato dai
Macchiaioli con la pittura del Rinascimento. Nella città lagunare Telemaco
conobbe tra gli altri il poeta Aleardo Aleardi, che, professore all'Accademia
di Belle Arti di Firenze dal 1863, alcuni anni più tardi sarebbe stato autore
di uno scritto su Paolo Veronese definito - in evidente sintonia con il punto
di vista dei suoi amici del Caffè Michelangiolo - “il primo che si sentisse il
coraggio di presentare le sue figure all'aria aperta, davanti la faccia del
sole modellando con la luce…”10. Nacquero allora quelle tremule
vedute architettoniche della città, ben note per essere il punto di partenza
della vicenda dei Macchiaioli. Il Ponte della Pazienza mostra la viva luce del
giorno irrompere sulla scena, come da uno squarcio apertosi in un finto cielo
di tela e irrorare di se la scura abside gotica della veneziana Chiesa dei
Carmini che s'innalza tremante di plastico vigore contro il cielo. “Cos'era la
macchia? era la solidità dei corpi di fronte alla luce”11, avrebbe
scritto del resto l'anziano Fattori, rievocando i tempi della rivoluzione
artistica di cui era stato uno protagonisti. Sin da questo suo primo soggiorno
veneziano Telemaco produsse opere caratterizzate da violenti effetti di
“macchia”, cercando in seguito (con la complicità degli amici Banti e
Cabianca) l'effetto nelle scene di vita comune, fossero essi dei bimbi seduti
in terra a La Spezia, oppure il variopinto merciaio che si aggira nella stessa
località, prediletta per la tersa luce marina capace di ombre taglienti e di
contrasti decisi. La determinazione dei “progressisti” poggiava inoltre sulle
risultanze scientifiche (rese pubbliche nel 1857 quando il saggio “L'optique et
la peinture comparve su “Revue des deux Mondes”) degli studi del professor
Jules Jamin12, secondo il quale la pittura, basandosi su
convenzioni, poteva esprimersi solo per analogia nel rapporto con il Vero.
Dunque la macchia fu innanzi tutto una convenzione; una convenzione che
consentiva l'immediatezza nel rapporto con il vero, negato invece dalle lunghe
elaborazioni formali care alla precedente generazione accademica. A tale
tecnica che faceva parte del bagaglio culturale derivato loro dagli studi
accademici e dalla dimestichezza con il genere aulico con il quale quasi tutti
inizialmente si vennero cimentando, Signorini e i Macchiaioli davano dunque un
valore e un significato del tutto nuovi: essa divenne non più uno stadio
intermedio di esecuzione pittorica, bensì lo strumento per ottenere una presa
efficace e rapida sulla realtà contemporanea, nonché il fine poetico della
ricerca artistica. Ma l'opera di Signorini, tecnicamente rivoluzionaria, stava
anche a dimostrare la necessità di attualizzare i contenuti e che questo era
quanto di più connaturato alla “macchia”, strumento che sin dall'antico era
prediletto per le sintesi dal vero. A proposito del diciottenne Tiziano, Vasari
scrive come il Vecellio, per influenza di Giorgione, usasse “di cacciarsi
avanti le cose vive, e naturali, e di contraffarle quanto sapeva il meglio coi
colori, e macchiarle con le tinte crude, e dolci, secondo che il vivo mostrava
senza far disegno: tenendo per fermo che il dipingere solo con i colori stessi,
senz'altro studio di disegnare su carta, fusse il vero, e miglior modo di fare,
ed il vero disegno…”13. Suggerimenti in tale direzione si potevano
dunque trarre da molti pittori del passato che da Masaccio a Piero della Francesca
a Domenico Ghirlandajo avevano tratto ispirazione dalla vita loro
contemporanea. Dunque con la macchia, i toscani inaugurano un nuovo modo
di rapportarsi all'antico. Il vento del 1859 soffiò a favore di quei giovani
pittori e uomini; l'urgenza di adeguare l'espressione artistica alle esigenze
culturali e sociali di una realtà storica in rapida evoluzione venne
rafforzando la posizione di Signorini in seno alla società del Michelangiolo.
L'esperienza della guerra indusse in quei giovani un diverso modo di porsi di
fronte alla realtà: la mera contemplazione delle bellezze naturali, per quanto
rese con veridicità in pittura, lasciava il passo alla volontà di incidere sul
mondo esterno, di cogliere le più intime aspirazioni della società contemporanea
e tradurle in pittura. “L'artista, dunque, continua l'opera della natura
producendo a sua volta delle immagini sul modello di determinati suoi ideali,
che egli desidera comunicarci”, sostiene il Proudhon. Ed aggiunge: “…il
continuatore della natura, l'artista, si trova pienamente immerso nelle
attività umane, il cui sviluppo in tutti i sensi, scientifico, industriale,
economico, politico, può definirsi una continuazione dell'opera creatrice. (…).
l'artista è chiamato alla creazione del mondo sociale, continuazione del mondo
naturale”14. Questa legittimazione da parte della filosofia
positivista di Proudhon che ebbe in Signorini uno dei primi ed entusiastici
seguaci, doveva favorire la piena consapevolezza da parte dei Macchiaioli, di
quelli che sarebbero divenuti i comuni obbiettivi. Primo fra tutti aprire un
nuovo dialogo con la natura e la realtà della vita contemporanea, seguendo
quell'intima istanza di verità e di sincerità che la filosofia positivista
veniva affermando come qualità precipua dell'artista moderno.
La nuova estetica
“Già da tempo si parla fra gli artisti di una nuova scuola che si è
formata, e che è stata chiamata dei Macchiajoli. La pittura macchiajola ha
fatto più volte la sua comparsa nelle Esposizioni della Società Promotrice,
anche in quest'anno vi figura abbondantemente. Ma, dirà il lettore, se non è un
artista, ma che cosa sono questi macchiajoli? (…) Son giovani artisti ad alcuni
dei quali si avrebbe torto negando un forte ingegno, ma che si son messi in
testa di riformar l'arte, partendosi dal principio che l'effetto è tutto. Vi
siete mai ritrovati a sentire qualcuno che vi presenti la sua scatola di
tabacco di barba di scopa, e che nelle vene e nelle macchie svariate del legno
pretenda di riconoscervi una testina, un omino, un cavallino? E la testina,
l'omino, il cavallino, c'è di fatto in quelle macchie… basta immaginarselo.
Così è dei dettagli nei quadri dei macchiajoli. Nelle teste delle loro figure
voi cercate il naso, la bocca, gli occhi e le altre parti: voi ci vedete delle
macchie senza forma. (…) che l'effetto debba uccidere il disegno, fin la forma,
questo è troppo…”15. In questa recensione comparsa su “la Gazzetta
del popolo” di Firenze il 3 novembre 1862, per la prima volta si faceva uso del
termine “Macchiaioli” per indicare con malcelata ironia il gruppo dei pittori
“progressisti” toscani. Il termine aveva in sé un malizioso doppio senso,
poiché far cose “alla macchia” significava agire furtivamente e illegalmente;
la sfumatura ridicola del termine si accresceva poi con l'allusione implicita
alle macchie d'inchiostro con cui i bambini sono soliti imbrattare i loro
fogli, allusione che pare fosse spontaneamente indotta nel pubblico,
impreparato di fronte alle opere “minimaliste” di tali pittori. Telemaco
Signorini, Serafino De Tivoli, Odoardo Borrani, Vincenzo Cabianca, Cristiano
Banti Giovanni Fattori, Giuseppe Abbati, Vito D'Ancona, Adriano Cecioni,
Federico Zandomeneghi, Raffaello Sernesi, Silvestro Lega raccolsero la sfida e
non esitarono a fregiarsi di quel nome.
L'invenzione della “macchia”, la cui complessa natura abbiamo fin qui cercato
di svelare, distingue decisamente la ricerca dei macchiaioli rispetto ai
precedenti francesi dai quali pure in parte si era originata. Tuttavia lo
stesso Signorini, rispondendo all'articolista anonimo della Gazzetta, affermava
esser la “macchia” “idea incompleta, ma feconda”, “prima orma segnata dalla
giovane arte nella nuova palestra che le si apriva dinanzi”16,
superata dalle nuove prospettive spalancatesi frattanto alla ricerca dei
toscani. Notoriamente la storiografia ha sempre indicato nel 1861 il discrimen
tra primo e secondo tempo della vicenda di questo movimento artistico.
Che cosa era successo? Il coinvolgimento di quei giovani nella Seconda Guerra
d'Indipendenza, la sollevazione popolare del 27 aprile del 1859 che
pacificamente aveva liberato Firenze e la Toscana dalla dominazione dei Lorena,
la conseguente, spontanea annessione al Piemonte, esaltò gli animi, commosse
i cuori, originò la forte tensione morale ed etica dello spirito che ora
attendeva, ora vedeva in parte compiersi il disegno dell'indipendenza e
dell'unità del proprio paese. Ma non è tutto. Non può essere tutto, poiché la
pittura macchiaiola, sebbene contestualizzatasi in un dato clima storico e
politico, attinge a una sorgente più profonda che sta ben oltre il patriottismo
nazionalista ottocentesco: la sorgente dei valori universali dell'Uomo.
Da qui ha origine la poesia dei Macchiaioli; quella poesia che scaturisce
dall'amore per la vita, per la libertà, per la giustizia, intesa quest'ultima
nel senso più ampio del termine. “Ogni secolo ha il suo compito di civiltà da
fornire” argomentava Signorini e questo anelito a valori assoluti, scaturisce
finanche dalle opere apparentemente più ingenue e contemplative del Sernesi e
del Borrani, da quei minuscoli frammenti di natura amica nel quale l'artista
misura il suo quotidiano dialogo con il Vero. Un Vero di cui il Positivismo,
con le sue scoperte scientifiche, andava dimostrando la perfetta
conoscibilità, classificandone le apparenze visibili, decodificandone i
principi fisici, ma che i Macchiaioli sentirono e resero pittoricamente
soprattutto nei suoi valori di Civiltà.
Un nuovo concetto di Realtà si era venuto infatti affermando: esso stava a
indicare non più soltanto l'apparenza immediatamente percettibile del mondo,
bensì la sua complessità naturale e sociale; dunque il “realismo” in pittura
non si misurava più semplicemente nella capacità di mimesi del dato naturale
(in base a questa idea si poteva parlare di vari realismi ricorrenti nella
storia dell'arte, oltre a quello per eccellenza del Caravaggio), bensì nella
capacità di restituire “attraverso la Forma”, “lo spirito” di una società e di
un'epoca. “La pittura è una parte della coscienza sociale, un frammento di
specchio nel quale le generazioni di volta in volta si contemplano” affermava
Jules Castagnary17. Dunque il Realismo storico ottocentesco si
basava da un lato sulla convinzione della perfetta conoscibilità del mondo
esterno; dall'altro sulla decisa valorizzazione della componente individuale e
soggettiva attraverso la quale tale processo conoscitivo poteva avvenire.
Questa seconda componente ne chiamava una terza, la sincerità, principio
che presupponeva il senso etico dell'artista, chiamato ad un ruolo civico ed
operativo di testimonianza della propria epoca e del “sentimento” che la anima.
L'artista, in quanto individuo la cui interiorità è il risultato del confluire
in essa dei processi evolutivi della sua specie e della sua storia sociale, soltanto
se si esprime con genuinità potrà contribuire alla conoscenza del mondo
contemporaneo. “Io ho voluto semplicemente ricercare nell' intera conoscenza
della tradizione il sentimento ragionato ed indipendente della mia propria
individualità. Sapere per potere, questo fu il mio pensiero. Essere in grado di
tradurre i costumi, le idee, l'aspetto della mia epoca secondo il mio
apprezzamento, essere non solo un pittore, ma anche un uomo, in una parola,
fare dell'arte viva, questo è il mio fine”, dichiarava Courbet nel manifesto
del Realismo, premesso alla esposizione del 185518. Ne derivava la
necessità di essere del proprio tempo, troncando di fatto con la pittura
storica dei romantici. Di qui il bisogno di un'esperienza diretta della realtà
che valorizzasse la Natura nei suoi aspetti anche più reconditi e modesti;
nonché l'Uomo nelle sue funzioni sociali anche le più umili.
L'apertura al realismo matura all'interno del movimento toscano attraverso una
complessità di letture e di rapporti che contemplano l'entusiasmo di Signorini
per i romanzi di Victor Hugo e per il pensiero politico e filosofico di
Pierre-Joseph Proudhon, di Abbati per Hippolyte Taine e per i filosofi
materialisti, di Martelli per l'evoluzionismo di Herbert Spencer e per
Proudhon.
Gli scritti teorici che supportarono il Realismo di Courbet videro del resto la
luce in quegli anni: nel 1856 Edmond Duranty fondava la rivista “Realisme” che
nei suoi sei soli numeri dette tuttavia un importante sostegno alla posizione
di Courbet; nel 1857 Champfleury dava alle stampe il libro “Le realisme”,
mentre nel 1862 Jules Castagnary coniava il termine “naturalismo” destinato a
sostituirsi a poco a poco a “realismo”, partendo dal campo della letteratura
che lo presceglierà come più adatto a esprimere l'idea positivista di un'arte
che si rinnova progressivamente attraverso la scienza e la democrazia. Questo
fervore di idee che in campo letterario ha un inizio nella “Comédie humaine” di
Balzac, estendendosi poi a Flaubert, a Victor Hugo, a Emile Zola, è corroborato
dalle scoperte scientifiche e da nuovi concetti filosofici. Nel 1859 Darwin
formula la sua teoria sull'origine della specie, mentre nel 1862 Herbert
Spencer dà alle stampe i “Primi principi” fondamentale testo dell'evoluzionismo
ossia del pensiero filosofico che vede nel progresso e nell'evoluzione il
principio fondamentale del cosmo. Nel 1866 Hippolyte Taine pubblica “La
Philosophie de l'Art”, ma il determinismo del suo pensiero è stato in parte già
divulgato dagli articoli della “Revue des deux mondes”, di cui è collaboratore
(rivista letta dai Nostri) e da un suo precedente scritto dedicato ai filosofi
francesi del diciannovesimo secolo (1857), considerato uno dei manifesti del
Positivismo: l'arte secondo Taine interpreta le cose e ne esprime il senso,
essa scopre e rende visibile quel tratto veramente caratteristico che è nelle
cose; l'opera d'arte si produce secondo condizioni precise e leggi fisse che
rispondono ai principi dominanti dell'ambiente, della razza e dell'eredità.
Taine fu a Firenze nell'aprile del 1864, nel corso del suo viaggio per l'Italia
intrapreso per verificare sull'arte antica i principi del suo determinismo
filosofico, paragonava significativamente la vivacità culturale della Firenze
contemporanea a quella di Atene antica. Ricorrono, inoltre, nella
corrispondenza dei Macchiaioli i riferimenti al “Moniteur”, e soprattutto alla
“Revue des deux mondes”, prestigiosa rivista bimensile indipendente e
progressista che annoverara firme prestigiose come Sainte-Beuve, Jules Michelet,
Charles Baudelaire, Victor Hugo, Taine, George Sand, Alexis De Tocqueville, Eugène Delacroix, Maxime du Camp, Alexandre
Dumas, Théophile Gautier. Fu proprio una rivista la “Revue
contemporaine” ad accogliere dal 31 ottobre al 15 dicembre 1865 la prima biografia
di Proudhon, redatta da Sainte-Beuve e corredata dalle lettere del pensatore da
poco defunto. A quello stesso anno risale la pubblicazione postuma del “Du
principe de l'art et de sa destination sociale”, libro la cui prima edizione fu
posseduta sia da Martelli, che da Signorini19. A questo testo, parte
infinitesimale della sua vasta opera, Proudhon mise mano nel 1863 e presto
apparve per quello che era, l'esposizione, ragionata dialetticamente, dei
principi del Realismo. L'autore, mal celando la sua profonda stima per Courbet,
a cui era legato sin dalla giovinezza, pure si sforzava di imbastire una sorta
di contraddittorio, esponendo le opinioni diverse dalle sue e ribattendole
punto punto in lunghe dissertazioni; attraversando in successione cronologica
le diverse epoche della storia dell'arte, di ognuna individuava il carattere
precipuo, per poi addentrarsi con maggiore ampiezza nel panorama della pittura
ottocentesca e concludere con l'esame delle principali opere di Courbet. Di
fatto, dunque, Proudhon colmava una lacuna, dal momento che i principi della
nuova scuola erano stati diffusi in maniera asistematica.
