Orizzonte Cina
di Vittoria Coen
E’ invalso l’uso, in questi ultimi tempi, di esprimere stupore per la velocità dei ritmi dell’arte cinese degli ultimi quindici, vent’anni.
Non bisogna, però, rischiare di considerare come connotato principale di riferimento questa velocità. La questione temporale, con gli eventi di ordine politico e la loro influenza sull’economia di un così grande e popoloso paese, può naturalmente essere motivo di ammirazione e sorpresa, ma deve essere anche considerata insieme con un contesto di presenze culturali varie e complesse.. Il punto più interessante su cui soffermarsi può essere la varietà delle scelte di artisti, quasi tutti giovani e anche molto giovani che si trovano di fronte le radicate forme della tradizione estetica e l’urgenza di prendere posizione nell’attuale.
Se sono mancate certe fasi intermedie dell’arte, specialmente europea, se i dibattiti accesi e le contrapposizioni drammatiche di scuole e di tendenze, così vivaci nell’Ottocento e nel Novecento, la cultura cinese non ha certo dormito. Gli artisti europei e, per conseguenza, quelli americani, hanno percorso sottili passaggi, esplorato vie, affrontato antagonismi radicali e questioni minori che pure esprimevano, ed esprimono tuttora, aspetti della ricerca rivolta incessantemente all’approfondimento di temi e strumenti.
Ora l’antichissima cultura asiatica è, in un suo modo particolare, di fronte ad un impegno che sarebbe facile e riduttivo, anzi, scorretto, identificare col taglio del cordone ombelicale e delle comuni rassicurazioni storicistiche. La cultura cinese e l’arte cinese devono esser se stesse in un’identità che non è più quella della città proibita, ma nemmeno quella dell’omologazione passiva ad un nuovo che rapidamente invecchia.
E’ più che evidente che il presente non sta distruggendo il passato. Si va avanti, certo, molto velocemente, ma con grande sapienza, direi, e senza vistose tentazioni iconoclaste, attingendo a volte al patrimonio tramandato riconsiderato con gli occhi di oggi. E sono occhi che vedono i grattacieli e le strade affollate, individuano gli illusionismi delle metropoli senza revivalismi o avanguardismi di maniera.
Noi siamo tentati spesso, forti della tradizione occidentale e dei crediti di cui vantiamo, di andare alla ricerca di sintonie, di affinità fra artisti tutt’altro che consanguinei. Può essere un esercizio o un’eccitante caccia al tesoro la ricerca delle influenze di scuole. Ma mi sembra problematico interpretare, al solo scopo di procurarsi conclusioni onnicomprensive, come s’intrecciano nei giovani artisti cinesi, non soltanto linguaggi stilistici diversi per provenienza e per intonazione, ma anche l’atteggiamento di ognuno di loro di fronte ad una realtà e ad un modo di porsi come persone singole, consapevolmente e criticamente.
Wang Xiegwei avverte che le sue opere non documentano "una definizione logico unitaria". Si riserva di alterare sempre il punto di vista delle immagini, delle situazioni. Le sue citazioni evidenti svelano a poco a poco la variante intenzionale.
Sotto l’apparenza di un’impassibile accettazione del fatto si nasconde spesso la specificità della condizione umana. Nelle sue figure, così vagamente evasive He Sen non descrive corpi, ma situazioni emotive che il suo intervento d’artista vuole liberare evadendo dalla realtà banale, l’uomo del ventunesimo secolo si trasferisce in una sorta di trasfigurazione onirica.
C’è il consueto gruppo, gruppo di famiglia così frequente nella tradizione orientale, e c’è il gruppo dei capi di stato vincitori della seconda guerra mondiale (Shi Xinning).
I volti femminili di Feng Zhengjie sono belli, realizzati con colori forti e acidi. Le labbra carnose e seducenti contrastano volutamente con uno sguardo strabico, astratto, sospeso nella sua irrealtà.
Si afferma allora il tema del ritratto come soggetto di analisi. Le prospettive alterate, le deformazioni, le fantasie biomorfiche che arrivano a citare l’arte occidentale servendosi di un cammello con gli occhiali come protagonista (i Placebo di Zhou Tiehai) diventano un leit motiv. E’ un problema di identità forse? Mi sembra che questi artisti abbiano le idee molto chiare a proposito del patrimonio artistico che ci ha consegnato la storia in relazione ad un momento attuale complesso. Passato futuro, arte occidentale e arte asiatica, arte europea ed arte americana in un certo senso avvicinate. Non che si tratti, certo, di confondere Raffaello con Andy Warhol, ma il messaggio è certamente più politico che estetico. Se infatti una certa linea comparsa negli Anni Novanta prediligeva i colori cangianti simili alle serigrafie di Warhol, è pur vero che la Pop Art non è certamente l’unica fonte di ispirazione, se il concetto della trasfigurazione o quanto meno dell’alterazione del soggetto si inserisce benissimo nella tradizione storica culturale che arriva persino al nostro Rinascimento. Per un’analisi corretta non si può non tener conto che l’informazione ha comunque viaggiato sempre più velocemente. Non c’è tanto, quindi il dissenso, ma la critica costruttiva, la voglia inarrestabile di capire da parte di queste nuove generazioni. Anche il cinema asiatico ce lo racconta, attraverso la realtà di oggi, ma anche i funambolismi e i voli degli attori sullo schermo che più che tali sembrano atleti. Il drago cinese si è trasformato in un’esile figura femminile che volteggia tra le fronde degli alberi e che combatte contro il male, con lo spirito e con il corpo. Leggende e miti antichi e moderni scivolano tra i pennelli e i colori contaminati intelligentemente dal movie, dal cartoon, dalla scrittura antica, dalla pratica taumaturgica.
Eppure la pittura non è così frequentemente praticata dagli artisti. E’ molto più facile per noi l’incontro con la fotografia, specie di grandi dimensioni. Le recenti rassegne anche in Italia e in Europa lo testimoniano. Lo scatto interessa, ancora una volta, le immagini della famiglia, ma anche la straordinaria evoluzione della metropoli Pechino, vista con gli occhi di due giovinette in divisa. Realismo e voyeurismo si mescolano sempre in quel mistero impasto di sociale e individuale, di trasgressivo e di convenzionale.
Qui oggi è la pittura che domina, anche per un desiderio di penetrare più intimamente i segreti di un mondo che per troppo tempo è stato lontano dal nostro. E non ci basta di riconoscere un Eric Fischl o un Alex Katz in talune opere che solo all’apparenza, con questi riferimenti, ci potrebbero rassicurare sulla nostra conoscenza dei percorsi. Vogliamo capire perché noi rappresentiamo il passato e le nostre città vivono soprattutto delle persone coi capelli d’argento, mentre occhi a mandorla giovani e ribelli attraversano con lo sguardo i grattacieli e le ninfee del nuovo, antichissimo mondo.
Articolo pubblicato il 23 giugno 2005
|