La biografia di Keith Haring
Keith Haring
Bimbo Radiante. Keith Haring di Luca Beatrice
Bimbo Radiante. Keith Haring
Testo in catalogo di Luca Beatrice
Keith Haring è l'archetipo dell'artista del XXI secolo. Un secolo che sarebbe stato globale, che avrebbe fatto crollare i confini nazionali e geografici, un secolo senza tempo in cui gli abitanti del mondo avrebbero condiviso una quantità immensa di informazioni. Un secolo globale e senza tempo perché avrebbe mandato segnali riconoscibili dai contemporanei ma anche da chi vide l'arte sui muri nel Paleolitico. (…) Keith Haring poteva anche far discutere, ma non c'era nessuno a cui non piacesse. Sarà anche stato scioccante, sovversivo, offensivo ma tutti lo amavano. Tutti sapevano che era lui che dipingeva sui muri.
Timothy Leary
“Se non fossero stati artisti, avrebbero fondato dei gruppi rock”. E' il
critico Jerry Saltz ad affermarlo parlando dell'arte americana degli anni '80,
e in particolare di Keith Haring, Kenny Scharf, Donald Baechler e Jean-Michel Basquiat,
ovvero di quei ragazzi che si misero in evidenza nella epocale mostra newyorkese
“The Times Square Show”, di fatto l'apertura di un periodo straordinario, ahimè
irripetibile in cui tutte le cose sembrarono cambiare in un istante, dopo il
grigiore dei decenni precedenti.
Irripetibili anche perché erano gli anni dei nostri vent'anni, e quelli non
tornano davvero più.
Il 12 febbraio, Keith Haring, ormai provato dalla malattia, sdraiato sul letto
in stato di semi-incoscienza, chiede carta e penna e scarabocchia a fatica il
suo “Radiant Baby”, che per tutti è stato simbolo di vita, vitalismo, vitalità.
Keith muore il 16 febbraio 1990, quando gli anni '80 erano davvero finiti.
Non si sa bene quando siano iniziati, ma finirono certamente il 31 dicembre
1989, ci ricorda ancora Saltz: “erano stati così pieni d'energia, frenetici e
posseduti, quasi rabbiosi nella loro intensificazione, tanto che non poterono
più sostenere quell'andatura e dovettero fermarsi… Da un lato, gli anni '80
andarono a sbattere contro un muro e si fermarono; dall'altro, esaurirono ogni
goccia della benzina che avevano nel serbatoio. Il critico Alan Schwartzman
ritiene che la fine del decennio si debba situare un giorno più tardi, il 1
gennaio 1990, giorno in cui il necrologio di Scott Burton apparve sul New York Times.
All'inizio del decennio, Burton si era annunciato come un grande artista; alla
fine morì di Aids. E l'Aids non esisteva al principio degli anni '80 mentre
infuriava alla fine”.
Joan Haring, la mamma di Keith, racconta che suo figlio, prima ancora di
compiere un anno, dopo cena si sedeva in braccio al padre e disegnava
scarabocchi con i pastelli a cera. “Sei sempre stato buono a non disegnare sui
muri”, lo lodava la mamma. Un giorno, aiutando suo padre a imbiancare la casa,
intinse le mani nella vernice e impronta dopo impronta, ricoprì i muri della
cantina. Ecco la sua scoperta del graffitismo.
Come tutti i nati in una piccola provincia, 4 maggio 1958 Kutztown,
Pennsylvania, sentì fin da ragazzo la necessità di appartenere a un gruppo per
poter evadere in qualche maniera alle costrizioni di un piccolo paese cattolico
e benpensante.
Cominciò con i boy-scout, poi il baseball, quindi sui tredici anni incontrò il
movimento Jesus Save: lesse la Bibbia, l'Apocalisse e “Addio Terra, ultimo
pianeta” di Hal Lindsey. Fu allora che divenne un freak, un Gesù freak: si
convinse di poter rinascere e tentava di convincere anche gli altri. Poi si
avvicinò alle droghe leggere, verso i quindici anni.
Il suo modo di essere ribelle non era sguaiato, ma piuttosto ironico e
canzonatore. Non si sarebbe mai firmato SAMO, Same Old Shit, come Basquiat, ma
preferiva colpire ciò che non gli piaceva della società in maniera non troppo
chiassosa. Anche nella sua prima mostra, al Pittsburgh Center of Arts nel 1976,
dove tra i disegni comparvero sesso e bestemmie, i genitori cattolici e
conservatori non poterono accusarlo o sentirsi feriti, ma piuttosto
complimentarsi per il suo lavoro ed essere orgogliosi del successo del figlio.
