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L’armonia persistente Di Flavio Arensi "Ogni posizione di accordo e d’armonia persistente fra la ragione e la vita, fra filosofia e religione, è impossibile. E la tragica storia del pensiero umano non è altro che una lotta fra la ragione e la vita, quella impegnata a razionalizzare questa facendo in modo che si rassegni all’inevitabile, alla mortalità; e questa, la vita, impegnata a "vitalizzare" la ragione obbligandola a servir d’appoggio alle sue ansie vitali". Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico della vita Nel corso del recente passato si è tentato di qualificare l’opera di Alfredo Chighine attestandone la vicenda creativa attraverso affermazioni derivate dalle principali scuole d’oltralpe, ravvisando nella pietra angolare della sua poetica l’avvicendamento delle tensioni di altri artisti, a cominciare dalla componente espressionista della sua scultura. La strada che si è deciso di seguire, benché metta in chiara evidenza i rapporti di debito (o meglio dovrebbe dirsi le vicinanze) ad un ambiente o una cultura più che ad una personalità precisa, spesso manca di accertare l’originalità piena ed assoluta dell’opera chighiniana. L’impegno dell’artista lombardo, invece, sviluppa in senso di una matura autonomia teorica, manifestando rassomiglianze d’intenti alle espressioni del proprio tempo, pur con la risoluta capacità di cogliere sempre e comunque la soluzione affatto personale e inedita. D’altronde, per Chighine la partecipazione al contesto braidensae, inteso non soltanto come ambito accademico bensì luogo culturale allargato, permise di entrare in contatto con le diverse vicende artistiche, usufruendo del materiale iconografico conservato nella biblioteca, nonché sfruttando le opportunità individuali che di volta in volta accaddero a colleghi ed amici, possibilitati a visitare le capitali della cultura occidentale, in special modo Parigi, che funse, almeno fino agli anni Sessanta, da preminente punto d’attrattiva. In Chighine l’ingaggio (in)diretto di alcuni stilemi portati dal vento parigino o internazionale del nord Europa risulta meno preponderante del dialogo serrato svolto coi colleghi d’area milanese; si potrebbe difatti figurarlo alla stregua di un grande albero ben radicato nel sostrato lombardo-padano, col guadagno di cieli tersi e nebbie fitte di questa terra, bensì con la fronda aperta al mondo, all’internazionalità. Intendere il contrario, ricercando faticosamente radici internazionali, significherebbe soverchiarne il progetto artistico, degradandolo a una condizione minore. Invece, la sua audacia sta proprio nel aver digerito le istanze locali trasformandole in istanze collettive, senza confini. Capita, per esempio, attraverso il rapporto con Franco Francese - negli anni del conflitto bellico - che egli stemperi ed individui alcuni caratteri segnici di una figurazione affascinata da frange sironiane, soprattutto orientate verso Costant Permeke e Willem de Koonings ("Nudo stradiato", 1947 - "Due nudi", 1949 - tavv. 3, 4); sono gli anni della frequentazione del LISIA di Monza, e del lavoro di operaio, di Brera, dunque di un serrato confronto con l’amico, anch’egli impegnato sul fronte scultoreo. Da Francese Chighine estrapola la lettura critica delle altre esperienze, cui aggiunge il portato individuale e quello del collega. Al distillato di queste esperienze si può allegare l’impianto antico, derivante dal lungo apprendistato presso un maestro vetraio, di Georges Rouault, il pittore francese che seppe tradurre la tradizione dei grandi cantieri gotici in un nuovo alfabeto pittorico (non per nulla di sapore scultoreo). Da questi confronti subito tralasciati, e sicuramente nella costante rielaborazione del messaggio sironiano, nonché dall’incontro con la grande epopea romanica, così come molta parte della bibliografia critica evince, egli riesce a racchiudere la luce entro una composizione dai caratteri statuari. Persino i paesaggi dei primi anni Cinquanta, nati sulle sponde di Cassano d’Adda, manifestano un deciso orientamento per masse, senza mai tradire la volontà di realizzare una sorta di bassorilievo con immaginarie sottosquadre (campo di grano, 1952 tav. 6). Le prime statue, non soltanto assaporano l’indole già evidente nei disegni e nei quadri, ma risentono della drammaticità ieratica dei legni scelti come materiale di lavoro (forse più per esigenze economiche che non per una precisa volontà estetica). Il risultato che ne deriva è sempre