Anni ’60 - La Grande Svolta: note sull’allestimento
Di Roberto Zanon
Era da molto tempo che a Padova non si vedeva un "allestimento propositivo" come quello messo in opera per la mostra "Anni ’60 - La Grande Svolta". È questo un segnale positivo, indipendentemente dagli esiti "figurativi" che andremo a commentare. Spesso infatti quelle che vogliono evidenziarsi come "grandi mostre" risultano carenti o inconsistenti dal punto di vista dell’apparato che predispone alla fruizione dell’evento espositivo, specie quando la manifestazione ha la pretesa di essere importante anche dal punto di vista divulgativo. E la mostra patavina proprio "grande evento" desidera proporsi, non tralasciando una scientificità che il catalogo, grazie al ricco apporto di importanti storici, critici e progettisti, ben testimonia.
Vista dall'entrata con i grandi tavoli dedicati alla documentazione storica |
Cupola geodetica dedicata all'architettura |
Dicevamo dell’allestimento; all’interno del Palazzo della Ragione, al primo piano, nel grande volume carenato appena restaurato con tutti i suoi affreschi, Italo Rota, progettista della concezione espositiva della mostra, ha organizzato l’appartato scenico immaginandolo - sono parole sue - come un set cinematografico, dove la parola chiave è "visione". In effetti, il grande spazio del Salone è offerto alla vista in tutta la sua maestosità e gli ambiti in cui la mostra è stata sezionata (cinema, arte, architettura, design, moda, musica) appaiono come delle isole indipendenti - formalmente e fisicamente - aventi nel solo momento della percezione visiva una possibile interrelazione.
Tunnel dedicato al design |
Vista interna della cupola dedicata all'architettura italiana |
Se da un lato la scansione offerta da un allestimento differenziato in singole aree connotate formalmente proietta e decontestualizza in altrettante corrispondenti aree tematiche, dall’altra l’interpretazione scenica di Rota non convince pienamente. Sembra si sia persa l’occasione per un reale - eppur inevitabile - confronto con la scatola contenitiva che in questa occasione offre il proprio rinnovato make up. Le due grandi cupole geodetiche - con accessibilità interna solo visiva, l’altro grande volume semisferico dedicato alle proiezioni e il tunnel con intelaiatura metallica e cuscinetti plastici gonfiati a raccolta degli oggetti design sono risultate delle porzioni di spazio ben congegnate ma … un po’ fini a sé stesse. La forte connotazione iconografica di questi volumi - troppo occhieggiante gli anni a cui fa riferimento la mostra - va a discapito di una interpretazione in chiave contemporanea che forse meglio sarebbe riuscita ad omogeneizzare, anche a livello di presentazione, l’inevitabile commistione di oggetti, opere, prodotti che l’esposizione raccoglie. E lo stacco più brusco è sicuramente tra la parte dedicata al design e quella della produzione artistica. Invece di favorire un dialogo e una possibile correlazione tra questi ambiti si è scelto di isolare le due sezioni differenziandole anche nella struttura espositiva.
Area dedicata agli hippies ed alla Cina |
Panoramica in cui il grande cavallo ligneo presente nel salone e' inglobato nell'esposizione |
Eppure alcune attenzioni particolari sono evidentemente state ponderate; l’aver acceso, per esempio, la serie di televisori "dell’epoca" presenti nell’esposizione con una programmazione in "loop" di un serie di filmati divulgativi, ha in qualche modo restituito loro la vita.
E quando come supporto per alcune proiezioni sono stati impiegati dei video "contemporanei" a schermo piatto - evidentemente troppo fuori contesto nelle ambientazioni anni ’60 ricreate - si è convenientemente tolta la scocca mostrando la struttura tecnologica nascosta che paradossalmente risulta essere più vicina figurativamente a quegli "anni di boom economico" che non la minimale scatola che la copriva.
Sono comunque queste sensazioni che vanno vissute direttamente, come è nelle prerogative di ogni allestimento, in rapporto quindi alle singole percezioni personali. Del resto solo la visita diretta può offrire le magiche suggestioni dell’"Ambiente Spaziale" progettato da Lucio Fontana per Documenta a Kassel nel 1968 ricostruito per questa occasione. Una struttura volumetrica "abitabile" di un bianco accecante che sembra togliere consistenza allo spazio annegandolo in una atmosfera cangiante. Un’occasione preziosa che in qualche modo fa da contraltare ad una evidente "pecca" la totale assenza dell’opera di Gaetano Pesce. L’organizzazione di una esposizione è arbitraria scelta di una serie di opere e autori e quindi molte volte può non aver senso fare il gioco dei presenti e degli assenti; certo è che una lacuna rilevante come questa va in qualche modo evidenziata. Seppure personaggio scomodo e anomalo nel panorama artistico e del progetto, Pesce è proprio a Padova che ha avuto i suoi esordi (affiliato al primo gruppo Ennea poi gruppo Enne) prima della successiva internazionalità ed è stato l’autore di quell’icona del design, la poltrona "La Mama" della serie "Up" del 1969, capolavoro insuperato di interazione tra forma e tecnologia.