“Se avessi passato le mie giornate a stampare caratteri, avrei finito con il
perdere interesse nel mio vero lavoro. Beh, decisi che se dovevo essere un
artista, lo sarei stato nel senso vero della parola e lasciai la scuola”.
Nel 1976 arriva a San Francisco con Susan, la sua ragazza, in autostop, come
un vero hippie. Si porta dietro “The Art Spirit” di Robert Henry, scritto nel
1923 dal pittore e professore americano. Quel libro esprimeva amore per l'arte
e per la vita, gli parlava come avrebbe fatto un amico.
In California scopre l'universo gay e omosessuale: in quegli anni a San
Francisco stava nascendo la più grande comunità gay americana che viveva al
Castro District, come sa chi ha visto “Milk”, l'ultimo film di Gus Van Sant con
Sean Penn (premio Oscar).
Poi, nel 1978, finalmente New York. Scopre i graffiti in strada e in
metropolitana. Lo intrigano soprattutto quelle calligrafie che rimandano
all'antica arte cinese e giapponese e ai pittori che aveva studiato a scuola: Dubuffet,
Tobey, Alechinsky, Pollock, Klee, Ossorio. I suoi preferiti.
Nel frattempo l'East Village ha visto il tramonto della cultura hippie e la
prepotente affermazione della nuova scena punk-rock che si stava muovendo
dall'Inghilterra verso New York. Tra i giovani era sentita soprattutto la
necessità di mettere in piedi una band: chiunque si incontrava e con i pretesti
più assurdi, decideva di fondare un gruppo, soprattutto se non sapeva suonare.
Oppure decideva di fare l'artista, senza saper dipingere.
Stiamo parlando della New Wave, dei Talking Heads, degli artistoidi delle
accademie nel Rhode Island, del CBGB'S sulla Bowery dove si esibirono i Television,
Blondie, Ramones, dove era di casa Patti Smith.
Keith Haring entra in contatto con le realtà di colore, scopre un background
completamente diverso dal suo e ne rimane affascinato: è l'universo funky,
anima punk su musica nera. Si taglia i capelli cortissimi, indossa jeans due
taglie più grandi, in radio dove fa il dj suona soprattutto black music e soul.
Usa come studio i locali del Club 57, nei sotterranei di una chiesa frequentata
dalla comunità polacca. Una “grande e orgiastica famiglia”, dove tutto era
possibile, e tutto si poteva fare e sperimentare, comprese le droghe e ogni
tipo di promiscuità: era lo spirito del tempo, il fantasma dell'Aids ancora non
esisteva.
Inverno 1980: inizia a disegnare graffiti per strada. “La mia tag era un
animale che finì con l'assomigliare sempre di più a un cane, e poi inizio a
disegnare un omino che camminava a quattro zampe e più lo disegnavo, più
diventava The Baby, il bambino. Disegnai per strada varie combinazioni del cane
e del bambino (...) Utilizzavo queste immagini tenendo sempre a mente l'idea di
cut-up sviluppata da William Burroughs e Byron Gysin”.
Poi arriva la grande mostra “The Times Square Show” a cui parteciparono tutti,
ma proprio tutti. Si parla sempre degli artisti che ebbero successo, di Basquiat,
Haring, Rammelzee, Futura 2000, A One, Lee Quinones e si dimenticano gli altri,
come Fab Five Fred, che fu il vero trait d'union tra i graffitari di Downtown e
quelli di Uptown.
Una pubblicità natalizia del whiskey Johnny Walker, sullo sfondo un paesaggio
innevato e tranquillo, Keith disegna una fila di bambini e in un angolo in alto
un disco volante che emetteva dei raggi: “Radiant Baby” nasce così. Non è un
bambino radioattivo, ma è il raggio del disco volante ad averlo reso luminoso.
L'immagine dell'uomo con il buco nella pancia, invece, gli viene in mente dopo
l'assassino di John Lennon, che i Beatles sono sempre stati un suo mito.
Come Andy Warhol, non aveva paura di lavorare quindici ore al giorno, e non
sapeva esattamente se quello che stava facendo fosse importante oppure no.
Stampa le sue tag su spillette e le regala in metropolitana. Voleva che le
persone si avvicinassero al suo mondo e che tutti potessero possedere una parte
del suo lavoro, anche chi aveva pochi dollari e invece dei quadri poteva solo
comprarsi una t-shirt.
Dice: “Sarei stato io il gallerista di me stesso e avrei venduto a chi volevo io,
mantenendo così la mia integrità e il mio distacco dal mondo dell'arte”.
