L'artista viaggiatore. Da Gauguin a Klee, da Matisse a
Ontani
Un poco al di sopra dei nostri sensi: scrittori e artisti verso Oriente di Marco Antonio Bazzocchi
La ricerca di nuove esperienze negli altrove del mondo di Gualtiero Harrison
Un poco al di sopra dei nostri sensi: scrittori e artisti verso Oriente
di Marco Antonio Bazzocchi
Estratto dal testo critico in catalogo della Mostra
L'artista viaggiatore. Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani
Ravenna - MAR Museo d'Arte della città
Dal 22 febbraio al 21 giugno 2009
Nel luglio del 1903 il giovane medico di bordo Victor Segalen sbarca a Tahiti
per cercare un contatto con Paul Gauguin, di cui ammira l'opera e che vorrebbe
conoscere di persona. Ma l'incontro non può avvenire, dal momento che il
pittore è morto tre mesi prima, divorato da una serie di mali dolorosi, eczemi,
sifilide, c'è chi dice lebbra, e si parla anche di un suicidio con le droghe. Gli
oggetti rimasti del grande artista, la sua casa, alcune tele, pagine di
taccuino vengono messe all'asta a Papeete, e Segalen cerca di salvare quello
che può. A settembre lascia Tahiti e, nella rotta di ritorno, fa scalo a
Gibuti, sulle tracce dell'altro grande fuggitivo che aveva lasciato la Francia
e l'Occidente per affrontare mondi nuovi e sconosciuti, il poeta Arthur
Rimbaud.
Rimbaud e Gauguin sono in effetti le due facce di una stessa medaglia, i due
aspetti contrapposti con cui l'ottocento si chiude per lasciare spazio a una
nuova epoca. Rimbaud, dopo una gioventù geniale e burrascosa, abbandona la
poesia, va in Africa a vendere armi, decide di chiudere con l'attività creativa
e darsi completamente al commercio. Tutto quello che era possibile creare, come
artista, lui l'ha già creato. I suoi versi, la sua idea di scrivere a partire
dal “deréglèment” (“sregolamento”, o meglio ancora “sgangheramento”) dei sensi,
hanno aperto spazi immensi per chi verrà dopo. L'Africa è, nella realtà, quel
nuovo mondo inimmaginabile che la sua poesia aveva annunciato. In Africa
Rimbaud mette alla prova, con i sensi, quello che era implicito nelle immagini,
nelle analogie, nelle allusioni della sua opera. Gauguin invece va in Oriente
non solo per incontrare un altro mondo ma per far entrare questo mondo dentro
la vecchia pittura dell'Occidente. O meglio: la pittura, con le sue regole, la
sua retorica, i vincoli della rappresentazione, deve ottenere nuove forze e
nuovi impulsi proprio dal contatto con il nuovo mondo. I Maori di Gauguin, ai
quali ormai il nostro occhio è stato abituato, erano realmente “l'altro” in quel
momento, erano il diverso, il desueto, lo scandalo (anche sessuale: le
ragazzine di Gauguin avevano tredici, quattordici anni), ma con la sua arte
geniale Gauguin li addomestica per l'Occidente. È a Parigi che i suoi quadri
devono essere venduti, è a Parigi che lui porta le sue modelle, fotografate e
per questo ancor oggi visibili in abiti alla moda che le infagottano e le
rendono quasi commoventi.
Nei rapporti degli artisti occidentali con l'Oriente il paradigma
Rimbaud-Gauguin rimarrà una costante: si va verso Oriente per trovare un
“altro” mondo, perché si odia l'Occidente, perché si vuol fuggire dalla propria
cultura. Ma tutto quello che l'Oriente offre torna comunque di qua, qua diventa
oggetto di rappresentazione, qua viene consumato, gustato, giudicato, lancia
una moda, modifica il gusto, rompe con le tradizioni o le reinventa. Africa,
India, Giappone: a ritmi alterni l'orientalismo ha assalito gli artisti
occidentali, li ha conquistati, e ne ha fatto i portatori di morbi che hanno
funzionato come medicine. E, prima di diventare turismo di massa, merce,
oggetto di consumo, l'Oriente ha messo radici in Europa, per tutto un secolo,
diventando l'occasione continua per meditare su ciò che significa l'Altro.