I Macchiaioli dovettero molto a questo testo. Non che essi ignorassero il
realismo di Courbet prima di questo scritto; ma piuttosto perché Proudhon
rappresentò un canale privilegiato in ragione della sintonia profonda che
taluni dei Nostri avevano già da tempo instaurato con il pensiero politico del
francese, fautore di un socialismo utopico dal carattere fortemente umanitario,
venato di anarchismo.
E' noto infatti come la riflessione sugli scritti di Proudhon facesse maturare
in Martelli, Abbati, Signorini, il graduale distacco dalle idee mazziniane,
favorito anche dal diffondersi delle teorie positiviste che permeavano gli
scritti di Edgar Quinet, Jules Michelet, Saint-Simon, Auguste Comte, autori,
peraltro frequentati anche da Giosuè Carducci (la cui amicizia con Martelli è
ben nota), come dimostrano la ricca biblioteca di Casa Carducci a Bologna
nonché l'epistolario del poeta.
Era opinione del Proudhon che il principio della nazionalità fosse una
minaccia per la pace e l'avvenire dell'Europa e di qui ebbe origine la
polemica con Mazzini: le nazionalità, secondo il francese, avrebbero fatto
passare in seconda linea la questione sociale.
Dunque meditando nel cuore queste antitetiche valutazioni i Nostri artisti
erano andati incontro alla guerra d'indipendenza del '59 come a un'occasione di
rinnovamento, purificatrice dei mali della società passata, foriera di un
miglioramento sociale ed economico. Ma già nel settembre 1861 il IX Congresso
degli Operai, caldeggiato da Mazzini, che vedrà la partecipazione di 124
società operaie, fra le quali la “Fratellanza artigiana” di Beppe Dolfi di cui
Diego Martelli era affiliato, avrà all'ordine del giorno i problemi del lavoro
e del salario, dimostrando palesemente come la questione sociale non avrebbe
trovato nell'unità nazionale automatica soluzione.
Tale questione fu dai nostri artisti messa al pari dell'indipendenza nazionale
e la mancata attuazione delle riforme sociali, verificata negli anni a seguire,
fu da tutta quella generazione che aveva offerto la propria vita per la patria,
intesa come un vero e proprio tradimento di valori. Per questo motivo molti di
loro rimasero lungamente sensibili al socialismo utopico di Proudhon, ai temi
della libertà e dell'uguaglianza sociale; ne è prova la circostanza che ancora
nel 1884, Martelli si definiva pubblicamente “partigiano delle dottrine
economiche del Proudhon e delle filosofiche di Giuseppe Ferrari”20
sfiorando, con esiti disastrosi per la sua attività politica, i temi scottanti
della proprietà e del principio di autorità.
E ancor più commuove la testimonianza del critico relativamente all'amico
fraterno, Beppe Abbati: “Pensatore e povero amava i poveri e i pensatori.
Proudhon era uno dei suoi amici del cuore; il libro della giustizia rispondeva
ad ogni sua aspirazione e quando Proudhon morì a Parigi Abbati ne pianse in
segreto. Si vedeva tradito dalla morte nel desiderio di stringergli forte un
giorno la mano. Avrebbe fatto per l'amicizia di Ferrari quello che non fece mai
per procurarsi il desinare…”21.
Era stato sicuramente apprezzato dai nostri artisti l'interesse del francese
per la causa dell'unità italiana, manifestato in quel 1862 che vide il primo
soggiorno di Martelli a Parigi. Già in settembre, a Castiglioncello con Abbati,
poteva leggere sul “Moniteur” gli echi della questione sollevata dal Proudhon,
esule in Belgio, con l'articolo “Garibaldi et l'Unité italienne” affidato alla
stampa del paese che lo ospitava. L'idea era quella di un'eguaglianza economica
vista in funzione della libertà politica e il “federalismo” in seno e al di
sopra dei singoli stati; ciò solo, secondo Proudhon poteva garantire il
miglioramento delle condizioni sociali. Affrontando più estesamente l'argomento
nello scritto “La Fédération et l'Unité en Italie “egli dichiarava:
“Non ho mai creduto all'unità dell'Italia; sia dal punto di vista dei principi
che da quello della pratica e degli accordi, l'ho sempre respinta; potrei
citare a sostegno della mia opinione gli uomini più rispettabili e più
intelligenti d'Italia: il tanto rimpianto Montanelli; Ferrari, lo storico
erudito e l'eccellente generale Ulloa che metto nel novero dei miei amici…”22.
Il nome di Giuseppe Ferrari, il peso del suo pensiero politico e filosofico
sul consolidarsi delle idealità del gruppo toscano è innegabile e attende solo
di essere approfondito. Come abbiamo avuto modo in altra circostanza di
rilevare,23 sin dal 1848 Ferrari aveva frequentato a Parigi Proudhon
e la sua cerchia, incontrando anche Courbet. La sua posizione, alternativa al
mazzinianesimo e orientata verso una prospettiva “socialista” del Risorgimento,
non risultò vincente, pure segnò profondamente le idealità dei nostri pittori.
Fra mezzo agli appunti manoscritti di Martelli, conservati alla Biblioteca
Marucelliana di Firenze, relativamente alla personalità di Abbati si trova
scritto: “Proudhon - Giuseppe Ferrari a Firenze”24, la qual cosa
parrebbe indicare una particolare vicinanza scaturita subito dopo l'arrivo del
napoletano a Firenze, ossia dopo il mese di dicembre del 1860.
Per questo abbiamo in altra sede parlato di un approdo “ideologico” dei
Macchiaioli al Realismo. Tecnicamente, infatti, l'invenzione della “macchia”
pose subitaneamente i Toscani su tali posizioni di progresso da far apparire
“antica” la stessa pittura di Courbet, quanto meno quella di quadri
rivoluzionari come “Gli spaccapietre” e “Funerale a Ornans”. Rapportandosi
“analogicamente” all'opera del caposcuola francese, i Macchiaioli, ne
apprezzarono invece i principi estetici che frattanto avevano trovato
formulazione teorica nell'unico scritto di Proudhon sull'argomento, il “Du
principe de l'art” appunto, avidamente letto e fatto proprio da taluni esponenti
del gruppo toscano, quali Signorini e Martelli, mentre, per quanto riguarda
Abbati, siamo in grado di cogliere, come vedremo, una qualche riserva.
Ma se è difficile disgiungere la riflessione sulle qualità formali di un'arte
innovativa quale fu quella dei Macchiaioli dal contesto politico, dalle lotte
risorgimentali nei quali quei pittori furono personalmente coinvolti, dalla
forte tensione etica dei loro animi tesi alla realizzazione di un sogno,
l'Italia unita e una società di valori, un mondo migliore insomma; così non
possiamo dare un significato occasionale all'avvicendamento di Signorini a De
Tivoli nella leadership del gruppo, occorsa nel 1863. Il libero fluire dei
principi del realismo all'interno del gruppo toscano era ostacolato da quanti,
per motivi generazionali, o artistici, o anche politici (essendo Proudhon uno
dei veicoli di questa infiltrazione) non condivideva le posizioni di Signorini
e Martelli.
Due lettere di Martelli a Gustavo Uzielli, allora studente alla Sorbona, ci
ragguagliano sul clima di accesa discussione che caratterizzò a quell'altezza
le discussioni al Caffè Michelangiolo. In primo luogo ci fu la discussione
relativa alla creazione di un giornale che esprimesse gli orientamenti del
gruppo, ma l'idea decadde miseramente sotto gli strali di quanti ritenevano
giusto “non aver principi” e dunque erano a favore di un “non schieramento” del
gruppo toscano. La seconda missiva di Martelli narra invece della violenta
diatriba che sorse tra Signorini e De Tivoli e che, come abbiamo già in altra
circostanza indicato, segna un passaggio importante nella storia dei
Macchiaioli. "(...) nella questione che ebbe con Signorini aveva torto il
Tivoli però anche il Signorini non è nulla di buono. Ora ti dirò la questione
che se ti secca puoi saltare a piè pari. Tivoli Napoleonista per la pelle
dicendo che esso è il più grande socialista del tempo. Signorini ostenta o ha
le massime più spinte di Proudhon ed esagerando al solito tutto quello che fa
alla proporzione dei suoi cappelli non parlava che di Proudhon aveva un libro
di Proudhon in tasca che non leggeva mai ecc. queste cose indispettivano Tivoli
il quale per tempo era stato l'oracolo con Vito D'Ancona di questa società dove
esso teneva il primato per cui una sera che Signorini venne al Caffè portando
seco una caricatura di Proudhon fatta contro di lui nel Belgio e che il
medesimo aveva per caso trovata su di un banchetto avvenne la catastrofe.
Signorini entra con caricatura in mano e la fa vedere a qualche amico senza
darli nessuna importanza e facendone solo notare la grazia del disegno e
parlandone come cosa d'arte, Tivoli che non apparteneva allora a codesto gruppo
domanda cosa c'era da vedere e saputo il soggetto della sua curiosità, comincia
a dire tutto stizzito che d'un imbecille come Proudhon, non era più lecito alla
gente di buon senso occuparsi che non lo leggevano che gli imbecilli che
altrimenti nessuno si sarebbe occupato di lui, Signorini rispondeva a Tivoli
che a lui pareva invece scrittore assai serio quando Tivoli di rimando attacca
Signorini personalmente dicendogli siamo stufi delle tue superiorità ci hai
rotto... cosa credi darci ad intendere e allora Signorini tira cicca muso
Tivoli, Tivoli risponde bicchiere, Signorini altro bicchiere tableaux finale,
separazione dei combattenti e dopo poco tempo sparizione del Tivoli di cui
corse fama fosse a Parigi ma che non disse a nessuno addio”25.
Quanti ritenevano di aver raggiunto con il conseguimento della “macchia”
l'obbiettivo di un'arte nuova, furono scalzati dalla verve signoriniana e da
coloro che giudicavano necessaria una configurazione ideologico-estetica del
movimento macchiaiolo.
Alla visione sostanzialmente bucolica dei pittori di Barbizon, faceva da contro
altare la profonda umanità delle figure courbettiane, colte nella realtà di cui
il pittore aveva diretta esperienza, ossia quella dei luoghi natii, ed
osservate senza apriorismi idealistici, Analogamente al Courbet i nostri
artisti ritennero dunque di doversi immergere nella realtà del mondo
contemporaneo, borghese o rurale che fosse e farsi espressione del sentimento
della propria epoca. Predilessero dunque la campagna Toscana nelle sue diverse
declinazioni, affascinati ora dal paesaggio assolato e forte di
Castiglioncello, ora dalla quiete domestica della semiurbana Piagentina. Tanto
più la loro esigenza di rinnovamento del mezzo tecnico ed espressivo li portava
ad affinare lo strumento efficace della “macchia” nelle sue straordinarie
potenzialità di sintesi e di presa sul vero, tanto più si appassionavano ai problemi
della luce; così che, senza tradire la finalità sentita primaria di una
destinazione sociale dell'arte, essi cercavano nella realtà circostante il motivo
che accendesse la fantasia poetica: un effetto di luce-ombra in un angolo di
campagna, il controluce di un portico che si apre sulla campagna assolata, il
bianco di un bucato steso al sole. Questo modo di condurre la ricerca pittorica
rispondeva al concetto di “sentimento” che Proudhon definisce “una vibrazione o
una risonanza dell'anima nei riguardi dell'aspetto di certe cose o piuttosto di
certe apparenze reputate belle od orribili, sublimi o ignobili” attribuendo a
questo principio il valore di causa prima dell'arte26; nella facoltà
di percepire “un sentimento dentro una forma”, cioè “di essere allegri o
tristi alla semplice vista di un'immagine” il francese faceva risiedere la
forza d'invenzione dell'artista. Con la stessa oggettività di analisi i
Nostri artisti ora si applicavano ad un frammento microscopico, apparentemente
insignificante del vero, ora appuntavano i loro studi su un più complesso
soggetto ispirato loro dalla società contemporanea: i moderni prometei che
issano contro corrente, lungo l'Arno un'imbarcazione, un carro rosso
abbandonato al tramonto in mezzo alla campagna arida di Castiglioncello. Poiché
“verità” è andare “in cerca del vero, del grandioso, del terribile” nel
convincimento che possa “esistere un altro genere di poesia ed una realtà degna
di essere riprodotta anche dove l'antica scuola si arrestava per tema di cadere
nell'orrore e nella bruttezza”27.
Champfleury notava giustamente come, particolarmente nei paesaggi, Courbet
dimostrasse il suo legame con la terra natale, e Proudhon ribadiva come da
questo vincolo il pittore traesse la sua straordinaria potenza. Poiché l'artista
non è fatto per rendere un'idea universale del paesaggio o dell'uomo, bensì
“per esprimere un'idea, una forma che generalmente è quella del proprio paese e
dei propri contemporanei”. E' questo in buona sostanza quello che i Macchiaioli
sintetizzeranno con il termine “carattere”: evidenziare la qualità peculiare
del soggetto raffigurato - la “tinta locale” e caratteristica di un luogo, la
particolarità di una fisionomia - e far sì che ogni elemento compositivo,
formale, cromatico concorra armoniosamente alla sua resa pittorica.
Castiglioncello e Piagentina
La “nuova estetica” nasce sullo sfondo di radicali rivolgimenti politici e
ideali nei quali i Macchiaioli sono coinvolti. Signorini scrive dalle pagine
della “Nuova Europa”, giornale che sin dal 1861, anno della sua fondazione, era
espressione dell'ala garibaldina dello schieramento democratico. Fondato da
Beppe Dolfi, con i finanziamenti procurati da Agostino Bertani, il giornale
ebbe la direzione di Antonio Martinati, Giuseppe Mazzoni e Giuseppe Montanelli
e fu strettamente collegato all'operato della Fratellanza Artigiana,
associazione presieduta da Beppe Dolfi. Il noto fornaio e capopopolo
fiorentino, amico di Giuseppe Mazzini, di Francesco Domenico Guerrazzi, e del
Marchese Ferdinando Bartolommei, aveva svolto una fondamentale funzione di
raccordo tra le forze democratico-popolari e quelle aristocratico-liberali del
capoluogo toscano nell'imminenza degli avvenimenti del 1859; egli era stato
assiduo frequentatore del Caffè Michelangiolo tanto che Borrani ne avrebbe
eseguito il ritratto a matita (“ho fatto diversi disegni fra i quali il
ritratto del povero amico Dolfi”28, scriveva a Martelli il 14 agosto
1869). Avendo constatato dopo il 1860, il prevalere nelle questioni politiche
dell'indirizzo monarchico moderato, Dolfi volse il suo operato di fervente
repubblicano alla soluzione degli enormi problemi sociali. Promosse dunque la
creazione della Fratellanza Artigiana, struttura corporativa attraverso la
quale affrontare i temi scottanti del riscatto sociale, della formazione anche
intellettuale dei cittadini, del suffragio universale. In questo ambito si
muovono i Macchiaioli, impegnati nella costituzione di una Nuova Società
Promotrice, in grado di promuovere con lungimiranza la nuova pittura. Ed è
ancora in quest'ambito che vede la luce il noto capolavoro di Signorini,
“L'alzaja”, quadro dalle evidenti implicazioni sociali non a caso dunque
prontamente acquistato dai Soci della Fratellanza stessa.
