Arte

Brevi riflessioni sugli autoritratti di Ligabue

di Pascal Bonafoux

1 - Antonio Ligabue è nato il 18 dicembre 1899 ed è morto il 27 maggio 1965. In questo arco di tempo, più precisamente tra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Sessanta, ha dipinto 868 tele, compresi i 123 autoritratti, cui vanno aggiunti i disegni e una scultura che rientrano sempre nella stessa categoria.

Antonio Ligabue - Autoritratto - Olio su tela, 40 x 30 cm

Ligabue ha appena quattordici anni quando la parola 'autoritratto' fa la sua comparsa in un dizionario italiano - almeno a giudicare da quanto riportato dal Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli (Zanichelli Editore, Bologna 2000, pag. 182) secondo il quale il termine è apparso nel 1913. Questa precisazione linguistica serve a sottolineare come tra l'espressione 'ritratto di pittore per sua mano', definizione utilizzata nelle epoche passate, e il termine 'autoritratto', concetto più recente nato meno di un secolo fa, le cose non sono rimaste esattamente le stesse...
Le implicazioni di un autoritratto del XX secolo non sono più (forse) come quelle di un ritratto. Un ritratto è una vanità che posa davanti a un'ambizione, e l'ambizione (del pittore) deve piegarsi a fare concessioni alla vanità (del modello)... La regola del gioco è chiara e immutabile: la ragion d'essere di un ritratto è che il modello sia riconoscibile. Un autoritratto, invece, rappresenta un'inquietudine consapevole del fatto che la sola realtà di un artista è la sua opera. Il pittore vuole che la sua opera sia riconosciuta perché essa, dopo la morte, è la sua unica vita.