di grande impatto, potendo contare sullo sviluppo di tematiche già ampiamente utilizzate da altri colleghi, da Arturo Martini a Marino Mazzacurati, Marino Marini, fino al coevo Giovanni Paganin, ai dipinti di Cassinari e Giuseppe Ajmone, all’amico Francese, tutti tesi a inquisire una nuova dimensione della figura dopo la rivoluzione di Pablo Picasso: la maternità ("Nudo in piedi", 1944/45 e "Maternità", 1945, Civici Musei di Milano casa Boschi-di Stefano), o lo strazio materno dinnanzi alla guerra, è un tema che ricorre in molti giovani artisti milanesi, giusto per fermarci nella cerchia chighiniana, senza perciò la necessità di dover forzare confronti con autori stranieri, di derivazione espressionista, che plausibilmente Chighine (in questi anni) conosce per via documentaristica, ma non in maniera diretta. Ernst Barlach1 potrebbe definirsi, per esempio, un riferimento di grande pregio, come si potrebbe immaginare una vicinanza a Ossip Zadkin, o alle poche sculture di Permake o alla novità di Henry Moore, ma si finirebbe con indugiare su giochi più che altro intellettualistici e poco reali ai fini della corretta lettura dell’opera di Chighine che, sostanzialmente, erompe dal tessuto del proprio territorio culturale e sociale, traendo dall’arte antica ciò che vede mancare in quella moderna. A formare il suo impianto poetico è la struttura possente del Romanico, o la solidità dell’architettura lombarda, ben orchestrata sull’ossimoro leggerezza-pesantezza che nasce dall’utilizzo della terracotta per elevare stabili imponenti, come il Castello sforzesco o sant’Ambrogio. Tale diventa pure il linguaggio di Chighine, che cerca la solidità dell’immagine, incastrandola nella compostezza e nel rigore della tradizione artistica padana, da Vincenzo Foppa fino alla parabola di Mario Sironi. Nel 1954, quando l’artista lascia definitivamente l’indagine scultorea, mantiene gli intenti plastici nelle opere dipinte, proponendo soluzioni fortemente incentrate sull’uso della materia e delle masse che sottendono ancora un’idea figurativa di copri ormai nell’abbandono informale. La compostezza dell’edificio coloristico nei quadri del 1954 lascia intendere una dinamica monumentale sempre controllata, senza che il caso subentri nella definizione dello spazio ("Composizione", "Interno rosa e nero", "Figura su fondo nero" e "Composizione cromatica" - tavv. 8, 9, 10, 11). Anche quando viene sostituendosi un apparente disordine materico e tonale, è indubbio sussista il medesimo principio che anima le sbozzature lignee della scultura, dove reparti scheggiati si dispongono insieme a perfetti allineamenti, come succede in "Composizione bianco e nero" (1954 - tav. 13): un quadro che anticipa gli approdi successivi, in cui l’artista tenta di ridefinire l’organizzazione della tela in maniera più gestuale, mai però perdendo il controllo dell’immagine, anzi tessendo un racconto complesso ed articolato, però all’interno di parametri precisi e durevoli. La verticalizzazione del segno, arricchito dall’intreccio di linee e colori, si forma sulla base di una razionalità ordinata che dipende strettamente dall’esperienza scultorea e - ancora una volta - dal confronto diretto e profondo con un collega milanese, Umberto Milani, tanto nella sua pittura, quanto nei lavori (per esempio i Parietali) che innescano sulla superficie quell’alternanza di masse e linee qualificanti i lavori di Chighine in questa prima svolta totalmente informale. Accantonando la produzione del decennio precedente, improntata alla comprensione della action-painting, la pittura degli anni Cinquanta di Milani, e particolarmente quella della metà del decennio, ricalca i luoghi chighiniani, scandagliando il medesimo trasporto e soprattutto le identiche dinamiche dello spazio e del colore, che si dispiegano in forme di tenace ritmo ("Costruzione nero e blu", 1956 - tav. 21; "Composizione bianco e blu", 1956 - tav. 22). Non si tratta, come nelle Imbersago o Adda di Ennio Morlotti del 1954, di ristabilire l’impressione di luce e colore del fiume nell’ottica intima di una rielaborazione intellettuale, certo vicine alla lezione francese delle tâches; Chighine invece tende a portare in alto le esigenze dell’occhio, le vorticizza, come in questo periodo molti fanno grazie agli insegnamenti di Wols, pur evitando il suo impegno esistenziale, invece accolto da altri autori, come Emilio Scanavino, oppure Gianfranco Ferroni, o Floriano Bodini, che curiosamente riducono in figurazione il gesto informale del pittore