A questi avvenimenti di storia patria, peraltro vissuti e partecipati dai
Nostri, s'intercalano quelli altrettanto importanti della biografia artistica.
La maturazione del movimento pittorico toscano passa attraverso circostanze
quanto mai note che vanno dal rigetto in sede di esposizione pubblica dei
quadri veneziani di Signorini “per eccessiva violenza di chiaroscuro”29,
agli studi di Telemaco, Banti e Cabianca in Liguria (1858-1859); dalle visite
della “gioventù ribelle”30 del caffè Michelangiolo allo studio
fiorentino di Nino Costa, dopo il 1859, per ottenere conforto alle ricerche del
gruppo, oramai per lo più determinate ad indagare le potenzialità espressive
della pittura di paesaggio, alla conversione alla “macchia” del restio
Fattori, ad opera dello stesso Costa; dall'arrivo di Giuseppe Abbati a Firenze
(dicembre 1860) al soggiorno parigino di Signorini, Banti e Cabianca, in visita
agli studi di Camille Corot e di Costant Troyon (giugno 1861), alla Prima
Esposizione Nazionale di Firenze (settembre 1861). Quest'ultimo avvenimento segnò
il trionfo della pittura di storia di Domenico Morelli e della scuola
napoletana, e con essi del quadro storico rinnovato secondo i principi della
veridicità e della concentrazione drammatica; ma fu proprio a questo punto che
la scuola toscana concordemente quanto coraggiosamente, attuò la netta virata
verso un percorso ardito e originale, diversificando i propri obbiettivi da
quelli condivisi sino ad allora con i compagni meridionali. Fu come girare le
spalle al successo appena guadagnato, un atteggiamento imprevedibile che può
trovare spiegazione però nelle parole con cui Diego Martelli motivava la
decisione di Abbati di ricusare la medaglia dell'Esposizione: “Egli aveva
seriamente meditato sull'indirizzo che l'arte accennava di prendere. Si era
accorto di appartenere anche troppo alla antica e convenzionale maniera del
dipingere e tutto si dette a rinnovare se stesso per intima e grande
soddisfazione dell'animo suo. Così invece di profittare della posizione
conquistata di internista celebrato egli pensò meglio di cominciare a studiare
all'aperto, inquantoché l'abitudine di copiare ambienti chiusi murati li negava
quella elasticità di forme e di modi che viene dallo studio di cose animate e
vive…”31.
Con i fatti narrati per sommi capi abbiamo guadagnato il discrimen tra
i due tempi della “macchia”, quell'anno 1861 che apre al decennio aureo, alla
stagione della pienezza espressiva in cui i grandi temi della poetica dei
nostri artisti, prima dibattuti ed esternati, rifluiscono nell'animo, che è un
animo collettivo, e vi sedimentano. Lo spirito non è meno rivoluzionario; esso
possiede perché li ha provati su di sé fino anche al sacrificio estremo, i
grandi ideali umani, civili e patriottici, ma non ne è posseduto e dunque
domina, ritiene le sue emozioni fino a farle rifluire nell'incanto di un
sommesso, privilegiato, pacato dialogo con la Natura.
Narra Diego Martelli come Silvestro Lega, “restio a svestir l'antica buccia”,
vale a dire incerto se lasciare o meno l'indirizzo accademico-purista della sua
formazione, uscendo dalle sale dell'Esposizione Nazionale si sentisse
“commosso” e tornasse “di campagna con una quantità di studi dal vero”32,
circostanza che prelude alla straordinaria vena pergentiniana del maestro
romagnolo. Furono verosimilmente i risultati conseguiti dai compagni nel corso
dei mesi estivi di quel 1861 a convincere Lega sulla bontà del nuovo indirizzo
artistico. Le attività di Signorini e Abbati a Castiglioncello, di Borrani e
Sernesi a San Marcello Pistoiese, di Fattori a Livorno rivelavano una
omogeneità di risultati derivante dalla scelta comune di una tematica
pastorale-agreste, ma anche e soprattutto nella volontà di superare l'accezione
polemica della 'macchia' ortodossamente intesa, per una visione più pacata e
distesa del vero, dominata dal reintegrato disegno e dalla luce quale unico
principio regolatore degli effetti tonali e atmosferici.
Merita ripercorrere per sommi capi gli avvenimenti biografici e artistici che
indussero i nostri artisti a frequentare la proprietà maremmana di Diego
Martelli, giovane critico militante, generoso mecenate e fiancheggiatore del
movimento toscano; ed anche le motivazioni che spinsero Silvestro Lega, Odoardo
Borrani, Giuseppe Abbati e Telemaco Signorini a recarsi a dipingere, sin dal
1862, nella zona suburbana di Piagentina, subito a ridosso della fiorentina
Porta La Croce. I medesimi artisti (con l'eccezione di Lega che frequentò quasi
esclusivamente la campagna fiorentina) furono i protagonisti delle due
“scuole”, così come unitario fu il clima ideale, artistico, sociale che generò,
come in un unico afflato, questa grande stagione poetica della pittura del XIX°
secolo.
Il 30 luglio 1861 moriva il liberale Carlo Martelli, l'ingegnere autore di
pubblicazioni sulle strade ferrate della Toscana, il collaboratore
dell'Antologia di Vieusseux, il finanziatore - lui che era il depositario
delle carte e dei manoscritti di Ugo Foscolo - della prima edizione a stampa
delle Grazie. Il figlio Diego ereditò i vasti possedimenti del padre,
oltre mille ettari di terreni estesi tra le province di Pisa e Livorno. Era il
4 agosto 1861 quando lo sparuto drappello di pittori - Signorini, Abbati e
Michele Tedesco - che accompagnava Diego nella prima visita alle sue proprietà,
procedendo in calesse lungo la via Emilia, varcò le alture di Rosignano
Marittimo. Straordinario fu lo spettacolo naturale che si presentò alla vista
di quei primi visitatori: austeri altopiani degradanti verso il mare limpido
dominato in lontananza dai mossi profili delle prospicienti isole dell'Arcipelago;
isolati casolari persi nei toni ocra dei campi di frumento arsi dal sole,
punteggiati dalle macchie verdi dei lecci e della bassa vegetazione
mediterranea; le candide sagome dei bovi pascolanti negli spazi pianeggianti
di presso alla Torre Medicea.
In Pascoli a Castiglioncello, dipinto eseguito nella circostanza di quel primo
soggiorno sulla costa livornese, Signorini colse pienamente il fascino e la
primitiva bellezza di quel paesaggio. Contemporaneamente al Signorini,
nell'attigua campagna livornese, Fattori realizzava un'opera esemplare del
nuovo corso della “macchia”: La boscaiola-costume toscano (1861)
iconograficamente rivela la suggestione di illustri precedenti francesi,
l'epopea contadina di Jean-François Millet, ad esempio; ma la pastora del
Fattori, pur nella solennità nobile di una divinità agreste, fiera e al tempo
stesso modesta nello sguardo abbassato, induce in Noi, prima di una qualche
riflessione sulla quotidiana lotta per l'esistenza del popolo dei campi, la
immedesimazione con la natura luminosa, solare della campagna livornese. Da
quel momento la costruzione rustica della Villa Martelli divenne l'ospitale
dimora dei pittori e perciò uno dei motivi più ricorrenti nella produzione di
questi artisti. Nei mesi estivi del 1862 Borrani lavorava intensamente nelle
adiacenze della Villa, fissando in minuscole assicelle di legno gli orizzonti
che da essa si potevano raggiungere volgendo lo sguardo in direzione dei
diversi punti cardinali: ne nascono piccoli capolavori di ricercata essenzialità,
capaci di evocare in pochi centimetri di pittura, la vastità degli spazi, la
libertà di respiro che l'artista prova di fronte al morbido declinare delle
alture sotto il cielo terso. Assiduo della comunità di Castiglioncello fu anche
Sernesi , la cui figura incorse molto presto in una sorta di mitizzazione ad
opera dei compagni macchiaioli: nella sua morte avvenuta all'età di vent'otto
anni in circostanze drammatiche nel corso della Terza Guerra d'Indipendenza,
essi videro emblematizzato lo spirito di sacrificio della loro generazione di
giovani patrioti, impegnati nella costruzione di una nazione finalmente libera
e unita. Telemaco Signorini primo biografo di Sernesi sostiene comunque che
proprio le opere realizzate a Castiglioncello, unitamente ad una mirabile
Pastura in montagna realizzata a San Marcello Pistoiese, furono rivelatrici del
genio del pittore fiorentino poco più che ventenne. Dunque la splendida
Marina a Castiglioncello, di antica proprietà Giussani, con gli studi che ne
accompagnarono la realizzazione - uno dei quali appartenne proprio a Signorini
- rappresenta non solo uno dei traguardi lirici della più poetica stagione
della macchia, ma anche l'apice di un cammino individuale, il tributo
spirituale di una delle anime più pure della compagine dei Toscani. Destino
tragico fu anche quello che attendeva Beppe Abbati, il colto pittore
napoletano, intimo di Martelli, che già nel 1860 aveva pagato il suo tributo di
sangue alla patria, perdendo l'occhio destro durante la battaglia di Santa
Maria Capua Vetere. Subito associatosi a Borrani e a Sernesi in questa
predilezione per il paesaggio Abbati aveva dunque repentinamente voltato le
spalle al successo ottenuto come pittore di interni monumentali, per dedicarsi
alla pittura dal vero. “…tentò con successo l'aria aperta della campagna ed
iniziò una serie di studi mai più interrotta nella mia villa di
Castiglioncello, situata sulla costa del mediterraneo a 12 miglia a mezzogiorno
di Livorno, dove veniva a passare i due mesi della estate”33, scrive
Diego. Nei pressi della Villa Martelli, alcuni bambini sono assorti nei loro
giochi. La calda luminosità della giornata tardo-primaverile, l'accogliente
campicello punteggiato dai rossi papaveri, il mare quieto che s'intravede in
lontananza oltre la quinta di muro, sono un invito alla spensieratezza. La
pittura magrissima si fa preziosa nell'osservare i brillanti esiti del tono su
tono del verde campicello, della bruna superficie dell'edificio rustico,
aggredito dalla muffa, e, ancora, della grigio-azzurra distesa del mare, chiuso
all'orizzonte dal profilo violaceo della costa. Allontanandosi dalla Villa,
Beppe frequenta le vicine insenature, da quella piatta e sassosa di Caletta di
cui scopre il carattere desolato, quasi “lunare”, al Porticciolo ove sorge la
“casina dei pescatori”. Ma è la grande insenatura del Portovecchio che
maggiormente lo emoziona: una lingua di terra sassosa s'insinua tra il lieve
scorrere del fiumicello e il quieto rollare delle onde del mare, nei primi
istanti di un'alba senza vento; al di là, il profilo della costa si snoda ed
abbraccia l'intero orizzonte. Le velature argentee, strascico della notte che
si dilegua, si accendono qua e là nei verdi cupi della vegetazione, nei
chiarori che il nascente giorno sbatte sulle lisce superfici dei sassi, nel
lieve spumeggiare delle onde lungo la riva. In Bovi sulla spiaggia, il
lido si anima delle chiare sagome degli animali, mentre l'accesa nota cromatica
del carro rosso innalza repentinamente l'intonazione generale, come un grido la
cui eco si ripercuote tra le rocce di quella insenatura solitaria. In Casa
sul botro ancora una volta l'artista misura la sua natura malinconica
con lo scenario solitario della costa maremmana: nessun dettaglio, nessuna
presenza vivente disturba la sobria linearità dei piani, il loro armonico
incastonarsi in campiture cromatiche che dalle calme acque del botro, specchio
di un paesaggio quasi lunare (poeticamente presago di atmosfere novecentesche),
s'inseguono fino a marcare l'alto orizzonte e la sagoma svettante dell'edificio
rustico sulla sua sommità. Del resto, anche quando inanimati, i paesaggi di
Castiglioncello hanno sempre un orizzonte domestico e la presenza umana anche
quando non visibile, pure la si indovina poco distante, allusa nell'affetto con
il quale l'artista “accarezza” pittoricamente i luoghi del suo spirito; i
luoghi e le presenze tra le quali egli conduce quotidianamente la sua vita. Nei
mesi invernali, la lontananza fisica dall'amico fraterno Diego che vive
stabilmente a Castiglioncello con Teresa, induce Abbati a corrispondere con
frequenza. Di volta in volta, le notizie generiche sono intercalate da
considerazioni sull'attualità politica, sulle letture, sull'arte: “Io sto
leggendo il nuovo libro “Force et Matière” di Buchner [Ludwig Buchner, ndr] - è
la quintessenza del materialismo - ti figurerai già che mi piace - però non lo
trovo molto profondo - sono cose che già si sanno - e mi aspettavo del nuovo -
però è sempre un libro molto interessante”34, scrive Abbati nel
marzo del 1865. Entrambi attendono di conoscere le sorti del nuovo
giornale fondato da Beppe Dolfi e diretto da Niccolò Lo Savio, docente di
economia della Fratellanza Artigiana. Per quanto riguarda l'estetica formulata
da Proudhon, Abbati non nascondeva le proprie riserve, rivelando un punto di
vista diverso da quello di Signorini e dello stesso Martelli. Nota il critico
in una postilla manoscritta come per quanto dedito alla lettura del libro del
pensatore francese, “De l'art et de sa destination sociale” egli negasse “in
questo solo le teorie di Proudhon”35. E quando tali teorie trovarono
per la penna di Angeli, una discutibile enunciazione nel testo di apertura del
primo periodico dei Macchiaioli, “Il Gazzettino delle arti del disegno”, Abbati
se ne risentiva in due lettere a Cabianca, rivendicando la libera ispirazione
dell'artista (“l'arte è il prodotto d'una personalità - è il vero visto
attraverso un temperamento”) e la finalità poetica della creazione artistica,
che dunque deve essere preservata da eccessivi indottrinamenti (“L'Angeli dice
che, nulla è più bello della natura, e non s'accorge che rende inutile l'arte e
dà un calcio alla poesia”36). Castiglioncello fu il teatro
dell'ultima evoluzione dell'arte abbatiana, poiché fu lì che il pittore
napoletano, reduce dal fronte della Terza Guerra d'Indipendenza e dalla
prigionia in Croazia, decise di stabilirsi per lavorare in solitudine; e fu lì
che morì a soli trentadue anni di età, per l'idrofobia contratta dal suo cane
mastino. Fu sulla costa maremmana che Beppe “spinse più alto l'ambizioso volo
dell'ingegno”. Fu allora, come attesta prontamente Diego Martelli, che egli
individuò i primari motivi della sua ispirazione: “Il cielo, la grande natura,
l'uomo, ecco il subietto, ecco la meta che s'era prefisso”37. Questo
importante momento poetico fu condiviso con Borrani, con Boldini, e
soprattutto con Giovanni Fattori, tutti ospiti della Villa del critico,
nell'estate del 1867.
Fattori, riandando all'epoca di quel sodalizio artistico, ricordava come Abbati
lo avesse incitato allo studio dei bianchi e egli avesse incoraggiato il
pittore napoletano allo studio degli animali. Il motivo dei bovi al carro fu
uno dei temi prediletti dalla creatività dei due artisti che lo svilupparono
ora in direzione della sintesi estrema (come nel Bifolco e buoi di Fattori) ora
in opere di ampio formato come La raccolta del fieno in Maremma di Fattori e
Carro e bovi nella Maremma toscana di Abbati, straordinarie elegie sul tema
della natura, dell'uomo, del lavoro dei campi. Tema prediletto, ma non unico
quello dei bovi aggiogati. Basti ricordare gli altissimi esiti poetici delle
straordinarie effigi che Fattori ci ha lasciato degli amici, Diego Martelli
seduto sulla sedia a sdraio con di fronte un dinoccolato leggio, Teresa
Martelli seduta all'ombra della giovane pineta, l'avvocato Valerio Biondi.