2 - Antonio Ligabue dipinge un solo autoritratto nel 1940, il primo di una lunga serie (ammettendo che altri realizzati forse precedentemente siano stati distrutti o persi). Nel 1962, l'ultimo anno in cui si prende come modello, ne dipinge sette. Tra queste due date non ha mai smesso di ritrarsi, tranne per quattro anni consecutivi, il 1944, il 1945, il 1946 e il 1947. A causa di una psicosi maniaco-depressiva, viene internato il 14 febbraio 1945 al San Lazzaro. Trasferito al Lombroso il 2 marzo successivo, ne uscirà solo il 6 novembre 1948. Nonostante in questi anni di internamento fosse libero di andare e venire, di ricevere visite e dipingere, non ha mai realizzato autoritratti, forse perché non gli era stato dato uno specchio... L'ipotesi, tuttavia, è praticamente impossibile da dimostrare. Se però esistesse la possibilità di verificare questa supposizione, ovvero gli archivi di questi istituti dovessero confermare che il pittore non disponeva di specchi, si dovrebbe riconoscere che tra il 14 febbraio 1945 e il 6 novembre 1948 per Ligabue era materialmente impossibile ritrarsi. La corrispondenza tra il catalogo delle opere e gli avvenimenti riconducibili a una data specifica sarebbe perfetta. Questo permetterebbe di dedurre che gli autoritratti eseguiti da Antonio Ligabue corrispondono necessariamente a determinati episodi, situazioni o stati psicologici. A questo punto, però, verrebbe da chiedersi perché, se ha dipinto un autoritratto nel 1943, non lo abbia fatto anche nel 1944, visto che non era stato ancora internato... E perché, nonostante abbia iniziato a dipingere dalla fine degli anni Venti, non esista traccia di un solo autoritratto prima del 1940. In questo anno, tra l'altro, a dispetto di un episodio di internamento avvenuto il 23 marzo 1940, giorno in cui viene condotto all'ospedale San Lazzaro, Ligabue si ritrae. Inoltre è proprio grazie al direttore dell'Istituto Psichiatrico dell'Esquirol, dove era stato trasferito il 20 aprile 1940, che il 12 luglio 1941 Ligabue riesce a far giungere a Luigi Bartolini un autoritratto molto atteso che però aveva evitato di inviare prima «perché i colori non si decidevano ad essiccare». Antonio Ligabue disponeva quindi di uno specchio per ritrarsi, che forse gli fu tolto successivamente. Questa domanda implica un'ipotesi tanto inverificabile quanto vana che lascia intendere come gli autoritratti di Ligabue potrebbero essere una sorta di diario, cosa in realtà falsa perché queste opere non sono né 'illustrazioni' né il racconto della vita del pittore.
L'8 giugno 1961, Antonio Ligabue, che ha ottenuto la patente di guida per la motocicletta il 15 febbraio precedente, ha un incidente e viene ricoverato all'ospedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia. Se del periodo in cui è ferito non abbiamo autoritratti, in compenso Ligabue è stato particolarmente prolifico nel dipingersi in veste di motociclista, in particolare nel 1952 (241 ), 1953 (376) e 1956 (377), mentre nel 1954 abbandona la posa in sella alla moto rossa, ritraendosi solo con un berretto da centauro in testa. In nessuna delle tre raffigurazioni di questa moto rossa viene minimamente indicato che si tratta di una Guzzi. La marca viene desunta dalla memoria di coloro che furono testimoni della vita di Ligabue, o dal racconto un meccanico di Reggio Emilia di nome Bertacchini che accettò di barattare la moto di grossa cilindrata con alcuni quadri del pittore... Da fonti esterne veniamo a sapere ciò che queste tele non dicono, nemmeno quella (243) in cui la moto è rappresentata più dettagliatamente, dietro al pittore ritratto in piedi sull'argine del fiume davanti al cavalletto sul quale è posata una tela con un cane dal pelo a chiazze rosse accanto, lo stesso che in un altro quadro corre dietro a una moto identificata con il numero 27 (610). Medesima situazione anche per un'altra moto (609), questa volta con il numero 71, che non è seguita da nessun cane e che passa nel senso inverso. Non è neanche possibile appurare se i motociclisti con il casco in testa, che sfrecciano su una strada bordata da pali della luce i cui fili sembrano tracciare dei pentagrammi nel cielo, siano o meno Ligabue. Possiamo solo fare delle ipotesi. Ma a che pro? Per fare in modo che la pittura concordi con quello che si sa o si crede di sapere della vita di Ligabue? Per rassicurarsi. Bisogna essere consapevoli del fatto che raccontare delle storie, evocare le moto Guzzi, citare un meccanico di Reggio Emilia, fantasticare sul sentimento di potenza e di libertà che avrebbe provato Ligabue in sella alla sua potente motocicletta permette, subdolamente, di non parlare della pittura. Una cosa assurda, indecente.
Per dimostrarlo basta fare un esperimento. Courbet, Gustave Courbet (1819-1877), affermò a uno dei suoi mecenati che si era dipinto così tante volte da aver raccontato la storia della propria vita attraverso i suoi autoritratti. Una volta letta questa affermazione non resta che raccogliere tutte le opere di Coubert in cui l'artista si è ritratto, con un cane nero, in un atteggiamento disperato, da scultore, da amante della campagna, con una cintura di cuoio, con un violoncello in mano, con una pipa in bocca, ferito, nell'atto di salutare il mare, mentre viene salutato da un banchiere e dal suo cameriere, con il profilo assiro della barba, in prigione..., e tentare di raccontare la sua vita. Ma dopo aver farfugliato, balbettato e sbiascicato qualche luogo comune sulla vanità di Courbet, non resta che tacere perché ci si rende conto che l'artista, con i suoi autoritratti, non racconta proprio niente. Il fatto però che queste opere non dicano nulla sulla vita di Courbet non significa che non siano eloquenti espressioni della sua arte...
Lo stesso vale per Rembrandt (1606-1669) che ha disegnato, dipinto e inciso un centinaio di autoritratti. (Devo mantenermi su questo numero vago perché il catalogo delle sue opere viene continuamente corretto per via dell'esclusione di falsi, eliminazione di copie, aggiunte di opere precedentemente scartate...). Gli autoritratti del fiammingo non raccontano assolutamente la sua vita, non hanno proprio niente da dire su di lui, sono solo segni della sua ambizione di pittore, di artista che inventa una forma di pittura incomparabile. Perciò parlano solo di pittura. 