berlinese. E più che Wols, direttamente, Chighine accetta l’abbondanza della materia spazialista ("Spirali intrecciate", 1957 - tav. 29), di Roberto Crippa, dei grandi nodi di Aldo Bergolli che colano, ma senza mai sfuggire dalla logica personale. Il controllo, dunque, si pone come caratteristica fondamentale, non lasciando egli che il imprevisto prenda il sopravvento; non per nulla è difficile individuare nei lavori di Chighine la sgoccialutare intese quale sistema linguistico di per sé valido, mentre egli predilige colare il colore, dunque tentando stabilmente d’inferire una regola al quadro ("s.t.", 1956 - tav. 26). Dove possibile, le croste tonali vengono perciò incise ("Composizione bruno e azzurro", 1955 - tav. 17), ossia, egli toglie al principio della action la scansione della superficie, il suo ravvivamento, mentre le incisioni fendono il colore ampliando la possibilità di un gioco fra luce e ombre ("Immagine graffita", 1957 - tav. 29): in tal modo egli cancella la necessità della sgocciolature o striature del quadro e può riprendere il lavoro per semplici masse tonali, oppure timbri di materia diversa ("Tramonto e mare", 1959 - tav. 40). Nel 1958 Chighine visita finalmente Parigi, una città ancora piena di spunti culturali, mentre saranno le avanguardie americane e inglese ad interessare le generazioni successive, fra cui i componenti del Realismo esistenziale e i fautori dell’astrazione aniconica, oppure i seguaci della Pop Art, che sbarcò ufficialmente nel 1964 benché conosciuta molto prima. Nello stesso anno egli partecipa alla XXIX Biennale di Venezia dove sicuramente visita gli spazi dedicati a Jean Fautrier, ma sarebbe assurdo non accorgersi che già da un lustro la sua attività pittorica dimostra una personalità raggiunta, e una costruzione personalissima, che si differisce da chiunque per l’utilizzo della materia pittorica: una similarità diretta potrebbe trarsi da Nicolas De Staël, forse l’unico vero autore che sembra influenzare non tanto la tavolozza di Chighine ma le composizioni. Altro discorso invece, interessa il rapporto con Serge Poliakoff, di cui sono evidenti alcuni assonanze, sopratutto nei lavori degli anni Sessanta-Settanta, che tuttavia mantengono modalità teoriche e di sviluppo totalmente dissimili, per lo più nel senso dell’utilizzo materico delle paste, che nell’artista russo vengono man mano assottigliandosi, e in Chighine invece rimangono una necessità irrinunciabile. Difficile, se non per larghe casualità i paragoni con Jean Dubuffet, né tanto meno la scuola parigina di Jean Paul Riopelle, Maurice Esteve, Pierre Soulages. Non soltanto la scelta dello sfumato e del gioco luministico lo porta ai confini dell’Art autre, ma la regolarità del metodo lo differenzia da quanti praticano la pittura intima dell’informalità più libera. "Composizione con palma" della Tate gallery di Londra (tav. 50) chiarisce le distanze con Soulage: difatti, la costituzione dell’opera è nel francese di tipo monodimensionale (come potrebbe pensarsi di Sergio Romiti), simile a quella di un mazzo di sciangai lanciati ad occupare lo spazio lungo una traiettoria prestabilita, mentre Chighine ambienta le sue spatolate e stesure in maniera tridimensionale, senza mai cedere la costruzione del fondo reso per forme organizzate, fondo che di norma nel pittore di Rodez manca. Una della caratteristiche dei quadri degli anni Sessanta si dimostra proprio la necessità di tornare a respirare modelli allargati, campiture che si assommano per costruire ambienti paralleli, incrociati, quinte di teatro in cui la luce muove secondo le intenzioni del maestro, seguendo le minuscole scanalature che incidono la materia, sviluppano ai bordi di pezzature differenti e quasi monocromatiche, oppure prorompono da timbri volutamente contrastanti ("Composizione blu-bianco", 1961 - tav. 58). L’impossibilità di stringere Chighine all’interno di un modello artistico prestabilito, chiuso ed aporetico, chiarisce immediatamente la condizione unica della sua arte, disposta ad assorbire e rigenerare stimoli tra i più diversi, però ridotti ad un unico incontestabile risultato di sintesi affatto esclusivo: una capacità che Guido Ballo coglie fin dagli esordi del maestro milanese, in uno dei testi più significativi nella sua vasta bibliografia2. Marina De Stasio comprende l’inciampo di lettura che una schematizzazione dell’opera di Chighine provocherebbe, e nella polemica fra Ballo e Marco Valsecchi individua la peculiarità dell’artista in un passo che vale la pena