Nell'inedita veduta di Vada, paese a sud di Castiglioncello, Abbati raffigura
un momento di vita rurale, la partenza per la pesca: come in Pasture in Maremma
di Fattori domina qui il sentimento di una natura primigenia, che racchiude in
se il senso della vita. I ritmi secolari della vita rusticana stanno ai vasti
spazi solitari della povera costa maremmana come le sottili lancette dei
secondi al meccanismo di un grande orologio: lillipuziane esistenze anonime
esse, unitamente all'alternarsi delle stagioni, e del giorno alla notte,
scandiscono il flusso dell'esistenza. La sobria cromia, o per dirla con
Martelli la “modestia d'intonazione”, affidata alle sottili variazioni dei
bianchi e degli ocra, non rinuncia a improvvise accensioni di rossi e di verdi
cupi, mentre l'effetto di luce tagliente sul paese s'identifica quale primario
motivo poetico.
“Castiglioncello! Come era bello quando dalla vecchia casa Martelli si poteva
scendere scamiciati e magari senza camicia nel limpido mare, diventato anche
oggi in quel luogo un mare elegante e quindi odiabile dalle persone, come me,
che amano in teoria i progressi civili, ma in pratica i costumi selvaggi”38,
avrebbe scritto Gustavo Uzielli a Renato Fucini nel 1908, rievocando
l'atmosfera di quei ritrovi estivi, il contatto vero con la natura
mediterranea, solare e autentica di quanti, pittori, letterati, tipi ameni,
amici raggiungevano Castiglioncello per poi disperdersi in tutta libertà per i
morbidi declivi della proprietà Martelli.
Un secondo centro di aggregazione dei pittori Macchiaioli e dei loro
fiancheggiatori fu la campagna fiorentina di Piagentina, oggi completamente
urbanizzata e dunque irriconoscibile rispetto alle magnifiche immagini che ne
hanno lasciato. Nelle belle giornate invernali quando troppo impegnativo era
raggiungere la Villa Martelli, i Macchiaioli sin dal 1862 presero l'abitudine
di recarsi nella campagna fuori Porta La Croce, fuoriuscendo dalle mura dalle
parti dell'attuale Piazza Beccaria, e incamminandosi tra gli orti e le villette
fino a raggiungere l'Arno e l'edificio quattrocentesco detto “la Casaccia”,
all'altezza di Bellariva. Rispetto all'omogeneità stilistica e tematica della
produzione di Castiglioncello, le opere di Piagentina appaiono un insieme meno
unitario, sensazione questa riconducibile alla mancanza di una regia continua e
costante quale la figura carismatica di Martelli assunse per forza di cose in
Maremma.
Il significato di quei ritrovi - ed è ovvio che il termine “scuola” vada inteso
nell'accezione socratica di libera associazione - lo troviamo suggerito dal
Proudhon nel “Du Principe de l'art et de sa destination sociale”, ove si legge
che “L'artista deve essere in comunione di idee e di principi non solo con i
suoi confratelli, ma con tutti i suoi contemporanei (…)”39. Nel
momento in cui l'artista cessa di studiare, automaticamente viene meno
l'ispirazione, sostiene il filosofo francese teorizzando la necessità
dell'esperienza di gruppo e del continuo confronto con la Natura, della ricerca
incessante, della sperimentazione. Furono queste le motivazioni che, unitamente
a quelle biografiche, indussero i Macchiaioli a dar vita alle due comunità
artistiche e la loro produzione pur nell'unità di poetica, si connota per la
diversità d'intonazione che deriva dalla differente qualità del paesaggio.
Ragion per cui il confronto con la natura, motivo irrinunciabile della poetica
di Castiglioncello, diviene per Piagentina meno essenziale, consentendo a
questa seconda “scuola” un indirizzo non univocamente paesaggistico. Anche il
formato muta tra le due scuole e lo dimostra platealmente il Borrani, passando
dalle dimensioni decisamente orizzontali delle sue smaltate “predelle”, adatte
a cogliere la forte luce degli orizzonti maremmani a quello più quadrato e
imponente di opere come Cucitrici di camicie rosse. Sin dagli ultimi mesi del
'62 Borrani frequenta la campagna fuori porta La Croce, ma predilige,
solidalmente con Lega, i soggetti ispiratigli dalla vita domestica delle
famiglie Batelli, Cecchini e del loro entourage. Ed è proprio Lega il
cantore della affettuosa e serena atmosfera di Piagentina: nei capolavori
realizzati dal modiglianese in questi anni, da L'elemosina a La visita in
villa, da Curiosità a Il canto dello stornello, La pittura, I Promessi Sposi si
rinviene quell'unità di ispirazione che conferisce all'operato di Silvestro la
continuità melodica di uno stesso canto elegiaco. Silvestro attua una sorta di
interiorizzazione delle immagini della realtà domestica e della natura rurale
in cui si trova immerso, vissute non più come fatto occasionale ed esterno,
bensì come episodi della propria vita emozionale. Lungo l'argine dell'antica
via Piagentina sopra il quale svetta il familiare profilo delle colline di Monte
alle Croci e di San Leonardo, cinque persone sono sorprese a colloquiare
amabilmente mentre dal portoncino verde profilato in pietra serena, una sesta
figura si appresta a recar loro il conforto di un buon bicchiere di rosolio. La
visita in villa è un episodio di vita quotidiana, di quella quotidianità
semplice, fatta di piccole gioie e di sentimenti intimi, che anima la civiltà
agreste di Piagentina. La composta eleganza della borghesia fiorentina dei
Batelli e dei Cecchini non é un semplice dato esteriore che riaffiora nella
sobrietà degli abiti dalle tinte pacate sui quali spiccano i castigati colletti
bianchi delle signore, ma é un fatto intrinseco alla pittura: essa si fa scarna
ed essenziale nel delineare la quinta di muro dell'edificio, un bel rustico di
carattere quattrocentesco che la patina del tempo ha rivestito di una calda
tonalità dorata; si impreziosisce nel modulare quella stessa tonalità
attraverso vibrazioni cromatico-luminose appena percettibili che traducono in
un pulviscolo luminoso il tepore di quel pomeriggio soleggiato, ma non terso.
Mentre Abbati e Sernesi si muovono lungo le ripide stradine di Montughi, di
Bellosguardo, dell'Erta Canina, realizzando per lo più straordinarie sintesi
dal vero di stringata sintassi macchiaiola, Signorini si attarda lungo gli
argini dell'Arno. In Mattino sull'Arno i solchi invasi d'acqua piovana sembrano
tracciare con i loro luccichii argentati un sentiero lungo l'argine,
inoltrandosi verso l'ansa del fiume che segna l'orizzonte; sul punto di fuga
due figure di renaioli al lavoro trattengono l'attenzione e i toni grigi delle
vesti hanno funzione di raccordo tra la sobrietà della tavolozza con la quale
si colora la nuda terra e la campitura intensamente azzurra del cielo venato
di nubi. In Signorini, dunque, il puro lirismo di Abbati, Sernesi e Borrani,
compenetrandosi con le idealità della nuova estetica, cerca con forza una
legittimazione negli illustri precedenti del genere. Lirica e realtà del
paesaggio, dunque, con in più la consapevolezza del proprio essere nella
Storia. Il riferimento più appariscente è all' Hobbema di Il viale di
Middelharnis e non a caso, il critico de “La Nazione” (certamente persona molto
addentro allo schieramento macchiaiolo) menzionava questo autore constatando
che “il realismo ha dati all'Inghilterra ed alla Francia, come dette all'Olanda
con Ruysdael ed Hobbema, grandi paesisti, l'opera dei quali non tardò ad
influire su quella dei pittori di figura”; in ragione di questo, affermava
ancora : ”e dunque non so perché debba da quello temersi la rovina ed il
completo decadimento dell'arte italiana. Diamo tempo al tempo, e se oggi non
abbiamo in Italia i Turner, i Constable, i Corot, i Duprè, i Rousseau, quando
l'arte avrà fra noi passate le fasi per le quali è passata quella dei paesi che
ci precorsero nella riforma, li avremo”40. La recensione si riferiva
al premio ottenuto da Telemaco nel 1870 con il grande dipinto Novembre,
raffigurante un'ampia strada sterrata invasa dall'acqua piovana, lungo la quale
s'inoltrano svelte due contadinelle; l'andamento curvo della strada è
sottolineato dallo stesso movimento dei solchi impressi nel fango dalle ruote
dei carri; il cielo cupo di nubi piovane filtra la luce del sole diffondendo
riflessi dorati sul cupo paesaggio sottostante. “L'impressione è resa con
evidenza, con profondità di sentimento, con meccanismo semplicissimo in
apparenza, ma studiato e calcolato in sostanza. Disprezzi chi vuole, per un
malinteso amore alle tradizioni, la scuola dei realisti, ma non neghi - concludeva
il critico de “La Nazione” - che da essa venne gran bene all'arte moderna,
richiamata ad una osservazione profonda e scrupolosa della forma, ad una
precisione di linguaggio non usate in passato”.
L'Epica del quotidiano
Nel corso degli anni sessanta, dunque, la ricerca dei Macchiaioli produce
un radicale rinnovamento della pittura di paese e, contestualmente,
l'affermazione di una dimensione epica della realtà quotidiana.
I principi di Verità, Carattere, Sentimento, costitutivi della poetica dei
Nostri che, desuntili dagli scritti sul Realismo e in particolare da quelli di
Proudhon li fecero propri improntando su di essi il proprio linguaggio, la
propria filosofia di vita, le proprie aspirazioni non solo artistiche,
segnarono per quasi cinquant'anni il percorso dei realisti toscani; una sorta
di tracciato che ora segna la straordinaria, irripetibile tensione morale del
momento di Castiglioncello come più tardi radicherà il senso conoscitivo della
forma dell'ultimo Fattori. Rapportandosi analogicamente al precedente di
Courbet (di cui i nostri andavano sempre più apprezzando, l'evoluzione verso i
temi naturalistici dell'attività matura), ma soprattutto dando modo alle
rispettive personalità di esprimersi con “sincerità”, i pittori macchiaioli adottarono
questo doppio registro che è ora lirico ora di polemica sociale, ma sempre
originato dall'attenta indagine della realtà contemporanea. Per Proudhon il
pittore moderno deve saper “leggere al fondo dell'anima universale” e
deve saperla ”esprimere con le sue opere”; dunque non si trattava
soltanto di restituire concretezza di verità ad un paesaggio, assumendone il
dato caratteristico, o di evidenziare la peculiarità di una fisionomia o di un
tipo sociale, o di restituire pittoricamente l'emozione suscitata nell'artista
da una data realtà visiva. All'artista si chiedeva molto di più, ossia di
esprimere, attraverso la sublimazione artistica della realtà individualmente
esperita, il sentimento collettivo del proprio tempo, il senso più profondo
dell'epoca contemporanea. Quello che Signorini rivendica per se e per la sua
generazione, il “compito di civiltà”, non va inteso prosaicamente, come
consapevolezza del proprio dovere civico (al quale peraltro Proudhon sembrava
richiamare nel titolo stesso del suo libro, asserendo la “destinazione
sociale” dell'arte), bensì come la rivendicazione di una libertà di
espressione che trovava nel proprio essere nella Storia, le ragioni più intime
della propria ispirazione poetica.
Questa sublimazione del vero, che sottende la forte tensione etica e
sentimentale nei cuori dei nostri pittori, è quanto mai percettibile in quelle
opere che si misurano con la realtà degli uomini, piuttosto che con quella
solo naturale del paesaggio.
La realtà domestica in cui operano silenziosamente le Cucitrici di Camicie
rosse è pervasa da un sentimento di struggente partecipazione misto ad un
fiducioso stato di attesa mentre sotto lo sguardo fiero di Garibaldi il cui
ritratto campeggia sulla parete campita di azzurro, esse cuciono le camicie dei
soldati; fuori da quella stanza la Storia incita alla rivoluzione, l'eroe dei
due mondi combatte per l'unità della Nazione ed insegue Roma capitale, sebbene
costretto alla battuta d'arresto momentanea di Aspromonte. La grande finestra
con le sue tende trasparenti sorrette dagli embrasse dorati, è come un tenue
sipario che separa quel momento di vita domestica dal proscenio della
drammatica attualità del nascente stato italiano: la luce del giorno filtrando
evidenzia il muto colloquio di sguardi, i modi rattenuti delle protagoniste e
rende percettibile nella serena determinazione dei volti chini sul lavoro, il
significato tanto eroico, quanto “privato” di quei semplici gesti.
Funzionali a questa “sublimazione” del Vero sono alcuni espedienti tecnici
come il lieve grandeggiare delle figure rispetto alle proporzioni del dipinto
che Borrani deriva dal confronto con la pittura rinascimentale toscana, e
ancora il punto di osservazione leggermente ribassato e ravvicinato sulle
figure che “immette” nella loro sfera d'azione e infine l'idea del controluce.
Quest'ultimo accorgimento arricchisce enormemente il potenziale emotivo del
soggetto rappresentato e questo è quanto mai evidente ne “L'educazione al
lavoro” di Lega, ove il gesto di per se umile e quotidiano che intercorre tra
la maestra e la piccola apprendista è elevato - senza alcuna enfasi retorica,
s'intenda bene - a fatto esemplare, monito a recuperare gli antichi valori di
civiltà di cui la borghesia toscana è rimasta in qualche modo depositaria.
Questo senso di politezza, che è dunque prima di tutto morale, viene espresso
con la massima essenzialità del mezzo pittorico, facendo ricorso alla qualità
neoquattrocentesca del disegno, ed esaltato dalla tiepida luce di un mattino di
primavera; illuminata da tergo, la bella figura che riconosciamo essere la
compagna del pittore, Virginia Batelli, è presa di spalle, i lunghi capelli
neri raccolti sulla nuca; essa grandeggia austera, mentre il controluce esalta
il contorno luminoso della figura, potenziando il candore regale della veste,
il profilo materno e la muta corrispondenza di sguardi con la radiosa bambina
seduta ai suoi piedi.
Osservare attentamente la realtà non con semplici intenti mimetici dunque,
bensì per cogliere i significati più profondi dell'età contemporanea, “l'alito
che vien dal secolo” per dirla con il critico Maurizio Angioli41, e
rendere dunque la testimonianza della propria epoca, questo è l'obiettivo che
pur con i necessari distinguo e le diverse sfumature, i Macchiaioli si pongono
nel corso degli anni Sessanta dell'Ottocento.
Mentre l'epos di dipinti di Fattori quali Le Macchiaiole o Raccolta del fieno
in Maremma nasce dal conferimento della forma eletta ai motivi poetici colti
sul motivo nella campagna livornese, determinando l'intonazione ora
vitalistica, ora elegiaca della sua visione sempre serenamente assertiva del
Vero, la “testimonianza” resa da Signorini è intrisa di contenuti sociali, in
rispondenza del resto al forte impegno civile (oltre che patriottico) profuso
dall'autore nel corso degli anni Sessanta. La recente riapparizione del
clamoroso L'alzaia conferma in linea di massima la lettura critica che Diego
Martelli ci ha lasciato di questo filone “sociale”della produzione
signoriniana; riferendosi in particolare alle pazze del manicomio fiorentino di
San Bonifacio, il noto La sala delle agitate appunto, Martelli lo definiva
quadro costruito “con quello stesso amore che meritano solo i quadri destinati
ai grandi fatti degli eroi” e distinguendo decisamente tale pittura da “quella
vera e propria pittura di genere, destinata a far ridere i ricchi sulla miseria
de' poveri” lo definiva “una pagina vera dell'umanità”42.