3 - Le opere di Antonio Ligabue parlano solo di pittura. La dimostrazione è in un dettaglio che si trova sempre qua e là nei suoi autoritratti, come anche in quadri di altro soggetto: una farfalla svolazzante. Bianca. Un giorno qualcuno gli chiese per quale motivo sentisse il bisogno di aggiungere una farfalla alle sue opere nonostante sembrassero complete. La sua risposta fu immediata: «Questo è il premio che mi do quando un quadro mi soddisfa più di un altro».  Da questa affermazione si capisce che si tratta solo di pittura, nient'altro. La presenza o l'assenza della farfalla è un indizio decisivo, un criterio implacabile. Solo cinque autoritratti di Ligabue si sono meritati, secondo l'artista, la farfalla. Due nel 1953, i numeri 733 e 753, uno nel 1956, l'858, uno nel 1957, il 491 , e infine uno nel 1958, l'856.
Il fatto che Ligabue abbia contrassegnato solo cinque dei suoi 123 autoritratti non significa che i restanti 118 siano indifferenti. La farfalla di Ligabue riveste lo stesso ruolo che aveva la firma per Vincent van Gogh (1853-1890). Il pittore olandese confidava al fratello Theo di firmare solo le tele di cui era soddisfatto, e questo accadeva una volta su dieci... Quanto agli autoritratti di Van Gogh, una quarantina, non tutti sono firmati. E anche in questo caso è fuori questione disprezzare quelli che non lo sono. Queste opere sono, a ragione, i rivelatori più veritieri della ricerca pittorica dell'artista. E il modo più sicuro, più disponibile ed economico di mettere alla prova i risultati di questa ricerca è usare se stessi come modelli, senza rischiare contestazioni una volta finito il lavoro. Quando Vincent van Gogh dipinge se stesso non ritrae un uomo stanco, esasperato, dedito all'alcol, minato dalla sifilide, instabile, fragile, malato... dipinge semplicemente Van Gogh, indipendentemente da tutto quello che lo consuma, lo opprime e lo distrugge. Dipinge una maestria che trascende ciò che subisce e lo ferisce giorno dopo giorno. 
Allo stesso modo Ligabue non ritrae i segni di ciò che lo ossessiona e lo minaccia. I ritratti che fa di se stesso non sono dei bollettini medici, e l'intensità dello sguardo verso lo spettatore è quella di un uomo che scruta lo specchio con un fervore fuori dal comune perché si sta dipingendo. I suoi autoritratti non hanno niente a che fare con una crisi esistenziale, con una malinconia, una paura o un'inquietudine... Anzi, lui sa che ritrarre se stesso significa tenere testa a tutte queste minacce, scongiurarle.

4 - Non è certo un caso se, tra i primi autoritratti realizzati da Antonio Ligabue, due siano dei profili. Il primo è stato eseguito nel 1942 (128), e il secondo nel 1950 (127). Ligabue avrà mai letto la prefazione de Le vite scritte dal Vasari? È improbabile. Tuttavia, bisogna partire dal profilo che è il fondatore di tutti gli altri. Vasari narra a proposito della pittura che «...secondo che scrive Plinio, questa arte venne in Egitto da Gige Lidio, il quale, essendo al fuoco e l'ombra di se medesimo riguardando, sùbito con un carbone in mano contornò se stesso nel muro». Inconsciamente forse - cosa che non cambia lo stato dei fatti - Ligabue si misura con il mito e comincia a dipingere. Lo fa per inventare la pittura e per confrontarsi con coloro che ebbero la stessa ambizione nei secoli passati.
In numerosi autoritratti di Ligabue si può notare la presenza di una mosca; in due di questi in particolare, è posata sulla sua pelle. In una tela del 1956 (359) sta sul collo, mentre su un'altra del 1960 (862) si trova sulla fronte. In ogni caso è una presenza che importuna. Basterebbe un gesto della mano per scacciarla... Ligabue non ha posato questa mosca sul collo o sulla fronte per distrazione. «Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta in sul naso d'una figura che esso Cimabue aveva fatta una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d'una volta a cacciarla con mano pensando che fosse vera, prima che s'accorgesse dell'errore». Anche in questo caso Ligabue si misura nuovamente con il mito.
Ligabue che dipinge inventa la pittura come Gige Lidio. Ligabue che dipinge inventa una realtà che lo trasporta su qualsiasi altra come Giotto. O, meglio, la sola realtà di Ligabue è la sua stessa pittura.

