Territorio creativo di Ligabue
di Luigi Cavallo
A qualcuno potrà sembrare che la mostra di Antonio Ligabue a Palazzo Reale sia
séguito di quel Miracolo a Milano che Cesare Zavattini, tra i primi sostenitori
del pittore, girò nel dopoguerra con la scena finale dei personaggi che
prendono il volo sulle scope…
Già in quella pellicola non era facile distinguere tra realtà e fantasia,
tenerezza e amarezza come ingredienti di duplice partitura che induce
l'individuo a riconoscere se stesso col disincanto della semplicità e della
sincerità, a costo di riportare a galla argomenti in disuso, magari romantici,
la nostalgia, la malinconia.
Entriamo nelle rustiche stanze di Antonio Ligabue e ci si presenta la natura rimasta negli occhi di un fanciullo: fogliame turgido, prati e grandi fiori aperti alla stagione dei sogni (La faina, 1931 c.; Fagiani, 1961 c.; Fagiani nel bosco, 1962 c.), animali raccontati dalle fiabe, con le fauci spalancate, gli occhi stellati (Leopardo che assale una gazzella, 1943 c.; Aquila con volpe, 1944 c.; Vedova nera, 1951; Tigre, 1954 c.; Leopardo, 1955 c.; Tigre, 1955 c.; Vedova nera, 1955 c.; Leopardo, 1957 c.; Leopardo, 1960 c.). Desiderio di evocare figure appartenute alla sua infanzia, favorito da una personalità che ha trattenuto lo spirito infantile, il privilegio e il dramma dell'infanzia, per tutta la vita.
Esotismo da circo equestre vestito, talvolta, di acconciature arcaiche (Circo
ambulante, 1937 c.); nelle dimensioni vaste dei luoghi un senso panico circola
come aria sospesa fra ribalta luminosa e ombra (Leone, 1948 c.; Volpe con
gallina, 1953 c.). Più volte l'immagine è saettata da un temporale improvviso,
da una tormenta: è il modo per il pittore di rendere palpabile il contrasto fra
visione esterna e interna, è il suo modo di urlare dolore e gioia offerti come
quadro della sua realtà.
Territorio, quello di Ligabue, che è una sorta di porto franco, ambiente
fiammeggiato di umori, di spazi evocatori tra memoria di racconti della jungla
e mondi onirici; sbalzi e ondeggiamenti di luce come per un mutare di panorami
a seconda del sipario emotivo (Leopardo con bufalo e iena, 1928 c.; Leone sulla
preda, 1931 c.; Gattopardo con teschio, 1933 c.; Leone, leopardo, cigno, 1937
c.).
Si va ad andatura lenta, per non farsi sfuggire le cose essenziali che qua e là
compaiono: un albero fiorito, un'erba strana, cavalli al lavoro o al pascolo
(Lavoro nei campi, 1954 c.; Ritorno dal lavoro, 1955 c.; Semina con cavalli,
1956 c.; La raccolta del fieno, 1958 c.; Ritorno dai campi, 1959 c.; Cavalli,
1959 c.; La raccolta dell'erba, 1959 c.; Cavalli, 1962 c.), armenti nei campi
(Aratura, 1934 c.; Aratura con buoi, 1953 c.; Ritorno dai campi, 1953 c.;
Lavoro nei campi, 1954 c.; Aratura blu, 1955 c.; Aratura con buoi, 1955 c.;
Ritorno dai campi con buoi, 1955 c.; Semina, 1959 c.; Aratura, 1961 c.), i cani
in ferma (Cane setter in ferma, 1943 c.; altra versione, 1958 c.; Cane e
paesaggio, 1953 c.; Cane in ferma, 1953 c.; Cani in ferma, 1955 c.; Cane
setter, 1958 c.; Cane da caccia con paesaggio, 1958 c.), la comparsa improvvisa
di una fiera (Testa di tigre, 1954 c.; altre versioni del 1955 e 1956 c.;
Leopardo, 1959 c.), di un rapace (Volpe con rapace, 1959 c.; Gatto selvatico
con nibbio, 1960 c.) così che finzione e verità si saldano con l'accelerato,
indocile fermento della pittura.
Pittura che in qualche occasione scatta di un corto circuito fra slanci amorosi
e desideri: riportare a vita corpi favolosi del regno animale e vegetale,
ammirabili più dei nostri casi umani.
Non appaiono strategie narrative o effetti studiati per ragioni artificiose o
meramente produttive: la rappresentazione è spiegata con verità e necessità di
svolgimenti interiori incontenibili: ne è testimonianza impressionante
l'affollarsi degli autoritratti che sembrano indagare il carattere di un
estraneo, in un ritmo dettato dal cuore (Totò il buono, primo titolo di Miracolo
a Milano) e dal mistero che regna fra luoghi intimi che rintoccano nel mondo e
nel mondo - conosciuto, sconosciuto, segreto - che penetra e fermenta come
magia nella mente lasciata libera a divagare sulle pagine dei bestiari
ignorando definizioni di spazi, di località, di civiltà: temi sorgenti da
fattori del tutto espressivi, luminosità e colori deviati dai binari abituali,
riflessi di sole sull'acqua che costruiscono le composizioni e sono la
spontanea varietà e vivacità dell'essere.