La chiave di lettura suggerita da Martelli, ricollega dunque questo filone
signoriniano al precedente di Courbet, ne distanzia giustamente le risultanze
dalla tradizione del generismo sentimentale e aneddotico, infine ne qualifica
il carattere che non è di polemica sociale, bensì di indagine della realtà,
nello spirito di un moderno Umanesimo. Andare in cerca della verità senza
timore di varcare la soglia della decenza, con lo scopo di dare all'arte nuovi
obiettivi con cui misurare la propria sincerità e la propria fedeltà al ruolo
di testimone dell'epoca contemporanea. “Mettere il dito nella piaga puzzolente”
non per sollevare bagarre politiche, estranee all'arte per la loro natura
prosaica, ma per far si che l'Umanità, specchiandosi, veda e provveda.
Misurarsi con la follia di una minoranza di donne, i cui volti sono resi
deformi dalla demenza e le cui grida risuonano orribili nell'austerità della
stanza del manicomio che le contiene come fiere in una gabbia; oppure
percorrere l'argine dell'Arno alla Cascine luogo della elegante passeggiata
cittadina per imbattersi nello spettacolo di degradata umanità, rappresentato
da un gruppo di individui che al pari di bestie da soma trascinano
un'imbarcazione contro la corrente del fiume: tutto questo compete alla nuova
pittura.
“Nel 1864 feci un quadro dei miei più grandi con molte figure quasi al vero che
tiravano una barca contro la corrente dell'Arno, L'Alzaia.”43 scrive
Signorini. Imbracati nella corda, l'alzaia appunto, cinque robusti individui in
maniche di camicia e coi pantaloni arrotolati al polpaccio rimorchiano
un'imbarcazione (esclusa dalla vista) dalla sponda dell'Arno; le schiene sono
inarcate nello sforzo, le braccia penzolano inerti lungo il busto o si piegano
per detergere il sudore dai volti, i passi pesanti inchiodano al terreno le
figure barcollanti nello sforzo. Il controluce esalta i contorni, riduce a
macchie scure i volti già resi inebetiti dalla fatica cosicché ogni
individualità si perde nella potenza monumentale e plastica di un bassorilievo
antico; per quanto, girando il volto verso di noi che osserviamo la scena, uno
degli individui attesti che non di un antico episodio di servi della gleba si
tratti, bensì di una triste verità della neonata nazione italiana, una realtà
contro la quale si infrangono di fatto, i sogni libertari di una generazione.
La tensione del dramma si esalta per contrasto nella tersa luce del giorno nel
quale si delinea in lontananza il profilo urbano di Firenze; non della neo
eletta capitale corretta dai piani urbanistici di Giuseppe Poggi, bensì
quello della città compresa nelle sue verdi colline che prende aria attraverso
gli ampi tratti semiurbani di Bellariva e Piagentina, che respira lungo gli
sterrati argini dell'Arno all'altezza del parco delle Cascine. Da lì, guardando
in direzione del Ponte granducale di San Leopoldo, Signorini osserva la sequenza
degli edifici di là d'Arno e par commuoversi nel percepire il variare
dei riflessi di luce sulle candide volumetrie che la tecnica macchiaiola
definisce sommariamente, conferendo ad esse la poesia e il nitore delle
geometrie di Piero della Francesca. Sono proprio questo rigore metrico
neo-quattrocentesco, questo potere calibrante della luce che devono prevenirci
dal confronto con l'analogo soggetto dipinto una decina di anni più tardi dal
russo Ilya Repin: nel dipinto ambientato sugli argini del Volga (Barge Haulers
on the Volga, State Russian Museum, San Pietroburgo) infatti la stessa scena, è
riproposta però con pathos narrativo e con ricchezza di particolari nella
individuazione dei volti dei protagonisti. Come alcuni anni addietro aveva
fatto scalpore in piena rivoluzione industriale la povertà senza prospettiva
degli spaccapietre di Courbet, non diversamente la mancanza di dignità di
certi strati della popolazione toscana delude e ferisce quanti si erano con
dedizione prodigati per la libertà e l'eguaglianza sociale.
L'alzaja di Signorini suppone del resto una complessità di riferimenti
culturali che vanno da Proudhon a Giuseppe Ferrari, ai romanzi di Victor Hugo,
il celebre autore de “I miserabili” (1862) noto per le sue “antitesi” (ed è
questa figura retorica che Telemaco adotta strutturando il suo straordinario
dipinto), ma che sostanzialmente refluisce e nutre la tensione etico-morale che
sostiene la visione signoriniana in questo specifico momento poetico. Volendo
far luce sulla sorte e sulla fortuna critica di questo capolavoro, stranamente
ignorato dalla critica del tempo, e dalle fonti che, ad esclusione dello stesso
Signorini, non ne hanno tramandato né descrizioni né immagini (circostanza
veramente inspiegabile se si considera che il quadro, acquistato da una
pubblica associazione, fu per anni tenuto in esposizione in via della Colonna,
sede della Promotrice di Belle Arti di Firenze che provvide a inviarlo
all'Esposizione Universale di Vienna, dove fu addirittura premiato), crediamo
opportuno aggiungere un tassello alle attuali conoscenze. Tale precisazione
riguarda l'esistenza di una seconda versione di L'alzaja, circostanza attestata
dallo stesso Telemaco, nell'elenco autografo delle sue opere vendute44.
Tale seconda versione sarebbe stata ceduta nel 1867 al ventenne pittore
scozzese James Wingate, inducendo dunque a dubitare che il quadro recentemente
ricomparso a Londra e che oggi presentiamo sia la prima versione, quanto
piuttosto la seconda, di cui peraltro conosciamo per certo il destino inglese.
Ebbene l'esame della corrispondenza tra Wingate e Signorini45 sembra
risolvere il legittimo dubbio, suggerendo ad evidenza che questa Alzaja è la
prima versione, mentre quella ceduta a Wingate fu verosimilmente una replica di
piccolo formato.
“…Les artistes et les connaisent les admirent beaucoup, il dissent que vous avez beaucoup d'esprit mais a la meme temp comme esquisses vos tableaux sont brave, comme tableaux il n'ya pas de finiments…” scriveva il pittore scozzese a Signorini il 30 marzo 1868.
Il giudizio riguardava alcune opere che il pittore di
Glasgow si era fatto affidare da Telemaco per tentarne la vendita in patria.
Tali opere sono identificate dall'elenco autografo delle opere vendute, stilato
da Signorini: si tratta di L'agguato e Il riposo, eseguite nel 1865 e di
L'alzaja, una replica, di fattura sommaria, dunque, eseguita contestualmente
all'incontro con Wingate.
Presagi di Naturalismo
Sul finire degli anni Sessanta, allo scadere del decennio aureo della
“macchia” nuove inflessioni percorrono la produzione dei toscani, sebbene
contenute per il momento entro la solida metrica neo rinascimentale di una
pittura rigorosa e la tenuta etico-risorgimentale del sentimento di questi
artisti.
Incide su questo cambiamento in atto, oltre alle singole vicende
biografiche, il mutamento dello scenario che accoglie il dibattito toscano. Sul
finire del 1866 il glorioso caffè di via Larga cessava di vivere e veniva
sepolto con tutti gli onori dai suoi affezionati frequentatori, per lo più
reduci dalla Terza Guerra d'Indipendenza. Dalle sue ceneri ancora calde di
scaramucce e tenzoni ideologiche nasceva nel gennaio 1867 una nuova palestra -
“virtuale”, diremmo oggi - ossia il “Gazzettino delle Arti del disegno”, primo
periodico del movimento, fondato e diretto da Diego Martelli. Tra i numerosi
redattori, figuravano Signorini e il critico Maurizio Angeli. I temi dibattuti
nel “Gazzettino”, la lotta all'accademia e alla maniera, l'opposizione al
falso storico, l'affermazione della “scuola della natura” e della “sincerità”
dell'artista sono temi ispirati e argomentati dal “Du Principe” di
Proudhon. Le corrispondenze dall'estero, i dibattiti interni alla redazione,
tutto questo fece del “Gazzettino” lo strumento della consapevole leadership
dei Macchiaioli nella realtà artistica dell'Italia post-unitaria. Ma il
giornale dei Macchiaioli fu anche lo specchio di quanto andava accadendo sulla
scena artistica nazionale, nell'ottica di quelle che possiamo desumere fossero
le preferenze culturali di quel gruppo di artisti e comprimari. La stagione
poetica di Abbati a Castiglioncello, quella dell'estate 1867 che noi sappiamo
esser stata l'ultima della sua breve esistenza, veniva incoraggiata ed
elogiata da Martelli che vi vedeva, a torto o a ragione, affinità con
l'indirizzo della pittura dei campi francese; altrove il critico faceva
riferimento a un indirizzo “franco-britannico” assunto dal pittore con i suoi
ultimi dipinti dedicati “al ritratto della vita della natura e dei contadini”46,
allusione forse alla somiglianza con le scene della campagna bretone dipinte da
Jules Breton dopo il 1865. Questa inflessione naturalista, linguaggio che a
partire dagli anni Settanta verrà sviluppato dai pittori più giovani del
gruppo, quali Francesco Gioli, Egisto Ferroni e Niccolò Cannicci connota la
splendida tavola di Fattori dal titolo L'Ave Maria o “La preghiera della sera”,
non più visto da molti decenni. In un angolo di campagna toscana, pervaso dai
toni rosati del tramonto, due contadine sono ferme a metà di un declivio,
assorte nelle devozioni, le mani ruvide congiunte. Sono due tipi comuni del
ceto rurale che abita nei paesi tra Firenze e Livorno, ma la compostezza dei
loro gesti e la profondità del loro raccoglimento sono tali da indurre il
rispetto e finanche la partecipazione emotiva di chi le osserva. Sono
individuate nelle loro indoli, oltre che nelle diverse fisionomie, l'una è in
piedi, scalza, quasi altera nel suo volgere il bellissimo profilo verso
l'orizzonte, in direzione del suono della campana che s'intuisce provenire dal
piccolo paese adagiato sulla sommità del vicino colle; l'altra in ginocchio,
il volto inebetito, come contuso dalla stanchezza, china lo sguardo verso
terra, mente le labbra socchiuse emettono flebili i suoni dell'orazione. La contrapposizione
delle due figure accentua la verticalità della composizione, sottolineata
dalla presenza dei due snelli cipressi, mentre l'animo, anch'esso come la
realtà naturale pervaso da una aura di sospensione, si predispone alla
contemplazione del divino. Una analoga struttura compositiva è sottesa alle
Confidenze di due contadine toscane l'una in piedi, l'altra seduta, dipinte da
Cristiano Banti; rispetto alla magra ed essenziale stesura pittorica
fattoriana, tuttavia, il pittore di Santa Croce pone in atto quella cura
formale, quelle raffinatezze pittoriche, attraverso le quali perseguire un
ideale di bellezza classica che è componente poetica riconosciutagli, in quanto
distintiva, già dai compagni di strada. Questa tendenza ad idealizzare la vita rurale
toscana, a farne una cifra di serena gaiezza e di classica bellezza introduce
allo spirito che sarà proprio dei naturalisti toscani. Il colore lucido,
l'amore per il dettaglio d'ambiente evocano inoltre la presenza di un artista
che aveva trovato ottima accoglienza sulle pagine del “Gazzettino” e in seno al
gruppo macchiaiolo: il ferrarese Boldini. Protetto dal più anziano Banti
all'epoca della permanenza a Firenze, questo geniale innovatore aveva
rivoluzionato la concezione stessa del ritratto, costruendo minuscole scatole
prospettiche, dense di dettagli d'ambiente, nelle quali i suoi effigiati
stavano in posa, senza sembrare immobili, colti con estrema finezza di
penetrazione psicologica, nel chiuso delle loro stanze, sorpresi nelle loro
abitudini e occupazioni. Al primo apparire di questi prodigi pittorici,
Signorini aveva tessuto gli elogi dell'autore, osservando semmai una eccessiva
lucentezza dei colori. Considerazioni di questo genere rivelano come l'ago
della bilancia si stesse spostando ormai verso quei problemi di esecuzione
pittorica che fino a quel momento erano risultati secondari rispetto alla
tenuta etica e austera della pittura macchiaiola. I riferimenti culturali
introdotti implicitamente da Boldini nel dibattito culturale toscano trovavano
sensibilissimo per primo Signorini. Il calore fiammingo dei caldi interni
borghesi dipinti dal ferrarese come ambientazione dei suoi ritratti era
sintomatico di una rinnovata attenzione per l'antica pittura delle Fiandre,
attenzione condivisa da altri dell'entourage macchiaiolo: Martelli sulle pagine
del “Gazzettino” affermava non a caso che i progressi della pittura moderna si
avevano là dove si andava mirabilmente riassumendo la tradizione veneziana e
fiamminga. Grande considerazione veniva tributata in quest'ottica al belga
Alfred Stevens: i suoi soggetti intimisti, la sua maniera porcellanata, il suo
virtuosismo nella resa delle stoffe lo avevano definitivamente imposto
all'attenzione del pubblico e nel 1867, all'epoca del primo soggiorno parigino
di Boldini, ben diciotto dipinti figuravano all'Esposizione Universale. Paul
Mantz sulla “Gazette des Beaux Arts” lo definiva “uno dei migliori pittori
dell'eleganza moderna”, sottolineando le straordinarie qualità mimetiche nella
resa delle stoffe e dei materiali47. Il successo di Stevens si
collocava nel clima di riscoperta della pittura dei paesi bassi, di cui lo
scrittore francese Théophile Thoré (più noto con lo pseudonimo di Burger) era
stato da alcuni anni fautore. Ampi stralci delle recensioni pubblicate dal
critico su “Indépendance Belge” e relative alle moderne scuole nazionali
presenti ai Salon parigini vennero riportati sul “Gazzettino”; al Thoré-Burger
si doveva inoltre l'opera magistrale sul Vermeer, grazie alla quale il genio di
Delft, riemergeva dal secolare oblio. Importanti opportunità di riflessione su
questi temi, venivano poi offerte ai toscani sia dalle opere che Vito D'Ancona
inviava da Parigi, sia dai ritrovi di casa Desboutin. Marcellin che in quegli
anni risiedeva a Firenze fu celebre incisore, ma anche antiquario, copista e
collezionista di arte antica, in particolar modo veneta e fiamminga; egli
accoglieva i toscani e gli amici francesi in visita alla città nella sua
splendida dimora dell'Ombrellino a Bellosguardo, sulle colline fiorentine.
“En letterature et en politique Desboutin est
(...) francais. Mais dans le questions d'art devant universale. Les Velasquez,
les Giorgione, les Tiepolo, les Holbein, les Ruysael, tout cette belle
collection de tableaux jadis à l'Ombrellino et aujourduhi dispardée dans les
galeries europeannes... »48, ricordava Gustavo Uzielli .
Nel doppio ritratto delle sorelle Papudoff, Boldini rivela pienamente il suo orientamento verso la pittura allora di moda che univa eleganza d'impaginato e maestria di esecuzione nella resa del
dettaglio di costume e di ambiente (risaltano nell'opera del ferrarese gli
effetti tattili delle taffetas di seta delle vestine, lo scintillio dei legni
dorati, la ricchezza delle tappezzerie).