Ma torniamo a Segalen. Che non è certo il primo intellettuale a restare preso
negli incanti dell'Oriente. Edward Said, lo studioso palestinese che alla fine
degli anni settanta ha scritto un libro capitale sull'orientalismo, individua
in Gustave Flaubert il rappresentante più significativo della complessa e lunga
avventura che ha portato gli europei verso l'altro mondo. Il viaggio in Oriente
fa parte di un'esigenza intima che molti artisti sentono all'interno della loro
formazione, e questo viaggio avviene sempre secondo precisi parametri con i
quali l'Oriente viene interpretato, rivisto: Said parla di una “forma di
ristrutturazione romantica” dell'Oriente1. Tra
sette e ottocento l'Oriente diventa, per gli europei, un grande contenitore di
possibili esperienze distribuite a tutti i livelli, dall'immaginazione ai
sensi. In Oriente si cerca un nuovo contatto con la natura, si affronta il
mistero del primitivo, del selvaggio, ma in Oriente si trova anche un modello
nuovo di bellezza, nasce un tipo di fantasticheria sessuale legata
esplicitamente ai corpi (femminili ma anche maschili) che l'Oriente offre. Alla
fantasia degli scrittori, e Flaubert ne è il testimone più autorevole, le donne
orientali offrono quel piacere di rigenerazione dell'energia sessuale che è
implicitamente connesso con l'energia creativa. Flaubert incontra una famosa
danzatrice egiziana, Kuchuk Hanem, prima la ammira in una danza sfrenata e poi
la possiede, e sente sul suo corpo “l'odore nauseante delle cimici” mescolato
al profumo del sandalo. Guardarla dormire significa liberare la mente a una
fantasticheria così intensa che sarebbe impossibile sul suolo europeo:
«Guardando quella bella creatura dormire (russava, con la testa contro il mio
braccio: avevo fatto scivolare il dito indice sotto la sua collana), trascorsi
la notte in una lunga, infinitamente intensa, fantasticheria - perciò ero
rimasto».
La liberazione dai vincoli borghesi e dai sensi di colpa connessi al proprio
mondo porta Flaubert, e dopo di lui tanti altri, da Conrad a Gide, a fare
dell'Oriente il luogo di esperienze nuove, anomale, grazie alle quali può
liberarsi un processo di rimodellamento della propria personalità e della
propria opera. L'idea stessa di creatività sembra essere connessa alla
liberazione offerta dal viaggio in Oriente.
Segalen però, nei primi anni del novecento, apre all'interno di questo spazio
mentale così solidamente elaborato per tutto il secolo precedente, una nuova
ipotesi estetica, quella che lui chiama esplicitamente, senza riuscire a
elaborarla però in modo completo, «esotismo come Estetica del Diverso»2. Il suo scopo è proprio svuotare l'immaginazione
dell'Oriente da tutto l'apparato decorativo ottocentesco: «Innanzitutto
sgomberare il terreno. Bisogna eliminare tutto ciò che la parola esotismo ha di
abusato e di rancido. Spogliarlo dei suoi orpelli; le palme e i cammelli; il
casco coloniale; le pelli nere ed il sole giallo; e nello stesso tempo
sbarazzarsi di tutti coloro che li hanno usati con sciocca facondia»3. Sembra una programmatica controffensiva nei confronti del
secolo precedente, e insieme l'intensificazione di una dimensione intellettuale
dell'Oriente, per cui l'intera personalità di un individuo è segnata e quasi
permeata dal problema della diversità e dell'altro, non solo nello spazio ma
anche nel tempo: «Spogliare la parola esotismo della sua accezione
esclusivamente tropicale, geografica. L'esotismo non è dato solo nello spazio,
ma è ugualmente in funzione del Tempo. E arrivare a definire, a stabilire
velocemente la sensazione d'Esotismo: che non è altro che la nozione del
differente; la percezione del Diverso; la conoscenza che esiste qualcosa che
non siamo noi e il potere d'esotismo che non è altro che il potere di concepire
altrimenti».
Non più il pittoresco, dunque, non più gli scenari ormai scontati di palme,
cammelli, moschee, beduini, donne velate. Al loro posto Segalen propone
l'incontro con qualcosa di sfuggente e ambiguo, che chiama “divers”, e
definisce poi, mescolando insieme molteplici idee, «estraneo, insolito,
inatteso, sorprendente, misterioso, amoroso, sovrumano, eroico». Ecco perché i
corpi ritratti da Gauguin gli offrono l'esempio più adatto per spiegare cosa
intende realmente con “diverso”, nel momento in cui si offrono a sguardi che li
misurano secondo un'estetica a loro lontana: «Né bianchi, né gialli, né neri, i
Maori non debbono essere confrontati per essere dipinti, anche con parole, con
nessun'altra specie umana. Non hanno, sotto il sole, l'insipidezza del nudo
europeo. Non hanno la falce palpebrale, la “piega mongola”, né gli zigomi
forti, né la donna quel volto da luna ovale. E niente hanno del cresputo negro.
Bisogna dunque - e il pittore si è meravigliosamente risolto - contemplarli
alla luce del loro selvaggio enigma, quello che porteranno con sé nella loro
prevista morte, il quesito del tutto umano: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove
andiamo?»4.