Quando la scena si impone con veemenza, sino alla ferocia, vengono coinvolti il
colore, la materia, energie di contrasti non solo formali; la superficie
sussulta scottata dai nervi.
Ligabue offre quel tanto di libertà e di ingenuità che abbiamo perduto con la
scaltrezza del moderno, la perpetua rincorsa del presente che si affaccia sul
futuro; serve a rimettere in discussione e a bilanciare gli artifici
intellettuali delle idee che hanno istituito accademie dell'originalità,
accademie delle novità e dell'avanguardia, uno standard di mode che si
intricano con la fotografia, fotomontaggi, virtualità sofisticate, accensioni
eleganti di egotismi, provocazioni studiate a freddo, irritazioni messe in posa
per stupire la borghesia…
Permane nei quadri di Ligabue una sorta di integrità arcaica che rianima ciò
che siamo stati; magari la traccia della tradizione, assunta senza scaltrezze
culturali, senza replicare formule acquisite o stereotipi. Odore di strame,
aie, pollai dove i galli combattono (Lotta di galli, 1945 c.; altre versioni
del 1953, 1954, 1956, 1960 c.; Pollaio, 1953 c.), sentore di erba appena
tagliata, di fieno, di acqua che ristagna nei canneti, di fumo, di terra smossa
dall'aratro. Ci è consentita una sosta insieme inquietante e accogliente
nell'opera di Ligabue, un arricchimento del vocabolario per accostamenti mai
usati nell'iconografia dell'arte nostra.
Abbiamo una tavola imbandita di colori, il manifestarsi di espressioni e
costumi contadini, che sono ormai solo documentari di una società passata,
primordiale e quindi hanno il fascino del tempo perduto; un ambiente che il
suono delle campane colma di richiami religiosi; il vino e il pane sfornato
presto, quando ancora la bruma e la nebbia corredano di aloni le pianure piantumate.
Senza volerlo - ma, chissà? - Ligabue ha messo in pagina un tempo, il suo,
fatto di soggetti simbolici, di compagnie che aveva scelto per caso e per
amore, soprattutto gli animali, ci ha rivelato una differente visione della
natura: è riuscito, con risorse davvero povere, a dare vita lunga a un coro di
innocenti piaceri, di percezioni, avvenimenti conosciuti o immaginati che
nell'insieme, con una gamma cromatica inusitata, hanno aggiunto motivi a quanto
sapevamo, e ci hanno fatto capire che non sapevamo tutto delle cose dell'arte.
Ci mancavano gli abitanti di un mondo che sta al di là del nostro quotidiano;
aria e fuoco di immagini da osservare con lo sguardo stupito del viaggiatore, e
i sapori dei frutti selvatici, piccoli e fragranti pomi, coloriti dal freddo,
quelli che si colgono nei boschi e si ricordano per sempre. Più che possibile,
con le differenze di Ligabue, che si abbia voglia di sentire scorrere sangue e
linfa nel corpo della creatività contemporanea anziché acido e silicone. È così
che il pittore assolve la sua parte, e aggiunge un capitolo alla nostra vicenda
artistica.
Certo Ligabue ci conduce per sentieri non lastricati, fuori mano; lo seguiamo
volentieri, specie adesso che si sono esasperate fino alla sazietà le scuole e
le scuolette dei rifacitori dada, dei fumisti cinetici, dei rimasticatori della
cattiva coscienza europea e americana i quali esibiscono ferite e morte, sesso
deforme, macabrismi, fingendo di voler curare il pianeta.
Di cose reali e irreali insieme, di figure favolose e mitiche ci racconta
Ligabue con la sua voce senza note aggraziate, talvolta roca come il verso
della tortora, i richiami lungo le sponde dei fossi, eco di umanità e di
sincerità. Una «voce» che Pascoli sentiva come tremito di batticuore nel colmo
delle sue schiette nostalgie.
La pittura di Ligabue, cresciuta nella campagna padana e nel ricordo indelebile
del suo nordico Cantone svizzero, un impasto di gotico e di realismo (Diligenze
con castello, 1952 c.; Trasporto della birra, 1953 c.; Diligenza, 1953 c.;
Ritorno dai campi con castello, 1955 c.; Volpe con paesaggio, 1955 c.; Volpe e
castello, 1956 c.; Volpe in fuga con paesaggio, 1956 c.; Fattoria teutonica,
1960 c.; L'incontro, 1960 c.), riesce a infondere, in chi sa guardare, quel
tanto di orgoglio barbaro, quel tanto di amore senza condizioni per tutto
quanto l'autore ha visto e toccato, da farci resistere la speranza di un luogo
ancora possibile da frequentare con il fascino acerbo dell'incanto; la
necessità - non poi marginale nel gioco attuale di cancellazione dell'umano -
di tener vivo quel fanciullo che ci mantiene limpido lo sguardo, ben sopra le
cupe inerzie dell'esibizionismo, dello snobismo, della stupidità spacciata per
stile.