Da questo clima Signorini trasse importanti conferme al suo innato
“pittoricismo”, cioè alla caratteriale propensione ad accentuare gli effetti
pittorici. In uno splendido quadro raffigurante una elegante estimatrice che
non trovandolo allo studio, scrive un biglietto nel quale spiega di non poter
attendere l'arrivo del pittore, (Non potendo aspettare, è il titolo), Signorini
fa tesoro della scatola prospettica e della libertà d'impaginato introdotta dai
ritratti di Boldini; la sua pennellata elegante attribuisce sostanza e spessore
all'impasto cromatico e dunque il soggetto, immerso nella sensualità di un
caldo interno borghese, lievita di una corposità ben diversa rispetto al tenore
austero e neoquattrocentesco della produzione macchiaiola immediatamente
precedente. Seguirono da parte di Telemaco, precise indicazioni, vere e proprie
pungolature in punta di spada ai compagni di strada; ad esempio quando,
recensendo l'esposizione della Società Promotrice del 1868 giudicava Un dopo
pranzo di Lega “troppo trascurato come esecuzione in tutti quei verdi del
pergolato, che tanta parte occupano nella scelta importante di questo suo
lavoro”49 e, qualche tempo dopo, motivando la “stroncatura” del
quadro Primizie di Borrani, concludeva: “E' veramente un peccato vedere in
questo artista la smania puerile del diligente e dell'accurato scolastico, e
pare che voglia esserlo a qualunque costo, anche al patto di non simpatizzare
con nessuno. Pensi il signor Borrani che Meissonier non è liscio, ed è il più
grande esecutore dei nostri tempi perché egli è l'osservatore delle infinite
parti della natura”50.
Ne L'Analfabeta dipinta da Borrani nel 1869, è raffigurata una giovane donna
della campagna che sta in piedi dinnanzi alla moglie del pittore, presa di
spalle mentre seduta al tavolo del soggiorno attende con affettuosa
disponibilità di formulare per iscritto il contenuto del biglietto
stentatamente suggerito dalla poverella. La poesia é tutta affidata
all'atmosfera sospesa, al motivo della luce che irrompe calda dalla grande
finestra e investe di toni rossastri il giovane incarnato della donna per poi
ripercuotersi sugli arabeschi color mattone della carta da parati, ed accendere
di argentei riflessi l'ampia veste rigonfia di crinolina e ancora ravvivare le
raffinate trine del drappo dimenticato sulla sedia in primo piano. E' una luce
seicentesca, alla Vermeer, come quella che imperversa nelle coeve opere di
Signorini e di Boldini; ma qui la metrica é assolutamente pergentiniana (come
nel Lega de I fidanzati e de La pittura) disinteressata per il momento alle
accondiscendenze alto-borghesi del nervoso pittoricismo alla moda di Telemaco.
Per quanto in breve tempo Borrani perverrà ad una maggiore acribia nella
stesura dell'incantevole Una visita al mio studio, a dimostrazione di come gli
strali di Signorini arrivassero a segno.
Negli anni a seguire i toscani sarebbero stati ben disposti nei confronti delle
“mistificazioni” pittoriche di Meissonier, di Fortuny e, a seguire, di
Boldini, per un travisamento dei fondamentali principi del realismo courbettiano;
un travisamento che solo nel 1873 Adriano Cecioni saprà valutare e correggere
dalle pagine del “Giornale artistico” - secondo periodico dei Macchiaioli -
dichiarando tra l'altro di sentirsi offeso e nauseato dalla “vista da quel
brulichio di dettaglio, che non ha altro scopo che di essere minuzioso e pieno
di coquetterie”51. Oltre tutto il culto della verosimiglianza del
dettaglio d'ambiente o del personaggio, della fattura prodigiosa, della
pennellata chic, determinava la perdita di consapevolezza storica, di
prospettiva temporale, di aderenza al vero, consentendo di contemplare in seno
al termine di Realismo, anche le scene in costume settecentesco, purché
ricreate nei particolari con documentata esattezza storica.
All'altezza di queste divergenze estetiche, peraltro presto ricomposte, si era
ormai varcato il decennio. Nell'aprirsi alle istanze del Naturalismo
internazionale, tuttavia, il movimento macchiaiolo perdeva l'antica, vitale
compattezza, complice il diversificarsi delle singole vicende biografiche: la
morte di Sernesi, la drammatica scomparsa di Abbati, la dolorosa fuga di Lega
da Piagentina, seguita alla morte dell'amata Virginia, nel 1870; e ancora le
peregrinazioni di D'Ancona e Signorini in Francia e Inghilterra; l'insediarsi
di Boldini (1871) e Zandomeneghi (1874) nella capitale francese, chiudono il
decennio aureo del movimento macchiaiolo.
La declinazione gentile del vero
Il venir meno della tensione etica degli anni risorgimentali, la delusione
crescente degli animi di fronte alle mancate riforme sociali, l'infrangersi dei
sogni della generazione macchiaiola, la crescente urbanizzazione della nuova
Italia, favorirono, dopo il 1870, l'affermazione di una più convenzionale,
spesso idilliaca interpretazione del vero. Essa si basava ormai sulla qualità
formale della narrazione pittorica della realtà: la direttrice in linea di
massima conduceva dunque dalla “sintesi” e dalla tensione ideale e etica delle
opere di Castiglioncello e Piagentina alla “trascrizione oggettiva” del vero, avviata
da alcuni di quei pittori (soprattutto Banti, Borrani e Signorini) e assunta
come programma da altre figure comprimarie del gruppo, come Francesco Gioli,
Niccolò Cannicci e Egisto Ferroni.
Alla base c'era una sorta di depotenziamento del rigore metrico della
“macchia” causato dalle mutate condizioni della società italiana che, raggiunta
l'unità nazionale, lasciava sfiorire per sempre il rigoglio ideale e etico
dell'epopea risorgimentale.
“Vorrei sapere - avrebbe scritto da Parigi Zandomeneghi a Martelli
manifestando il persistere di una delusione mai più sopita - cosa s'è fatto in
24 anni dico ventiquattro dacché siamo noi. Metà dell'Italia è ancora incolta,
le emigrazioni aumentano che è una bellezza, il Papa e i preti comandano più di
prima…”52.
D'altro canto l'idea positivista e spenceriana della evoluzione incessante e la
fiducia nei suoi effetti benefici estesi dal cosmo alla realtà sociale
dell'Uomo, poneva in una condizione di sostanziale accettazione di tutto
quanto poteva essere inteso come il risultato di questo processo evolutivo.
Anche in pittura dunque si doveva pensare ad una evoluzione del sano e
appassionato realismo courbettiano di metà secolo: una volta restituita dignità
in arte alle classi umili e al tema del lavoro, le nuove generazioni di pittori
erano motivate ad applicarsi a questi contenuti con tutte le finezze tecniche
conosciute
I principi estetici sottesi alla poetica, divenute l'abbecedario della
generazione tardo-macchiaiola, prevedevano un cammino aperto a soluzioni non
univoche, fermo restando l'avversione per l'arte accademica da un lato e
dall'altro per l'arte alla moda di Fortuny. C'era poi, soprattutto tra i
giovani sopra citati, la volontà e l'istinto di compiacere le richieste della
critica che sobillava una declinazione più mite dei principi del realismo (“non
sacrificare l'arte alla moda va bene; ma allontanare da sé il pubblico
scegliendo di preferenza soggetti privi d'ogni attrattiva, non mi pare né
utile, né logico”53, scriveva Ferdinando Martini nel 1872).
Dai contatti con la società francese, resi continuativi dalle frequenti
opportunità di viaggio e di scambio, i nostri realisti traevano stimoli ad
occuparsi dei problemi di trascrizione del vero, privilegiando le qualità
ottiche e l'eleganza dei modi, rispetto agli alti contenuti etici e morali
insiti al concetto proudhoniano di “arte per la società”. Questa nuova
inflessione della ricerca sul vero non significava affatto una riduzione nella
scala del merito, pur essendo altissimo il rischio di prosaicità cui tali
artisti furono sottoposti. L'indirizzo naturalista italiano, rappresentato
dalle opere di Francesco Gioli, di Egisto Ferroni, di Niccolò Cannicci ( ma
anche da quelle di Eugenio Cecconi, di Adolfo e Angelo Tommasi, di Luigi Gioli,
di Arturo Faldi, di Luigi Gioli, di Filadelfo Simi e di altri ancora) raggiunse
un successo tale da eclissare addirittura, nei primi anni del Novecento, quello
dei Macchiaioli. Questi ultimi del resto, conclusasi la gloriosa stagione
unitaria della loro storia, non sempre, o meglio non in ogni momento,
riuscirono a preservare la propria integrità poetica nel corso del loro lungo
cammino. Anche l'integerrimo Fattori soggiacque sporadicamente, nei primi anni
Settanta al piacevole garbo narrativo di Francesco Gioli, complice i rapporti
amicali con il più giovane discepolo e con la di lui consorte Matilde
Bartolommei e in rispondenza di precise occasioni di operatività comune nella
villa di Fauglia. E' noto poi come Fattori compisse il suo unico viaggio a
Parigi (1875) in compagnia dello stesso Gioli, di Ferroni e di Cannicci, i
quali sperarono invano di indurre un aggiornamento in senso naturalista del
vigoroso realismo del più anziano pittore e maestro.
Inevitabilmente dunque un percorso espositivo dedicato ai Macchiaioli, deve
tener conto di queste figure comprimarie che rappresentano di fatto una tappa
evolutiva importante nel rapporto instaurato dai realisti toscani con il Vero.
Ed è significativo come Diego Martelli, nel suo ultimo articolo affidato nel
1896 a “Corriere italiano” accomunasse i nomi degli anziani macchiaioli a
quelli delle più giovani leve sotto l'etichetta di “sana scuola realista”54,
ove quel “sana”, escludendo ogni palliativo di realismo posticcio, indicava la
radice courbettiana dell'esperienza toscana.
Fu dunque Signorini ad anticipare questo avvicendamento generazionale della
scuola toscana, portando il dibattito artistico sui problemi dell'esecuzione
pittorica e dunque contrapponendo la fattura a suo vedere “ordinaria” dei
dipinti realizzati da Lega e Borrani a Piagentina sul finire degli anni
Sessanta all' “esuberanza” (intesa come qualità positiva) del mezzo pittorico
rivelata da Ferroni in uno dei primi e suoi più noti dipinti, Le trecciaiole;
quadro che secondo Telemaco rivelava la forza dello studio del vero, intrapreso
con la sapienza e l'ingenuità dei maestri del quattrocento, nonchè il coraggio
del giovane nell'aver scelto un soggetto e un taglio compositivo quanto meno
arditi.
Come abbiamo sottolineato, citando la recensione di Ferdinando Martini, la
ruvidezza di questi soggetti però cominciava ora ad esser messa in discussione
dalla critica contemporanea. Era gioco forza incamminarsi dunque su temi più
convenienti e soprattutto assumere toni più distesi. Signorini, dal canto suo,
preferì intensificare le sue già buone relazioni con il mercato inglese,
mentre il panorama artistico parigino che vedeva l'italiano Giuseppe De Nittis
al massimo della celebrità e contestualmente l'ascesa dell'astro di Boldini,
gli offriva, durante i ripetuti soggiorni in Francia, nuovi spunti e nuove
riflessioni. Egisto Ferroni desumeva la sua bella Passeggiata domenicale dai
quadri pergentiniani del Lega, sebbene l'aura da predella rinascimentale sia,
a nostro vedere, ricercata da Ferroni come imprescindibile elemento di stile
e non spontaneamente evocata come accade nella pura metrica leghiana; dal
punto di vista compositivo, la ragazza accasciata a margine della strada, le
cui condizioni di sofferenza e di miseria sono antitetiche al clima festoso che
circonda il corteo dei paesani è chiaramente un espediente stilistico di
carattere narrativo, depauperato però del sentimento fortemente etico che tale
figura retorica aveva avuto ad esempio nell'Alzaia di Signorini. E' propria
dunque del Ferroni una disponibilità ad allentare la “tensione” morale della
“macchia” per approdare - in sintonia con l'evolversi del gusto contemporaneo -
ad un approccio più narrativo del vero. Il girotondo di Cannicci è uno
splendido dipinto che interpreta la realtà della vita rurale con accenti di
classica eleganza e di particolare raffinatezza cromatica: l'intento è quello
di trascrivere con tutte le ricercatezze di esecuzione pittorica le apparenze
del vero secondo il “sentimento” che l'artista prova, senza più quel rigore che
si chiedeva - ancora nel decennio precedente - al pittore, richiamato da
Proudhon e da Courbet ad un ruolo civico di testimonianza del vero e dei suoi
principi di “Verità”, “Carattere” e “Sentimento”. Nell'arruoto di Santo Spirito
Gioli delinea con fare monumentale e narrativo una straordinaria galleria di
ritratti sociali, ancora prima che fisici: sostano davanti al fiorentino monte
dei pegni varie tipologie di persone, dalla giovane donna che per l'ambizione
di un paio di stivaletti alla moda è venuta ad impegnare le sue gioie, alla
povera madre che ha dato via tutto per sfamare i suoi bambini, alle attempate
intermediatrici che attendono di prestare i propri servigi a quanti si
vergognano a presentarsi di persona. Situazione, fisionomie, tipi sociali sono
piacevolmente descritti con garbo e precisione. Il monumentale dipinto di
Gioli Boscaiole di San Rossore, recentemente riapparso sul mercato
statunitense ed esposto qui per la prima volta, illustra con rara efficacia il
carattere dell'esperienza tardo-macchiaiola e arricchisce delle necessarie
sfumature il significato che abbiamo inteso dare alla qualifica di
“declinazione gentile” del vero; la “gentilezza” infatti non la intendiamo
semplicemente come il portato di un soggetto più o meno idilliaco bensì in
senso più lato come accezione narrativa, eticamente più morbida, formalmente
più descrittiva della realtà. Scriveva un critico contemporaneo:
“E un'opera di realismo vibrato, espressivo, energico, e riflette uno dei
lineamenti meno considerati della fisionomia etnografica della Toscana. Chi
dice Toscana, sovente crede dire paese dolce, di latte e miele, dalla vita
facile, dalle abitudini fiacche, dalla fibra molle, e non pensa che è paese per
metà alpestre e per un buon tratto maremmano e che se è ridente è anche
austero assai spesso; con popolazioni ardite e stracorrenti come la livornese,
fiere come quelle del Casentino, irose come la senese dal soave eloquio (…). A
questo tipo energico della fisionomia del loro paese, ricorrono sovente taluni
pittori toscani, Cecconi il pittore di cacce, i due Gioli più spesso, qualche
volta il Ferroni; Adolfo Tommasi ne ha una pagina originale (…). Vedete queste
macchiaiole di Maremma! Cariche come grosse bestie da soma che piglio hanno,
che sagome! Che espressioni di dure affaticatici! Colla roncola adunca o
l'accetta pendente dal fianco, le vesti succinte, i piedi nudi larghi, la pelle
adusta e bruciata, portano un enorme fascio di rami, che legato a un ramo più
grosso e dritto, possono facilmente levarsi di spalla per riposare quando non
reggono più al gran peso (…). Vanno a drappelli per chiacchierare e aiutarsi
(…). In fondo alla landa a sinistra nereggia una striscia della pineta del
Tombolo, segnando una linea vibrata sull'azzurro del cielo e le nubi calde
dell'ore pomeridiane. In questo quadro del valente professore Gioli v'è tutta
l'austerità e la tristezza della Toscana Maremmana”55. Nel quadro di
Gioli - pagina tra le più alte del naturalismo italiano - le “maglie larghe”
del Vero accolgono dunque la “Toscanità” come valore. Non era esattamente
questo che aveva inteso Proudhon quando aveva codificato il principio del
“carattere”, principio che i Macchiaioli avevano tradotto inizialmente come
“tinta locale” mantenendone il significato originario. Se il realismo di metà
secolo aveva esortato ad esperire il vero dei propri luoghi natali, onde
arrivare a cogliere il significato più profondo dell'età contemporanea,
l'apporto di civiltà nei suoi valori universali; l'inflessione naturalista
tendeva a depauperare tale principio, privilegiando le apparenze di un vero
illustrativo spesso connotato di forti caratteri regionali, reso con le
convenzioni linguistiche, le ricercatezze esecutive e gli artifici pittorici
propri di una nuova accademia.