La domanda finale di Segalen riprende il titolo del quadro più famoso di
Gauguin, la grande tela del 1898 dove si allineano, su un paesaggio blu e
verde, nudi femminili, divinità, animali, in un ritmo sospeso che sembra
seguire tutti gli aspetti visibili della natura e le fasi della vita umana. Ma
nelle pagine di Segalen sembra non esserci la volontà di spiegare i simboli
delle opere di Gauguin, dal momento che secondo lui i corpi Maori sono forme
che risuonano di vibrazioni nell'atmosfera, carni che brillano nel pulviscolo
del sole, insomma posture nello spazio che contengono nel loro mistero tutto il
senso del loro esistere.
A pochi anni di distanza dall'esperienza di Segalen (che poi sposterà la sua
attenzione dalla Polinesia alla Cina) le avanguardie europee, in particolare il
surrealismo francese, cominciano a cercare nell'esotico qualcosa di diverso dal
brivido del bizzarro e dell'anomalo. Secondo i surrealisti sotto il quotidiano
si nasconde una seconda realtà fondata su logiche assolutamente alternative,
che possono emergere come durante lo stato incosciente del sonno emerge
l'inconscio. Camminare senza meta per le vie di una città come Parigi significa
porre i propri sensi a contatto con tutto ciò che li può catturare e portare
verso l'inaspettato. L'insegna di un vecchio negozio, un oggetto desueto, un
volto tra la folla, tutto può scuotere l'io e alterarne la fisionomia. L'Oriente
si trova ormai qui, basta cercarlo. A metà degli anni venti la moda “nègre”
dilaga a Parigi dai teatri alle gallerie d'arte. Le danze sincopate di
Josephine Baker e le statue tribali che spuntato al Marché aux puces diffondono
una nuova passione estetica che si distribuisce a tutti i livelli della
società.
Il Trocadéro è il luogo dove vengono riunite le tracce di un esotismo senza
regole, un bazar di oggetti che offrono in massa al pubblico e ai nuovi
artisti. Picasso scopre le maschere africane che ispirano forme nuove con cui
concepire le sue opere. Carl Einstein, lo scrittore espressionista tedesco, si
occupa della pittura di André Masson dal punto di vista etnologico, vi
individua cioè forze allucinatorie che portano a un arcaismo psicologico di
natura totemica: i confini tra arte, ricerca etnografica e intuizioni
psicanalitiche si fanno sempre più labili, e un tamburo africano può essere
interrogato con la stessa attenzione di un'opera d'avanguardia5.
Tra il 1931 e il 1933 il governo francese organizza una missione in Africa, la
Dakar-Gibuti, proprio per raccogliere materiali con cui arricchire le
collezioni di arte esotica del Trocadéro. Alla missione partecipa un gruppo di
allievi del grande antropologo Marcel Griaule, tra cui Michel Leiris, che
assume il compito di segretario archivista e scrive, di ritorno dal viaggio,
un'opera enigmatica, a metà tra autobiografia, diario di viaggio, studio
etnografico, ma soprattutto un'opera concepita senza modelli, fuori da
qualsiasi logica narrativa, un'opera che lo stesso autore definisce illeggibile
perché ideata secondo regole aliene dalla razionalità europea. Leiris la
intitola Afrique fantôme, Africa fantasma, proprio perché il suo viaggio
avviene in un luogo indefinibile, tra fantasmi, ma soprattutto tra i fantasmi
della propria interiorità. Quella che Leiris vuole esprimere è una ricerca che
si libera di finti ideali scientifici e ingloba tutto quanto il soggetto
esperisce (sogni, desideri, ripulse) a contatto con l'altro mondo. Viaggiare in
Africa e viaggiare dentro se stessi diventa un unico movimento, senza soluzione
di continuità. Ecco una sua considerazione dove ritorna il nesso tra desiderio
erotico e conoscenza che abbiamo visto caratterizzare fin dall'inizio
l'orientalismo: «Lavoro intenso, al quale mi dedico con una certa assiduità, ma
senza un grammo di passione. Preferirei essere io posseduto piuttosto che
studiare i posseduti, conoscere carnalmente una zarine piuttosto che sapere
scientificamente tutto di lei. Per me, la conoscenza astratta sarà sempre
soltanto un ripiego» […].
1. E. W. Said, Orientalismo (1978), Milano, Feltrinelli, 1999, p. 189
2. Le pagine di Segalen si trovano tradotte nel volume Saggio sull'esotismo. Un'estetica del diverso, Bologna, Edizioni del cavaliere azzurro, 1983
3. Ibid., p. 33
4. La citazione viene dalla raccolta delle pagine di diario di Segalen, Gauguin
nel suo ultimo scenario e altri testi da Tahiti, Torino, Bollati Boringhieri,
1990, p. 97
5. Ricavo alcuni di questi dati dal libro fondamentale di James Clifford, I
frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino,
Bollati Boringhieri, 1999, in particolare dal capitolo Surrealismo etnografico