ritrovare: "sul finire degli anni Cinquanta intorno all'opera di Alfredo Chighine si sviluppava un vivace dibattito critico fra due opposti schieramenti: da un lato chi, come Marco Valsecchi, metteva la sua pittura in rapporto con il naturalismo lombardo, vedeva la sua arte sempre legata alla realtà, fatta di echi e suggestioni di momenti della vita naturale, ispirata dal variare delle luci con il passare delle ore e con il mutare delle stagioni; dall'altro chi, come Guido Ballo, ne metteva in evidenza i rapporti con l'Astrattismo storico, affermando che Chighine, come Kandinsky, parte dalla natura e dall'emozione per arrivare alla forma astratta. I "naturalisti" accusavano Ballo di formalismo, di vedere nell'arte di Chighine solo una ricerca linguistica nel campo della forma e del colore, ed erano a loro volta accusati di ridurre l'artista ad un ristretto ambito regionale, di vedere il suo lavoro troppo subordinato all'immagine naturale. Era quindi un dibattito che arrivava anche a forzature e schematismi, ma non un dibattito inutile o pretestuoso, aveva anzi il merito di mettere in evidenza e di approfondire al massimo due aspetti reali dell'arte di Chighine, che proprio dalla sintesi ardita tra componenti in apparenza lontane trae la sua grandezza e la sua novità"3. Una caratteristica di Chighine è quella di saper variare la tipologia della narrazione, pur rimanendo fedele a un metodo preciso e riconoscibile nonostante il variare dell’immagine o della tematica: si vuole manifestare quella soglia fra interno ed esterno sulla quale si equilibra il reale e ciò che reale non è - sempre possa ottenere questa distinzione. Perciò, seppur si distinguono delle direttrici specifiche, l’evoluzione del lavoro di Chighine non è lineare, bensì lascia spazio alla sperimentazione, all’approfondimento di alcune visioni, poi trascurate e riemerse - come un fiume carsico - successivamente (si confrontino "Arancio e verde", 1958 - tav. 37 e "Montagne e mare", 1969 - tav. 75, opere che differiscono di un decennio). Quando pare che la materia si sia arresa alla spatola, declinandosi in una stesura di superficie uniforme, pur nelle sbavature di confine fra macchia e macchia, quadri come "Rosa e grigio" (del 1960 - tav. 48) o "Composizione verticale" (1964 - tav. 69) rimettono tutto in discussione; persino, la figura, che sembrava elisa da questo tipo di concezione, torna e si fa notare nella corrusca, emotiva, esplosione dell’impasto colorato ("Figura e spiaggia", 1964 - tav. 68; "Figura su fondo scuro", 1965 - tav. 71). Un grumo indefinibile, una sagoma antianeddotica che in "Forma giallo limone" (1968 - tav. 74) tange le elucubrazioni geniali di Mattia Moreni, i suoi frutti metaforici, ciononostante rileva una drammaticità decisa, senza perdere i tratti caratteristici dell’opera di Chighine, sfruttando cioè il continuo transito fra reale osservato e reale vissuto. Un grumo che si distende nel corso degli anni Settanta ("L’albero/Pianta", 1970-71 - tav. 78), quando l’orizzonte tende ad allargarsi, i colori a diventare più decisi; il ritmo rimane inalterato, come se Chighine seguisse da par suo una melodia precisa, iniziata un ventennio prima, coi paesaggi del 1952. Un capolavoro quale "Giallo arancio" (1973 - tav. 85) non solo dimostra come l’attività degli anni Settanta, di norma ritenuta secondaria a quella dei decenni precedenti, in verità possa esibire vertici di assoluto lirismo, nel contempo esso riassume perfettamente l’intera storia creativa del pittore, sintetizzando la polifonia dell’opera di Chighine, tesa verso l’unico scopo di dar forma e tessuto all’esistenza umana. Se non avesse assaporato il clima umido lombardo, con i venti freddi dell’inverno e l’afa calda dell’estate, egli non avrebbe potuto conoscere quella materia fremente, piena di luce interiore che lo contraddistingue. Un colore che lascia trasparire poco a poco le vibrazioni perenni che possiede, segretamente, al suo interno. Nel frattempo, i segni, i piccoli solchi, le indecise compenetrazioni fra timbri differenti, portano all’assunzione di tutti i singoli elementi linguistici in una grammatica che non è assembramento di tanti distinti codici, bensì un unico complesso linguaggio: un’armonia persistente che unisce ragione e vita. 1. Elisabetta Longari (a cura di) Chighine, edizioni Galleria Matasci, Tenero (CH), 1991. E ancora: Elisabetta Longari (a cura di), Alfredo Chighine, catalogo mostra, Itinerari Nuova Europa Editrice, Brescia, 1993 Articolo pubblicato l'1 novembre 2005 |