L'ultimo tratto dei percorsi di Lega, Fattori, Signorini tra aderenza ai
principi del vero e inflessioni Novecentesche
Nel corso degli anni Ottanta, nell'ambito dei loro singoli percorsi, Signorini,
Lega, Fattori sono impegnati in una sorta di solitaria meditazione sui principi
del Realismo, dalla qual cosa sarebbero germogliate intuizioni importanti per
le generazioni a seguire. Diego Martelli, il compagno di tante lotte politiche
e artistiche continuava a tenere in alta considerazione “quel ragazzaccio
scapigliato”56 del Fattori, a commentare come benefiche le
“scorrettezze del disegno” di Signorini, a richiamare l'interesse sulla
“vita selvaggia” che Lega andava conducendo al Gabbro, paese della campagna
livornese che fu teatro della tarda attività del maestro di Modigliana. Si
trattava di esperienze frammentarie che il critico, tuttavia, riconduceva con
convinzione sotto l'etichetta di “scuola realista toscana”, comprendendo in
essa le esperienze dei più giovani naturalisti, toccati - almeno in parte -
dalle conquiste dell'Impressionismo francese, movimento artistico che aveva
avuto proprio nel critico fiorentino uno dei primi e più convinti assertori.
Recensendo l'esposizione fiorentina del 1895, Martelli notava, l'aspetto “più
chiaro e più luminoso” assunto in generale dalla pittura toscana, di riflesso
alle conquiste dell'impressionismo; e sebbene ponesse tra quanti “hanno
severamente meditate le intemperanze dello impressionismo” principalmente i due
Gioli, i due Cannicci e i due Tommasi, tuttavia non mancava di rilevare il
difetto di un disegno che a suo vedere in alcuni casi “puzzava” “un po' di
fotografia istantanea, della quale in oggi si fa uso ed abuso, con danno
gravissimo dell'arte che è e deve essere istantaneità di sentimento e di
pensiero, ma non può e deve passare da un animo di cristallo”57. A
questi artisti, peraltro nel complesso stimatissimi, veniva naturale al critico
contrapporre l'eterna giovinezza di Fattori definito “per eccellenza un artista
di sentimento, dotato di una mano e di una retina meravigliosa; a seconda del
come si commuove fa, e più si commuove maggiormente esagera i suoi difetti e le
sue qualità…”. Tali difetti non avevano sostanzialmente importanza in quella
categoria di artisti cui - secondo il critico - Fattori e Signorini
appartenevano (Lega, malatissimo, non figurava tra gli espositori) che sentono
“l'arte davvero e sul serio” e che raggiungono straordinari risultati nella
percezione e nella resa pittorica del Vero. Innegabilmente poi quella
componente “soggettiva” dell'arte che il Realismo aveva sotteso al principio di
“sincerità” dell'artista, diveniva sempre più predominante nella sensibilità di
fine secolo, tanto da rendere lecito anche per quei pittori di sicura fede
realista, un approccio al vero più personale. Dunque, senza addentrarci
nell'esame minuto delle opere di questi percorsi individuali, vorremmo proporne
un'ipotesi di lettura che tenga conto di come ciascun artista abbia teso a
sviluppare le proprie singole peculiarità, modulando con accenti diversi e
individuali il rapporto con la realtà.
Sin dagli anni Settanta, Telemaco Signorini frequenta Parigi e Londra,
lavorando a fianco di Giovanni Boldini e di Giuseppe De Nittis, e instaurando
proficui rapporti con mercanti quali Goupil, Reitlinger, Vizard. La sua pittura
incontra i favori del collezionismo poiché è dotata di un disegno sicuro, di
una straordinaria abilità percettiva dei fenomeni luminosi, di un piacevole
virtuosismo, qualità che pongono la sua arte in sintonia con il gusto
internazionale. Egli non trascura la piacevolezza dei soggetti, ma è attratto
tuttavia dal “caratteristico” (si vedano le belle vedute di città, come
Edimburgo e Leith; e ancora le strette viuzze di Arcola, in Liguria). Ben
presto i luoghi prediletti dalla sua creatività divengono Settignano,
Riomaggiore e l'entroterra ligure, l'Isola d'Elba.
L'inclinazione a privilegiare la “tinta locale” di un luogo, il “carattere” di
una fisionomia o di una tipologia di individuo è facilmente percettibile in
quei quadri che hanno per soggetto animati scorci di Firenze, di Edimburgo, di
Parigi, ossia tratti urbani facilmente riconoscibili, ai quali oltretutto
Telemaco sa imprimere il fascino dell'attualità di uno stile di vita. Ma non
meno carattere ha la campagna francese di Sul sentiero a Combs-la-ville,
connotata non solo nella morfologia naturale, ma anche in quella
culturale-figurativa, presupponendo i toni argentei di Corot e la pennellata chic
di Boldini, vale a dire il passato prossimo e l'attualità corrente della scena
artistica parigina. Nei capolavori dipinti a Settignano nel corso degli anni
Ottanta il suo ben noto “pittoricismo” si fa più morbido, allargando le maglie
della rete visiva, sempre innovativa nei tagli e densa di emozioni e
suggestioni culturali. La Nene (Irene Roppele, la sua piccola protetta ) siede
sopra un muretto in pietra, uno di quelli che costeggiano le ripide strade che
conducono al paese di Settignano; veste un semplice abitino di tela bianca -
corto, come si addice alle giovinette - da cui sbucano le calzette scure e gli
stivaletti di pelle nera allacciati alla caviglia. Un sentimento di fragilità e
di delicatezza aleggia attorno alla giovinetta ed il candore della sua veste é
una nota poetica che risuona nell'incanto del paesaggio circostante, pervaso
dalla calda luce di un pomeriggio d'estate. Il rapporto con il vero è dunque in
Signorini accompagnato da una intensa consapevolezza intellettuale, in ragione
della quale il dato naturale viene trascritto sulla superficie pittorica con
tutto il suo carico di storia e di civiltà, che lo rende particolare e dunque
decifrabile. Non potremmo mai dubitare di aver di fronte un paesaggio toscano,
come non potremmo non riconoscere il carattere fiabesco delle strade di
Riomaggiore, ove Telemaco soggiorna ripetutamente tra il 1881 e il 1899.
In Sulla terrazza a Riomaggiore, splendido dipinto che trasuda di luce marina,
Signorini poco concede alla grazia delle giovinette intente all'uncinetto.
Riomaggiore era infatti noto non solo per le sue case pittoresche, ma anche per
la caratteristica bruttezza dei suoi abitanti; caratteristica che Signorini
sembra indagare con la sagacia del fisiognomo nei molti dipinti concepiti in
quei luoghi. Si può dire, dunque che il pittore esprima nella tipizzazione dei
volti e delle situazioni una sua intima propensione al “carattere”, accentuando
nella sua poetica matura il valore di questo principio primo del Realismo.
A partire dal 1881 Lega tornava a frequentare le rive dell'Arno a
Bellariva, un tempo meta prediletta degli amici Signorini, Borrani e Beppe
Abbati. La Famiglia Tommasi che abita la Casaccia e offre ospitalità a artisti
e letterati, diviene un punto di riferimento importante nella vita sociale e
affettiva del sofferente pittore; il quale - insegnante di Angiolo e Ludovico -
si compiace dell'entusiasmo e dell'ardore giovanile di quei nuovi combattenti
del progresso artistico, i Tommasi, i Cannicci, i Gioli e soprattutto la
generazione dei divisionisti toscani che riconoscono in lui il proprio padre
spirituale. “Ora Silvestro Lega lavora accanitamente, per quanto una malattia
d'occhi lo tormenti da qualche anno, malattia che non gli offende menomamente
la visione delle masse, né dello splendore del colore; tantochè ne' suoi studi
arieggia molto alla serena gaiezza degli impressionisti francesi…”58
scriveva Martelli, testimoniando l'avvenuto superamento della lunga fase
depressiva che aveva accompagnato la scarsa produttività del decennio
precedente. Nel corso degli anni Ottanta infatti Lega attua il suo
aggiornamento linguistico in direzione di una personalissima interpretazione
dell'Impressionismo, conosciuto attraverso le parole di Martelli e attraverso
le opere che ha potuto vedere esposte in Italia. Nasce in questo contesto di
serenità affettiva e di rinnovata creatività, l'immagine dell'allievo Angiolo
che dipinge al cavalletto nel giardino di Bellariva: vorremmo interpretare come
una proiezione fisica della ritrovata giovinezza spirituale leghiana la smilza
figura in casacca bianca di lino, tutta compresa e assorta nella sua
creatività solitaria dinnanzi al verde proscenio rigoglioso. Nella penombra del
giardino, screziata da coriandoli di luce che penetrando il fitto fogliame si
proiettano ora sul grande ombrello, ora sul viottolo del parco ombroso, la
camicia rifulge a tal punto da sembrare pervasa di una luce interiore. In
quegli anni anche la casa del fratello minore di Lega, Ettore, che nel 1880
aveva sposato Adele Mazzarelli offriva un po' di calore alla solitudine del
maestro di Modigliana, il quale trovava nelle presenze femminili e infantili
motivo di ispirazione profonda. Vedono la luce in questo clima opere di grande
respiro e urbanità come La Lezione e Una madre, e una tavola di straordinaria
fragranza materica come Donna alla finestra, realizzata con impressionistica
libertà di pennellata.
Nel 1886 Angelo Tommasi e Angelo Torchi introdussero il sessantenne pittore.
presso la famiglia Bandini che abitava la bella villa di Poggiopiano al Gabbro;
la proprietà con annessi poderi era gestita dalla energica vedova, la signora
Clementina Bandini, e dal di lei compagno, il Conte Odoardo Rosselmini, amico
di Martelli. Lega assunse la responsabilità dell'educazione artistica di due
delle figlie Bandini, Giulia e Paolina. Quasi contestualmente al loro primo incontro
si creava, grazie alla liberalità di Clementina Bandini, il clima più
congeniale alla creatività leghiana. Si venne così delineando lo stile della
maturità del Lega, quello che il critico Mario Tinti qualificherà come
“concitato” in opposizione alla maniera “pacata” di Piagentina. Questa
crescente libertà di esecuzione è il carattere che distingue tutta la
produzione degli anni del Gabbro. In altra circostanza59 abbiamo
riflettuto come le immagini della vita di Poggiopiano siano veri e propri
momenti della vita emozionale del nostro in seno all'universo femminile di casa
Bandini. Sono opere, per lo più di piccole dimensioni, che colgono i momenti di
relax della famiglia; in esse si respira il clima garbatamente signorile che
aleggiava in quella comunità di persone dove a margine di una vita operosa, si
studiava pittura, si tenevano d'occhio le tendenze della moda parigina, si
leggevano libri e giornali. Contestualmente Silvestro era attratto dalla
femminilità esuberante e naturale delle popolane del luogo, le “gabbrigiane”.
Le morbide colline del Gabbro, la severa dolcezza dei volti delle protagoniste
femminili di quel mondo rurale si intervallano alle immagini di “serena
gaiezza” ispirate alla vita domestica delle donne di casa Bandini. In effetti la
grande Gabbrigiana in piedi potrebbe essere il manifesto di quella campagna
artistica, prontamente inscritta da Signorini e da Martelli nel clima poetico
del Naturalismo. Ma gli esiti leghiani, andarono ben oltre le consuete premesse
positiviste. Partendo dal dato reale, da una configurazione geografica, da un
tipo sociale la vena poetica di Lega al massimo della sofferenza fisica e
morale assurge ad un apice di lirismo, complice, come scrive Carlo Sisi, “una
materia magra ed asciutta quasi prossima a sfaldarsi; come nel Ritratto della
Scellerata -appellativo con cui era nota in paese la modella di Lega-, nel
quale è dato percepire una emotività ormai pienamente novecentesca. L'enfasi
lirica leghiana potrebbe dunque interpretarsi come un portato del “sentimento”
dell'artista che - è stato giustamente sottolineato - “nella serialità della
sua indagine sugli arditi profili delle donne gabbrigiane, include
implicitamente anche i temi - per lui autobiograficamente urgenti - del dolore
e della morte”60.
Estraneo o quasi ad ogni compiacimento stilistico, apparentemente così poco
interessato alle novità artistiche d'oltralpe da sembrare persino ottuso,
Fattori è tanto radicato nella natura e nei costumi della sua terra, la
Toscana, quanto Courbet lo era stato ai suoi luoghi natali. La “Verità” di
Fattori è un modo di essere nella natura, anche la più selvaggia, un modo di
sentirsi immerso nel paesaggio che porta inscritto nelle sue linee e nelle sue
forme il secolare progredire dei costumi e della società. Proudhon aveva detto
di Courbet che egli “nel suo realismo” era “uno dei più potenti
idealizzatori”61, ma che non per questo si era curato di inventare,
semplicemente egli vedeva “l'anima attraverso il corpo, le cui forme” erano
“per lui una lingua ed ogni tratto un segno”. Non diversamente Fattori nella
caparbia ricerca delle sue radici lessicali, recupera l'aderenza tra realtà e
linguaggio pittorico; la sua spontaneità dissimula una sapienza figurativa
tanto profonda quanto è antica la civiltà toscana di cui egli succhia la linfa
come un tronco d'albero dalle radici.
Negli stessi anni in cui Telemaco Signorini ritrae caratteristici momenti di
vita urbana - é del 1879 il noto Ponte Vecchio - Fattori si accosta con misura
a questo tema particolarmente frequentato dal Naturalismo internazionale e in
Viale Principe Amedeo ritrae l'aspetto un po' provinciale, ma laborioso di
Firenze, aspetto che più soddisfaceva il suo temperamento schietto e
istintivo. Negli ampi viali, nati dallo scempio delle mura cittadine, all'ombra
dei giovani platani, la gente transita tra i carri che giungono dalla campagna
con le materie prime, e le carrozze padronali che corrono veloci sul polveroso
sterrato; ai lati, alte cinta di mura celano eleganti edifici e segreti
giardini pensili. Per niente condizionato dalla camera ottica signoriniana, né
tanto meno corrivo al gusto della elegante tranche de vie, che trovava
in Signorini e ancor prima in De Nittis e Boldini i suoi maggiori interpreti,
Fattori non rinuncia affatto al suo linguaggio robusto e virile, bensì ne
dimostra la straordinaria duttilità nel cogliere il particolare garbatamente
mondano della snella figurina vestita in azzurro, nota di colore acceso nella
composita tavolozza dei bianchi, degli ocra, dei bruciati suoi tipici. Queste
stesse tonalità cromatiche caratterizzano la stesura dello splendido L'arrivo
dei barrocci, e del piccolo, intenso Sosta sotto la pioggia non più visto da
molto tempo.
Negli ultimi decenni - fermo restando la straordinaria perfezione stilistica raggiunta
nel genere del ritratto - la ricerca del livornese si attestava preferibilmente
su due filoni, quello militare e quello maremmano. Attraverso le opere
militari Fattori consegue quella qualità monocroma e polverosa del colore,
che scaturendo da un sapiente gioco del tono su tono finirà col conferire
carattere unitario e distintivo all'ultimo tratto della produzione fattoriana.
Per non parlare delle moderne potenzialità spaziali di opere come Lo staffato,
nel quale il livornese adotta una sorta di presa diretta, coinvolgendo lo
spettatore nel divenire temporale della scena rappresentata. Con questi
strumenti Fattori affronta i ben noti soggetti maremmani, tema dominante della
sua tarda attività. Lo spunto gli è offerto nel 1882 da un protratto soggiorno
alla Marsiliana, presso Grosseto, nella tenuta dei principi Corsini.