Nulla che non abbia vita nella carpenteria di Ligabue dove è contenuta
l'intensità del colore e la sua svolta drammatica, l'alternanza d'ombra nera.
Non c'è forma che non sia stata fulminata da una sorta di passione, come fosse
stata ripensata dopo una festa, nel colore ancora della festa, dell'allegoria -
unica dimensione possibile per assaporare a pieno la bellezza originaria della
sua terra - e con il desiderio di far partecipare tutti a quello spettacolo,
anche quando i suoni sono spenti insieme con i fuochi.
Ligabue esalta questo piacere, euforia da luna-park che diviene illuminazione;
avvince gli spettatori al suo teatro, vuole incantarli come lui stesso lo è
stato, come seguiterà a esserlo per tutta l'esistenza, aiutato dalla follia,
finché avrà colori da comporre in quadri, finché avrà voglia di figurare.
In altri autori troviamo questa accentazione/esaltazione delle forme e delle
figure che suscita suggestioni con la semplice fragranza e foga del colore. In
Maurice Utrillo ci pare ritrovare un parente prossimo a Ligabue; senza usare
misure improprie e lasciando ciascuno nel suo ruolo, si può godere idealmente
dei paesaggi di Utrillo, incantati e vetrini, e di quelli di Ligabue, campiti
di aspetti illusionistici (è l'illusione della nostalgia).
Basterebbe il dipinto del 1954 c., Lavoro nei campi, dove in secondo piano è un
villaggio di case coi tetti a capanna, il campanile, la ciminiera. E Il mercato
di Suzzara (1961) compitato come una sorta di Montmartre, dove brillano affetto
per il luogo e gusto di percorrerlo pennellata per pennellata, con i colori di
un caleidoscopio domestico: citazioni che fanno consanguineo il piacere
narrativo di Ligabue che si ispirava alle illustrazioni delle riviste a quello
del pittore francese che teneva a modello le cartoline postali di Parigi.
Eppure tra la stampa copiata e l'opera d'arte si interpone quella magia di
laccatura poetica, d'invenzione linguistica, quella corteccia fatta di languore
e felicità che provoca l'emozione e la suscitazione vitale.
Troviamo in Ligabue un insieme di qualità semplici e di efficienza d'immagine
da soddisfare quel profondo emozionale che ci scuote; riconosciamo la storia
che ci tiene su una idea di bellezza come verità sentimentale e urgenza
espressiva. Arte come organismo che non necessita di alchimie mentali né di
impervie sofisticazioni. La malizia accademica non ha cittadinanza nella percezione
di una totalità creativa.
Il percorso nella natura e nelle stagioni - ed è sempre viaggio simbiotico tra
uno spirito tormentato e un sogno che prede forma (Cavalli all'aratro, 1952 c.;
Diligenza assalita dai banditi, 1954 c.; Lotta di cervi e postiglioni, 1955 c.;
Traversata della Siberia, 1956 c.; altre versioni del 1958 e 1959 c.; Cavalli
nel cortile, 1959 c.) - Ligabue lo compie insieme con gli animali, insieme con
i contadini che guardano l'orizzonte e riconoscono dai colori del cielo il
senso di una giornata.
Qualcosa splende nella sfumatura dei prati, non sono soltanto i fiori bianchi e
rossi, ma anche la coscienza di una continuità: si compiono gesti che
partecipano da secoli il pensiero occidentale, sono richiamati i ritmi
terrestri, i primi bagliori dell'alba che procurano gioia, il mistero
drammatico della sera che si sfoglia fino alla notte.
Forse è questo impasto di emozioni, di sorprese, di sortilegi cromatici che
porta il discorso al di fuori di considerazioni più strettamente critiche; del
resto il pittore di Gualtieri non ha mai lavorato rispettando criteri
riconducibili ai canoni della nostra storia; ha preferito aggiungere una voce
che entrare nel coro.
Ligabue abbaglia la linea di confine, appunto, tra colore e buio, tra arte e vita,
strappa gli argini delle convenzioni temporali e stilistiche: un folle può
rifiutare le cadenze quotidiane, combinare epoche, ambienti, zone geografiche
ignorando precauzioni e coerenza; essenziale che i suoi quadri mantengano
svegli, senza pause, i nostri sensi alle meraviglie dell'universo.
Antonio Ligabue. L'arte difficile di un pittore senza regola
Milano - Palazzo Reale
P.zza Duomo, 12 - Milano
Dal 20 giugno al 26 ottobre 2008
A cura di: Augusto Agosta Tota