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Sul ciglio dell’abisso Di Flavio Arensi All’amico Paolo Castioni Come fantasma inquieto L’abisso profondo della nostra esistenza debutta ai limiti della realtà quotidiana, quando determinatezza e sogno frangono l’uno nell’altro senza opzione di riscatto, bensì ingabbiano nella prigione costante del dubbio. Parlo di un sospetto estremo, che avvampa il cuore, lambisce l’animo e intristisce (risultato assai peggiore), rende gli oggetti e le persone, i ricordi e le attese, ombre spente in perpetuo apparire, poi svanire, poi apparire, ancora svanire. Siamo noi materia o creatori di sogni? Talvolta, l’occhio nobile del poeta - o dell’artista - frange i vetri che separano gli uni dagli altri, un ambito dal successivo; così emerge il vero; così le valve della natura dischiudono per rivelarci i segreti prima ignoti; il nostro stupore apprende la contemplazione, e scopre che l’oggetto contemplato è l’amore. Null’altro che questo, nelle sue innumerevoli forme. Soltanto l’amore è reale, il resto si oscura nella nebbia cinerea del dubbio, del dubbio di non esistere affatto, d’essere l’esito di sogni altrui, il personaggio di un romanzo scritto da mani diverse. Seduti nel bosco, accanto a un fuoco, la verità si sente o percepisce come lo schiaffo, monta dal punto estremo del nostro organismo, si diffonde come un’ondata calda che tutto travolge. La verità; che non eguaglia il fattore oggettivo, ciò che sembra o appare, anzi ciò che tangibilmente e visivamente può ratificarsi per misura. La verità non è scibile dottrinale, bensì coscienza; e qui si dovrebbe mostrare il pudore di cessare le spiegazioni senza stratificare parole a parole: allorquando i sensi sono mendaci, tacere spiega meglio di troppe enunciazioni: l’autentica lingua dell’uomo è il silenzio, quella del creato – invece - la melodia perfetta cantata dalle gerarchie celesti, dai pianeti, dagli astri. Aldo De Vidal ha superato il ciglio del baratro, si è lanciato nel vuoto che stanzia fra situazione reale, direi sociale, e ricognizione lirica, ai confini dell’incubo. Gettatosi dal pendio delle nostre costrizioni mentali, dai recessi morali che le etichette e le formalità stipano di epidermici non-sensi, da lì il pittore si è sporto per librare nel pieno possesso delle facoltà interiori, del suo raccontare i frangenti per prenderne parte, per sentirsi in qualche modo egli stesso il protagonista di un copione teatrale diverso da quello quotidianamente recitato a beneficio degli astanti. Chi sono costoro che in continuo ci scrutano? Altri esseri umani, persi e dispersi nelle problematicità della vita, che col maturare degli anni s’adattano all’inquietudine e ai condizionamenti collettivi. L’uomo, appena nato, già abbastanza vecchio per morire, scampa al destino con l’uso costante dello della meraviglia, dell’incanto che cancella spazio e tempo, rivelando l’infinito nascosto dalla pratica e dalle normali vicende dell’esistenza. De Vidal non legge con malinconia o indifferenza il fatto esteriore, poiché accetta la burla della vita, anzi ne raccoglie i dati col pretesto pittorico del Novecento, partecipandovi. Ecco, la compartecipazione è significativa del suo magistero, del suo risveglio. Vi sono differenti approcci al dato sensibile, o alla natura; il primo risponde alla mera osservazione, che designa lo stato cognitivo più semplice. Si prova quindi interesse, che di norma è un passaggio transitorio. Il terzo corrisponde al guardare: ciò permette al mondo di invadere chi lo guarda portando seco le aspirazioni remote. Lo stato migliore è - all'opposto - quello contemplativo che annulla l’io del soggetto e quello del mondo, permettendone una compenetrazione piena. De Vidal, si pone in attitudine giudicante, che denota l’ingresso del suo io attivo in quello della natura, delle cose, degli uomini. Si tratta di un lavoro critico, che al termine risolve nella formulazione di una sentenza, quasi mai affatto palese, però riscontrabile quadro per quadro, personaggio per personaggio, bestia per bestia, arbusto per arbusto. L’ambiente in cui egli contestualizza le proprie parabole figurative si compendia nell’atmosfera agreste della montagna, dei suoi abitanti, trasfigurati e ingigantiti come i protagonisti di un’epopea olimpica. La pittura affastellata, scorre vischiosa franta di nebbia, una foschia che filtra il colore stesso e ricorda le vagheggianti nebulotiche pance dipinte dal Bastianino dopo la scoperta tizianesca. Sì, le pance dei suoi eroi nudi, quelle pance dalla pittura sconvolta irritata e furente. In De Vidal l’impasto irradia col vigore di una cromia allucinata, tanto da annullare qualsiasi atmosfera blanda, piuttosto essa notifica l’irruenza tragica del dolore. In tale congiuntura il sogno – ancora il sogno – diviene protagonista narrante, avvolgente, assuefante. Ma non il sogno di un solo uomo, del pittore, bensì dell’intero corpo sociale, giacché quello del singolo è un’illusione, quello