Penalizzato dal fatto di non saper cavalcare, e dunque di non potersi muovere a
suo piacimento, Nanni osservò e disegnò per giorni, riportando impresso nel suo
animo i ritmi violenti e i colori polverosi di quella sorta di far-west
nostrano. Nella Marcatura dei puledri in Maremma, l'artista esemplifica il suo
moderno concetto di spazio, cosicché in questa vasta tela, priva di un impianto
compositivo predisposto, l'orditura è data dal ritmo dei vuoti che
intervallano le figure colte singolarmente o a gruppi nei loro rispettivi campi
d'azione. E' un singolare modo di comporre di cui già nel 1927 Lionello Venturi
coglieva il nesso con quel "parlare per accenti anzi che per frasi lunghe
e rotonde” tipico degli scritti fattoriani.
“I grandi spazi sospesi in un misurar di luce dentro la necessaria ed
entusiasmante fatica del vivere umano”62 ha scritto Raffaele Monti
in merito a questi dipinti; uomini così abbrutiti dalla fatica, da sembrare
maschere di terracotta, riarse dal sole e dal vento, ma, come in Testa di
buttero, con quel qualcosa di tremulo nello sguardo ceruleo che esprime una
dignitosa, fiera consapevolezza del proprio essere.
NOTE
1) Cfr. Emilio Cecchi, “I Macchiaioli”, in “Macchiaioli toscani d'Europa”,
Olschki, Firenze 1962, p. 14
2) Lo scritto di Signorini dal titolo “Il Caffè Michelangiolo”, diviso in
cinque parti, comparve sul “Gazzettino delle arti del disegno” nei fascicoli
del 25 maggio, 15 giugno, 6 luglio, 15 luglio, 29 luglio 1867.
3) Cfr. TELEMACO SIGNORINI, “Caricaturisti e caricaturati al Caffè Michelangiolo
(1848-1866)”, Firenze, Civelli 1893, pp. 77-78
4) Cfr. DIEGO MARTELLI, “Romanticismo e Realismo nelle arti rappresentative”,
conferenza del 1895 in “Scritti d'arte di Diego Martelli”, a cura di Antonio
Boschetto, Biblioteca di Paragone, Sansoni, Firenze 1952, p. 204.
5) GERARD-GEORGES LEMAIRE,
“Esquisses en vue d'une histoire du Salon”, Paris, Henri Veyrier, 1986, pp.
201-207
6) Il brano è tratto dall'articolo manoscritto in lingua francese - perché destinato a un giornale parigino - che Federico sottoponeva al giudizio di Diego Martelli, allegandolo alla lettera del 29 maggio 1877. Lettera e manoscritto, conservati tra le carte Martelli della Marucelliana, sono state rese note in PIERO DINI, “Lettere inedite dei Macchiaioli”, Firenze 1975, pp. 312-313. Si veda anche FRANCESCA DINI,
“Federico Zandomeneghi, la vita e le opere”, Il Torchio, Firenze 1989, p. 551
7) Cfr., « Journal de Eugène Delacroix », tomo 2 (1850-1854), Plon, Parigi 1893, pp. 170-171
8) Cfr. TELEMACO SIGNORINI, “Il Caffè Michelangiolo”, in “Gazzettino delle Arti del Disegno”, anno I, n° 22, 15 giugno 1867, p. 175
9) Si veda il “Repertorio autobiografico” di Signorini, in ENRICO SOMARE',
“Signorini”, L'Esame, Milano 1926, p. 268
10) Cfr. ALEARDO ALEARDI, “Sullo ingegno di Paolo Caliari”, in “Atti della Reale
Accademia di Belle Arti di Venezia”, Venezia 1872
11) PIERO E FRANCESCA DINI, “Diego Martelli, storia di un uomo e di un'epoca”,
Allemandi, Torino 1996, p. 94.
12) L'articolo comparve tradotto in italiano su “La rivista di Firenze” nel
dicembre 1859. Cfr. ETTORE SPALLETTI, “Gli anni del Caffè Michelangiolo
(1848-1861)”, De Luca, Roma 1985, pp. 195-196
13) Cfr. “Delle vite de' più eccellenti Pittori, Scultori et Architettori
scritte da M. Giorgio Vasari Pittore et Architetto Aretino”, parte III, volume
II, Firenze 1568, p. 806. Si vedano anche, sull'argomento le riflessioni di
Dario Durbè nel bel saggio premesso alla mostra di Los Angeles del 1986 e
tradotto per il catalogo “I Macchiaioli e l'America”, Pirella, Genova 1992.
14) P.J. PROUDHON, «Du Principe de l'art et de sa destination sociale», Garnier Frères, Parigi 1865, pp. 365-366. Le nostre riflessioni in merito
erano già in «I Macchiaioli: originalità e grandezza di un movimento artistico
europeo», in “I Macchiaioli. Opere e protagonisti di una rivoluzione artistica”
catalogo della mostra di Castiglioncello, a cura di F. Dini, Polistampa,
Firenze 2002, pp. 23-25. Per il testo integrale di Proudhon si rimanda
all'appendice del catalogo “Da Courbet a Fattori, i principi del Vero”, Skira,
Milano 2005, pp. 223-243
15) Cfr. MARIO BORGIOTTI, “Note critiche” in “Macchiaioli toscani d'Europa”,
cit. 1962, p. 24.
16) Idem, p. 26. All'articolo della “Gazzetta del popolo”, firmato “Luigi”,
Signorini rispondeva da “La Nuova Europa” il 19 novembre 1862, firmandosi “X”.
I ritagli di questi articoli sono conservati nello “Zibaldone” volume di
autografi e ritagli messo assieme da Signorini ed oggi conservato a Firenze,
nella Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti.
17) Cfr. ROBERT FERNIER, «La doctrine de Gustave Courbet», in «La vie et l'œuvre de Gustave Courbet», Fondation Wildenstein, La Bibliothèque des Arts, Losanna Parigi 1977, tomo I, p. XI
18) Ivi, p. XII
19) Una copia del libro si trova nel fondo librario appartenuto a Diego Martelli
(Firenze, Biblioteca Marucelliana). E' stato da Noi recentemente accertato che
una seconda copia appartenuta a Telemaco Signorini e da lui autografata è
comparsa sul mercato librario fiorentino nell'autunno del 1999.
20) Cfr. PIERO DINI - FRANCESCA DINI, “Diego Martelli. Storia di un uomo e di
un'epoca”, cit., 1996, p. 309.
21) Cfr. PIERO DINI, “Epistolario di Giuseppe Abbati”, in “Giuseppe Abbati,
1836-1868”, catalogo della mostra di Castiglioncello, a cura di Francesca Dini
e Carlo Sisi, Allemandi, Torino 2001, p. 125, nota 2.
22) Cfr. P.-J. PROUDHON, «La Fédération et l'Unité en Italie», in «Œuvres complètes de P.-J. Proudhon», nouvelle edition, Librarie Marcel Rivière et C.ie, Paris 1959, pp. 79-81.
23) Cfr. FRANCESCA DINI, «I Macchiaioli e il Realismo, ovvero il realismo dei Macchiaioli », in « Da Courbet a Fattori, i principi del Vero», cit., 2005, pp. 14-16.
24) La postilla, sfuggita sinora all'attenzione, si trova tra gli appunti
manoscritti di Martelli, dedicati alla vita e alla personalità di Abbati .
25) Cfr PIERO DINI, “Lettere inedite dei macchiaioli”, Firenze, 1975, p. 186.
La lettera è datata 4 maggio 1863. La missiva di Martelli a Gustavo Uzielli
relativa alla discussione per la creazione del giornale, datata 9 novembre 1863
è riprodotta in FRANCESCA DINI “Il Gazzettino delle arti del disegno e la
battaglia per il Naturalismo”, in “L'opera critica di Diego Martelli, dai
Macchiaioli agli Impressionisti”, catalogo della mostra di Livorno a cura di
Francesca Dini e Ettore Spalletti, Artificio, Firenze 1996, p. 62 .
26) Cfr. “Da Courbet a Fattori, i principi del Vero”, cit, 2005, p.224
27) Cfr. “L'Italia Artistica”, 5 gennaio 1870 (in FRANCESCA DINI, “Il mondo di
Zandomeneghi” , “Il mondo di Zandomeneghi, dai Macchiaioli agli
Impressionisti”, catalogo della mostra di Castiglioncello, Polistampa, Firenze
2004, p. 25; e in “Florilegio sul Realismo” in “Da Courbet a Fattori, i
principi del Vero”, cit. 2005, p. 247).
28) Cfr. “Diego Martelli. Corrispondenza inedita” a cura di A. Marabottini e V.
Quercioli, De Luca, Roma, 1978, p. 132.
29) Cfr. “Telemaco Signorini 1835-1901”, catalogo della mostra di Montecatini
Terme, a cura di Piero Dini, Firenze 1987, p. 54
30) Cfr DIEGO MARTELLI, “Nino Costa”, in “Scritti d'arte di Diego Martelli”, a
cura di Antonio Boschetto, cit., p. 226.
31) Cfr. DIEGO MARTELLI, “Giuseppe Abbati”, in “Scritti d'arte di Diego
Martelli”, a cura di Antonio Boschetto, cit., p. 217
32) Cfr. DIEGO MARTELLI, “Silvestro Lega”, in “Scritti d'arte di Diego
Martelli”, a cura di Antonio Boschetto, cit., p. 242
33) Cfr. DIEGO MARTELLI, “Giuseppe Abbati”, cit., p. 219
34) Cfr. “Epistolario di Giuseppe Abbati” a cura di Piero Dini, in” Giuseppe
Abbati, 1836-1868) catalogo della mostra di Castiglioncello a cura di F. Dini e
C. Sisi, Allemandi, Torino 2001, p. 131.
35) L'appunto, sinora non rilevato dagli studi, giace tra le carte manoscritte
di Martelli, Biblioteca Marucelliana di Firenze, D XIV II, 17.
36) Le due lettere sono dirette a Vincenzo Cabianca, in data 26 gennaio e 16
febbraio 1867. Si veda “Epistolario di Giuseppe Abbati”, a cura di P. Dini, in “Giuseppe Abbati…”, cit., 2001, pp. 136-139.
37) Si tratta di un appunto manoscritto reso noto in PIERO DINI, “Giuseppe
Abbati. L'opera completa”, Allemandi, Torino 1987, p. 122, nota 43.
38) Cfr. “Arte e storia a Castiglioncello dall'epoca dei Macchiaioli al
Novecento”, a cura di Francesca Dini, Comune di Rosignano Marittimo, Firenze
2000, p. 89
39) Cfr. PROUDHON, “Du principe…” in “Da Courbet a Fattori, i principi del
vero”, cit., 2005, p. 243
40) L'articolo, apparso in data 15 gennaio 1871, è conservato anche nello
“Zibaldone” di Signorini.
41) Cfr. MAURIZIO ANGIOLI, “L'Esposizione di Belle Arti della Società
d'Incoraggiamento in Firenze”, in “Gazzettino delle arti del disegno, giornale
settimanale”, anno I, n° 1, Firenze 26 gennaio 1867, p. 5.
42) Cfr. DIEGO MARTELLI, “Della Esposizione alle Sale della Società Promotrice
di Belle Arti in Firenze”, in “La Rivista Europea”, anno I, vol. I, fascicolo
III, dicembre 1869, p. 563 ;
PIERO DINI - FRANCESCA DINI, Diego Martelli, storia di un uomo e di un'epoca,
Allemandi Firenze, Torino 1996, p. 227.
43) Cfr. TELEMACO SIGNORINI, “Repertorio autobiografico”, in E. SOMARE',
“Signorini”, cit., p. 277
44) Cfr. TELEMACO SIGNORINI, “Quadri d'invenzione venduti”, in BACCIO MARIA
BACCI, “L'800 dei Macchiaioli e Diego Martelli”, Gonnelli, Firenze 1969, p. 208
45) Le lettere di Sir James Lawton Wingate a Signorini sono conservate nella
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Carteggi Vari
46) Cfr. DIEGO MARTELLI, “voce
Abbati Giuseppe”, in Allgemeines Kunstler Lexikon. Der Namhaftesten
Fachgelehrten des in und Auslandes Herausgegeben von Julius Meyer, Leipzig,
Verlag von Wilhelm Engelmann, 1872, p. 10
47) Cfr. PAUL MANTZ, « Les Beaux Arts a l'Exposition Universelle », in « Gazette des Beaux-Arts », 1 luglio 1867, p. 12
48) Cfr. FRANCESCA DINI, « Dalla
macchia alla Belle Epoque : il geniale virtuosismo di Boldini », in
« Boldini », catalogo della mostra di Padova a cura di F. Dini, F.
Mazzocca, C. Sisi, Marsilio, Venezia 2005, p. 22.
49) Cfr. ETTORE SPALLETTI, “Signorini critico d'arte: lo “Zibaldone” della
Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti”, in “Telemaco Signorini. Una retrospettiva”,
Palazzo Pitti, Artificio, Firenze 1997, p. 239
50) Idem
51) Cfr. A. CECIONI, “Meissonier”, in “Opere e scritti” a c.d. Enrico Somaré,
L'Esame, Milano 1932, p. 23.
52) La lettera è stata resa nota da Alessandro Marabottini e Vittorio Quercioli
(Diego Martelli. Corrispondenza inedita, cit. 1978, pp. 177-179). Si veda
inoltre l'epistolario dell'artista in F. DINI, cit., 1989, p. 488.
53) Cfr. FERDINANDO MARTINI, La seconda esposizione nazionale di Belle arti a
Milano. VIII, in “Gazzetta di Venezia, n° 267, Venezia 4 ottobre 1872
54) L'articolo si conserva nello “Zibaldone” con l'annotazione di Signorini
“Ultimo articolo dettato da Martelli al Corriere Italiano il 1° novembre 1896”.
Diego Martelli morì a Firenze il 20 novembre di quell'anno.
55) Cfr. Illustrazione Toscana, 24 aprile 1887 (in FRANCESCA CAGIANELLI,
“Francesco Gioli. Il sentimento del vero”, Cassa di Risparmio di Volterra,
Nistri-Lischi, 2001, p. 62)
56) Cfr. DIEGO MARTELLI, “La Esposizione annuale alla Società promotrice di
Belle Arti”, in “Corriere Italiano”, Firenze 13 aprile 1895
57) Idem. Tali riserve riguardavano il dipinto di Adolfo Tommasi “Riflesso”.
58) Cfr. DIEGO MARTELLI, Silvestro Lega, in “La Commedia Umana”, vol. 3°, n°
45, Firenze 25 ottobre 1885 (ristampato in Diego Martelli, l'amico dei
Macchiaioli e degli Impressionisti, catalogo della mostra di Castiglioncello -
Castello Pasquini, a c. d. Piero e Francesca Dini, Il Torchio, Firenze 1996)
59) Cfr. FRANCESCA DINI, “L'Ultimo Lega”, in “Silvestro Lega, da Bellariva al
Gabbro”, catalogo della mostra di Castiglioncello, Firenze 2003, pp. 30-33
60) Cfr. CARLO SISI, “Terra promessa”, in “Silvestro Lega, da Bellariva al
Gabbro”, cit, pp. 41- 42
61) Cfr. PROUDHON, “Du Principe…”, in “Da Courbet a Fattori, i principi del
vero”, cit., 2005, p. 241
62) Cfr. RAFFAELE MONTI, “Maturità e privilegio di Fattori”, in “Giovanni
Fattori. Dipinti”, catalogo della mostra di Palazzo Pitti, Artificio, Firenze
1987, p. 82.