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Leone Contini. Cronache dalla città d’argento Di Raffaele Bedarida "La durata, il dolore degli uomini contano poco, Gli "agglomerati umani" di Leone Contini, gesticolante catena di uomini-ombra, sono ciò che rimane di un processo che avviene prima sovrapponendo successivi strati di materia pittorica; poi l’artista raschia con la spatola la vernice ancora fresca, ricercando la superficie della tela di un bianco non più vergine, e lasciando emergere le sue figure per sottrazione. |
Pupi V, 2005 |
Cronache dalla città d'argento, 2005 |
Questo accade nel grande ciclo Cronache dalla città d’argento che dà il titolo alla mostra, e nei due piccoli dittici Studio per panneggio e Senza titolo esposti per la prima volta nello spazio romano "davar". In proposito mi ha scritto Contini, "il pittore che dipingesse i personaggi in positivo, aggregando medium pittorico per costruirne i corpi, si arrogherebbe il diritto di conoscerli intimamente ovvero di comprenderne il dramma. Senza titolo, 2006 Vice versa io creo lo sfondo mentre i personaggi, di cui fondamentalmente ignoro le passioni, si stagliano su di esso come realtà potenziali: potrebbero esserci figure umane in quelle zone d'ombra che la mia spatola non indaga, potrebbero essere le ombre di uomini felici, festanti e sereni oppure, come sembra, infinitamente sofferenti". In casi meno frequenti, come nei due Pupi in mostra, è un ulteriore livello di pittura ad olio a mascherare lo strato sottostante, definendo così il brulichio di sagome antropomorfe, omaggio alle marionette del siciliano "Teatro dei Pupi". È in ogni caso un’immagine che si staglia in negativo, rispondendo ad un’esigenza di oggettività, argine ed elemento dialettico rispetto ad una materia che, come mi ha scritto l’artista, "si ribella a chi la plasma, è refrattaria, e comunque bisogna addentrarsi nei suoi meandri e capirne la logica per poterla rendere loquace". |
Studio per panneggio, 2006 |
Studio per panneggio, 2006 |
Lontano dal decorativismo di un Keith Haring, l’incastro in superficie degli uomini sintetizzati da Contini alla loro silhouette, è più vicina alla potenza archetipica e inquietante di un Penck. Significativo in questo senso il suo partecipe e manifesto interesse per una recente mostra dell’artista camerunense Barthélémy Toguo. Una moltitudine di piccoli uomini si agitano, danzano, talvolta riuniti in gruppi compatti, altrove rarefatti sulla superficie del quadro, e danno vita ad una scrittura primordiale di cui sono vocaboli elementari. Molte sono le analogie in questo senso con la contemporanea ricerca di Michal Rovner. Ma se l’artista israeliana lavora sull’immagine video o sulla fotografia digitale sottraendo i suoi omini dal contesto ambientale originario con una raffinatezza talvolta manieristica, e una politezza dove del procedimento non rimane traccia; al contrario Contini sceglie una pittura sporca, fatta di materiali organici, dove ogni passaggio nella gestazione del dipinto è registrato e irrevocabile. Questa dualità linguistica tra oggettiva scrittura in negativo e soggettiva materia magmatica corrisponde alla necessità di restituire la complessità del reale, lo stato di tensione perpetua che scaturisce dalla dimensione dialettica tra collettività, percepita come oggettivo dato di fatto, e soggettività individuale di chi osserva le vicende dell’uomo e ne è allo stesso tempo travolto. Esemplare è il ciclo di nove tele, in mostra: "Il titolo - mi ha scritto Contini nell’estate 2005 - è Cronache dalla città d'argento; la città d'argento è Srebrenica dove dieci anni fa esatti è stato compiuto il più grande massacro di civili dalla seconda Guerra mondiale, ma il decennale è stato mediaticamente coperto da altri clamori". Lo scenario è apocalittico, l’impianto iconografico rimanda al Giudizio Universale di Michelangelo, e i soliti piccoli uomini, fatti della feccia di vino (scarto melmoso della sacra bevanda), sono tutti accomunati nel dramma: sembrano danzare, si tengono la mano, divengono unica massa informe da cui fuoriescono braccia o gambe, rievocando una lunga serie di immagini che vanno dal Trionfo della Morte del Camposanto di Pisa alla già citata Rovner, dalla misteriosa macchia nera di The piper at the gates of dawn, primo album dei Pink Floyd, alla memorabile scena del Settimo sigillo di Bergman, dove in un paesaggio in tempesta, si staglia in lontananza tra cielo e terra la fila di sagome nere dei protagonisti guidati dalla Morte; infine, con più pertinenza tematica, rimandano alla tremenda danza che chiude Underground di Kusturica. Contini fa della pittura uno strumento per reagire all’indotta, comune condizione di passivo e distaccato spettatore dei fatti dell’uomo, mettendo in atto una dimensione corale caratterizzata, ha scritto, dal labile "confine tra la violenza istintiva della folla e la ricchezza simbolica di una moltitudine in festa". Cerca di capire mediante l’immagine, ed allo stesso tempo si rende parte della potente danza degli uomini-vocabolo, odierni geroglifici di una nuova narrazione epica. Articolo pubblicato il 13 marzo 2006 |