di due o più singoli è la realtà. Non ho detto moltitudine, ma singoli, perché i suoi soggetti singolarmente disputano la tenzone col fato, e non rappresentano altro che individui parte di una moltitudine, senza via di scampo, senza prerogativa di fondersi in un unico organismo, almeno fino al trapasso finale della loro dolenza. Dilatano le forme, in De Vidal, coll’inversione proporzionale dello spazio pittorico, che invece delimita la scena a scorci, a brevi folti sketch muti tuttavia grondanti del senso soffocante che la montagna inocula nei suoi montanari, e la nostra cosiddetta civiltà nei suoi civilizzati lavoratori: perché così - per anni - sono stati suddivisi i figli di Dio, lavoratori e disoccupati. L’umanità che emerge dalla pittura (e dalla poesia) di De Vidal non perequa ma distingue, con capacità etica e laica, un individuo dall’altro. Non contadini, boscaioli, scalpellini, semplici idioti, ma esistenze ai limiti della pietas. Se dovessi cercare nella nostra storia dell’arte un’esperienza similare, volgerei la mente a un altro artista vissuto sulle cime alpine, Antonio Stagnoli, oppure alla strisciante e reclusa padanità (quella della Bassa) di Sergio Battarola; essi assommano i segni di natura e umanità, né si scompongono di fronte alle distorsioni dell’indole umana, che disegnano senza vergogna di difetti (e di pregi). Eppure Stagnoli non grida, non dirompe nell’urlo scatenato da De Vidal, il quale invece aggiunge alla cronaca delle voci e dei deliri una condizione che talvolta appare disperata; disperazione trasmutata da Battarola in cosmogonia antica e viscerale. La speranza, d’altronde, è prerogativa della fede, testimoniata dal solo Stagnoli. Per tutti, la fragile membrana divisoria fra questo e quell’altro universo (e voglio intendere con difficoltà di definizione due ambiti fra loro diversi e difficilmente definibili, come appunto realtà e fantasia) innesca l’alterazione dei lineamenti, non per uno sfogo espressionista della voce interiore, ma per l’impossibilità di contenere nel tratto definitivo e perentorio l’incongruenza dell’esperire terrestre, carnale, che questa pellaccia ci costringe a patire. La vita, sì la dannata vita di tutti i giorni, è da loro interpretata alla maniera di un nuovo straordinario mondo parallelo. De Vidal dichiara attimo per attimo lo sbalordimento ammirato di fronte alla congerie vivente. Ne descrive i parametri di sussistenza (che definirei quasi sopravvivenza), denunciando le nefandezze e i desideri; nondimeno, con ingenuità istintiva e animalesca, egli continua pazzamente ad amare. Qui subentra il vaglio etico e laico dell’autore, ossia una scelta che serbando la visione del sacro, ma non la costruzione religiosa (persino quando dipinge il Cristo in croce), innalza gli ultimi, gli irreparabili, gli incurabili addormentati nei loro lazzaretti mentali, quali esempi gloriosi di un altrove immaginato. In De Vidal c’è il sogno, e con esso la nebbia, e tutta la gente, il popolo dei villaggi (più che delle città), riunito in una sorta di contemplazione trasognata cumulativa, collettiva. Si scende nelle piazze, si entra nelle botteghe, si attraversa il bosco, con l’unico scopo di partecipare, di credere in una realtà-verità reciproca. Il clan, lo stato, non propongono altro che una serie di patti più o meno fuorilegge, defraudando l’anima della persona di quel sostrato magico e misterioso che l’attualità non può concedere. Ecco, questo mondo, a differenza di De Vidal, confonde realtà con attualità, epica e cronaca. Perduto lo spazio, o meglio, sconfitta l’urgenza di misurare il palcoscenico della nostra sconfitta, il pittore distrugge anche i parametri temporali. Semplicemente non ne tiene conto, bensì cerca un regolatore interno alla natura, segnata dal flusso ordinato delle stagioni, con fioriture e appassimenti. De Vidal cancella il tempo, casomai parla di ere: ben altra cosa dalla ripartizione di un banale orologio. Si possono trasportare le sue visioni al domani, farle ricapitare nell’altrieri, riportarle all’oggi: le metafore funzionano, comunque. Ciò accade a colui che non obietta al tempo l’esistenza e la necessità, ma semplicemente ne partecipa dello scorrere, senza paura. Egli stanzia sul ciglio dell’abisso, sopra il nulla concitato dell’epoca moderna, privo del timore reverenziale che i costumi e le ideologie pretendono, straniero ai soliti affanni domestici, bandito dall’arte minimale nihilente l’umana dignità: il sogno sale come bruma sottile dalle pendici dei monti, sorge fitto come i ricordi più grati (o più amari) entro i gangli del cervello. Lì; lì confonde e acceca l’oggettività delle cose, riduce il pensiero e le filosofie al (shakespeariano) dubbio: essere o non essere? Non essere annullerebbe qualsiasi problema. De Vidal accetta l’esistenza coll’ottica sognante. Nella nebbia che chiude i cuori, ma non cancella l’amore. E di troppo amore non si può soffrire. Di troppi sogni, neppure. Articolo inserito il 14 aprile 2004 |