Nell'impossibilità di farlo scelse Tony Shafrazi, che aveva aperto uno spazio a
SoHo, forse perché prima di fare il gallerista era stato famoso per aver
spruzzato vernice spray contro “Guernica” di Picasso al MoMA, un gesto idiota
non c'è che dire, nel tentativo di “riportare il quadro alla sua funzione
originale di simbolo degli orrori della guerra”. Un hippie contro la guerra in
Vietnam.
Il lavoro in metropolitana continuava, e stava diventando un vero e proprio
fenomeno. I poliziotti lo amavano e a fatica dovevano fargli la multa -“ne avrò
prese più di cento e tutte regolarmente pagate”- Una volta lo arrestarono,
ammanettandolo, poi al distretto, gli agenti, scoperto chi fosse, gli vollero
stringere la mano.
Disegno, sound, ballo, energia allo stato puro. Inizia a inserire gli elementi
della cultura hip-hop nei suoi disegni, rap, scratch, breakdance, electric boogie.
Conosce Andy Warhol a una mostra alla Fun Gallery, nell'East Village. Andy lo
porta alla Factory; nello stesso periodo conosce Madonna, che stava con Basquiat,
al Paradise Garage.
Madonna racconta: “il lavoro di Ketih iniziò nelle strade e attirò
l'attenzione delle stesse persone che si interessavano a me, soprattutto neri e
ispanici, persone con basso reddito e un background umile. La sua arte piaceva
alle persone che apprezzavano anche la mia musica. Venivamo dallo stesso mondo
e quel mondo ci aveva ispirato. Ci sono colori audaci, figure infantili e molti
bambini ma se si osservano le sue opere da vicino ci si accorge che sono molto
potenti e che mettono quasi paura (…) evidenzia giocando, i pregiudizi e le
fobie della gente. In questo senso i suoi lavori sono politici”.
I bambini gli piacevano davvero molto, forse perché non era ancora diventato
grande e mai avrebbe avuto tempo di diventarlo. Un “bimbo radiante”. “Quel che
mi è sempre piaciuto dei bambini è la loro immaginazione, una combinazione di
onestà e libertà che permette loro di esprimere qualsiasi cosa gli passi per la
testa. E poi mi è sempre piaciuto il loro senso dell'umorismo e l'incredibile
istinto nei confronti di ciò che li circonda e di sentire le energie che
provengono dalle persone (…) o forse per la mia faccia buffa, o perché mi
comportavo come loro sono sempre stato amato dai bambini, e vedendomi ridevano
sempre”.
Non è vero che il lavoro di un artista debba prima essere apprezzato da
un'elite di persone. Keith Haring si fece amare dalle masse, da tutto il
mondo: “le mie opere entrarono nella cultura popolare prima che il mondo
dell'arte si accorgesse che esistevo e così quest'ultimo non poté prendersi il
merito di averle fatte riconoscere dalla gente”. A lui arriva prima il
pubblico, poi l'establishment.
Juan Rivera, il suo ultimo compagno, racconta che Keith amava le cose
“normali”, come guardare cartoon alla tv e mangiare cose a casa. “Devo dire che
all'inizio il suo lavoro non mi sembrava così speciale ma quando glielo vidi
fare - Gesù!- era stupefacente! L'energia sgorgava attraverso di lui: iniziava
da un certo punto e quando aveva finito non si capiva come e da dove fosse
partito! Tutto il lavoro era racchiuso in una grande immagine nella sua testa”.
Ogni 4 maggio, il giorno del suo compleanno, organizza gigantesche feste che
chiama “Party Life”. Spettacolare quello del 1985, con tutti i suoi amici e gli
artisti che lo amavano. Realizza cinquemila t-shirt stampate da regalare a ogni
ospite. L'invito alla festa era costituito da un unico piccolo puzzle in bianco
e nero che confeziona in una scatola contenente anche due spillette che
dovevano essere presentate all'ingresso, come lasciapassare. Boy George canta
“Happy Birthday to You” e sono in molti a commuoversi.
Forse perché era, in anticipo, il giubileo del nostro grande freddo.
Keith è stato una sorta di mutante, “trasportato nel XXI secolo dalle onde del
XX e ha risalito la battigia”.
Aveva ragione William Burroughs: “Così come nessuno può guardare un girasole
senza pensare a Van Gogh, nessuno può scendere nella metropolitana di New York
senza pensare a Keith Haring. E' questa la verità”.
Riferimenti bibliografici
John Gruen, Keith Haring, 1991. Ed. it Baldini Castoldi Dalai, 2006.
Keith Haring, Diari, Ed. it. Mondadori, 2005.
American art of the 80's, cat. Electa, mostra Palazzo delle Albere, Trento 1991.
Keith Haring
Milano - Vecchiato Art Galleries
Dal 9 aprile al 30 giugno 2009
A cura di: Luca Beatrice