5 - La nascita di Antonio Ligabue è stata registrata all'ospedale femminile di Zurigo il 18 dicembre 1899. Nel registro di stato civile compare come Antonio Costa, con il cognome della madre, Maria Elisabetta. Poco dopo però diventerà Antonio Ligabue perché il patrigno, Bonfiglio Antonio Domenico Ligabue, decide di legittimarlo dandogli il proprio cognome. Quasi nessuno lo chiamerà con il suo nome, usando, nel migliore dei casi, il diminutivo «Toni» oppure appellativi come «tedesco» o «vagabondo», o dispregiativi come «il matto» o «al mat». Lui stesso non userà mai il cognome del patrigno che cambierà con Ligabue. Dipingere, dipingere se stesso, è un modo per inventarsi un'identità.

6 - Bisogna ancora decifrare il ruolo di questi uccelli neri che spiegano le ali su cieli di un azzurro uniforme o carichi di nubi, o il significato delle libellule che ogni tanto si vedono volare nelle sue tele, o il senso del cappello indossato (raramente) dal pittore o del berretto (tre volte se non sbaglio). Bisogna domandarsi perché è importante per lui ritrarre alle proprie spalle della carta da parati con motivi di ovali e losanghe. Bisogna notare il modo singolare con cui rappresenta la propria calvizie che, di anno in anno, avanza, arretra. Bisogna inventariare quelle ciocche che talvolta dipinge drizzate come i denti di un pettine. Bisogna osservare da vicino le sciarpe che annoda intorno al collo. Bisogna... Bisogna ancora tentare di comprendere il significato di dipingersi davanti a uno spaventapasseri piantato in un campo o davanti a una vista di Gualtieri senza per questo citare un testo della pro-loco che vanta la bellezza della piazza progettata dall'Aleotti detto l'Argenta... Bisogna...
Bisogna infine ammettere che gli autoritratti di Antonio Ligabue sono una metamorfosi. Ligabue è ed è solo una cosa: la sua opera. E per realizzare una tale metamorfosi è necessaria una determinazione, una forza e una lucidità tali che né un «pazzo» né un «naïf» possono avere…

7 - L'autoritratto implica una metamorfosi. È un'esigenza inesorabile perché l'autoritratto alla domanda “Chi sono?” risponde “Sono quest'opera”. È necessario quindi che l'opera mostri un'identità incomparabile.
L'albero genealogico di un'opera può registrare e identificare solo e sempre delle origini. Non può mai definire l'eccezione che ne prende forma. Antonio Ligabue, però, ne inventa una. 
Per dimostrare quanto affermato, devo ripercorrere brevemente il bestiario di Ligabue, senza tuttavia abbandonare gli autoritratti. Si tratta, in particolare, di cani: il primo è un cane da caccia , il secondo è un meticcio dalle zampe corte . L'esecuzione del primo, rappresentato mentre fa la punta con la zampa destra sollevata, è polita, fluida, con ombreggiature appena accennate. Il secondo, invece, è raffigurato con macchie di colore e tracce di brevi pennellate cariche di colori 'arbitrari', come i verdi e i gialli. Nell'intervallo di tempo che separa i ritratti dei due cani, Ligabue è passato dalla convenzione all'invenzione. In poco più di trent'anni - il primo cane risale al 1929, il secondo al 1960 -, il pittore è passato da una rappresentazione realizzata secondo regole imposte esternamente a quella che lui e soltanto lui voleva.
Anche gli autoritratti, a modo loro, con le loro sperimentazioni, incertezze e contestazioni, raccontano il processo di elaborazione dell'opera dell'artista, perché ciascuno di essi rappresenta un rischio, mostra i segni della ricerca di Ligabue della sua identità di pittore. Lo scopo di questi autoritratti non è tanto quello di assomigliare al modello, quanto a quello che l'artista ha eletto a sua forma d'arte.
Per verificare una tale asserzione è necessario osservare e descrivere meticolosamente, scrupolosamente e precisamente ogni autoritratto di Ligabue. A tal fine riporto di seguito alcuni esempi. 
Nel 1941 Ligabue si ritrae con una camicia bianca dal collo aperto e un gilet abbottonato sullo sfondo di un motivo geometrico di una carta da parati rossa caratterizzata da losanghe e ovali compresi tra righe verticali gialle . Questi colori contribuiscono a modellare il viso dell'artista e dall'opera nel suo insieme si evince che le regole della ritrattistica tradizionale non sono state ancora del tutto abbandonate...
Nel 1952 il quadro è caratterizzato da pennellate nette, mentre dei tratti neri disegnano il contorno del naso, delimitano la mascella, gli occhi e la bocca, sottolineano le rughe e descrivono una barba mal rasata . Ligabue ai confini della caricatura…
Nel 1959 il suo viso, incorniciato da ciocche spettinate e ritte in testa,  è segnato da macchie verdi sulla tempia e intorno agli occhi . Nello stesso anno, lo stesso viso e i capelli lisciati, che coprono metà della fronte, sono dipinti con striature degli stessi colori bruciati, bruni e marroni del cappotto; l'unico elemento che si distingue è il collo del paltò che forma dei triangoli chiari sul petto scuro . Si tratta di due ricerche in cui si accentua l'espressività.
Nel 1960 i contorni del viso, come quelli della camicia, della sciarpa e del capotto dal collo ampio sono bordati dello stesso tratto nero, mentre il viso, i pini e il cielo, come pure il cappotto, la sciarpa rossa e la camicia, non sono altro che grandi superfici di colore piatto . Questa scelta viene fatta per imporre, sulla falsariga di quel sintetismo che caratterizza le stampe giapponesi (un riferimento fondamentale), il canto del colore.
Nel 1962 in uno spazio arbitrario che si capisce essere un paesaggio solo per la presenza di un cielo azzurro, punteggiato dalle strisce verticali blu e verdi di cipressi o pioppi, e di campi verdi, che si estendono dietro le spalle dell'artista ricoperte da un gilet nero, il viso è 'descritto' da linee nere che sono identiche a quelle che suddividono in quadri il maglione con il collo arrotolato indossato da Ligabue. L'angolo degli occhi è segnato di rosso, mentre una palpebra inferiore è blu . Che sia forse per affermare il potere dei colori fauve?
Queste variazioni, anno dopo anno, rivelano una verità: da un autoritratto all'altro, Ligabue cambia tecnica, sperimenta, prova... E nonostante in tutti i suoi autoritratti si noti una certa 'aria di famiglia', questi non si assomigliano affatto. E come dubitarne? Queste opere sono il segno della ricerca più intensa dell'artista: la ricerca di una libertà che solo la pittura gli consente di provare.
È proprio in ragione di questa libertà che non ha senso, a mio avviso, affermare che Ligabue sarebbe, per esempio, un 'fauve' o un 'espressionista' o un 'surrealista' perché inserisce in Emilia Romagna una foresta attraversata da leoni, pantere e scimmie... Oltre il fauvismo o il surrealismo o l'espressionismo o quant'altro, Ligabue elabora un immaginario e un'identità pittorica incomparabili. È questo quanto afferma, al di là delle differenze e anche grazie a esse, la fantastica serie di quei rischi che sono i suoi autoritratti.
Riconoscere che Ligabue non è né l'uno né l'altro né nessun'altra cosa, non significa scartarlo da quel periodo della storia moderna che copre un secolo circa, dall'Olympia di Manet alle Marilyn di Warhol. È esattamente il contrario, perché, quali che siano i mezzi espressivi scelti da Ligabue, sono sempre caratterizzati da quell'intensità che impone di riconoscere la presenza di un'opera che non è paragonabile a nessun'altra.
Bisogna sempre ricordarsi, senza per questo essere anacronistici, di quella frase con cui inizia il racconto della Vita di Mino da Fiesole nelle Vite del Vasari: “Quando gli artefici nostri non cercano altro nell'opere ch'e' fanno che imitare la maniera del loro maestro o d'altro eccellente, del quale piaccia loro il modo dell'operare o nell'attitudini delle figure o nell'arie delle teste o nel piegheggiare de' panni, e studiano quelle solamente, se bene col tempo e con lo studio le fanno simili, non arrivano però mai con questo solo a la perfezione dell'arte, avvengaché manifestissimamente si vede che rare volte passa inanzi chi camina sempre dietro”. E Antonio Ligabue non è certo uno di quelli che 'camina sempre dietro'.

Antonio Ligabue. L'arte difficile di un pittore senza regola
Milano - Palazzo Reale
P.zza Duomo, 12 - Milano
Dal 20 giugno al 26 ottobre 2008
A cura di: Augusto Agosta Tota