Conversazione con Fabio Novembre
di Ivana Riggi
Fabio Novembre è uno degli Architetti e Designer più ricercati; del suo fare
colpisce sicuramente la relazione tra l'arte intesa nella sua più ampia
globalità e il progetto che spazia nella sua più totale completezza.
Tra gli ultimi lavori ricordiamo quello presentato al Triennale Design Museum
di Milano ( dal 21 Aprile al 17 Maggio di quest'anno):“Il Fiore di Novembre”.
Si tratta di un'imponente istallazione che ho avuto modo di “percorrere”
personalmente nel molteplice ruolo di “visitatore”, “attore”, “spettatore”…
Una fruizione emozionante e contemporaneamente giocata con la “frantumazione”
della mia stessa “identità”…
Non mi soffermerò sull'allestimento in questione di cui si è già
abbondantemente parlato con giudizio più che positivo ma, sulla base delle
suggestioni ricevute, cercherò di conversare con lui per conoscerlo meglio e
capire da quale seme sbocci tanta estesa progettualità.
Architetto, mi parlerebbe della sua formazione ed in particolar modo della
sua esperienza alla New York University del 1993? Che peso ha il Cinema nella
sua esistenza?
Il cinema, per la stessa “immateria” di cui si compone, ha le stesse
caratteristiche del sogno, e la mia vita (come il cinema) ha una forte
dimensione onirica consumata nei tempi della veglia. Sognare ad occhi aperti
implica una progettualità accurata, una responsabile dichiarazione di intenti. Io
sono certamente il regista della mia vita, in piena coscienza.
Esiste un confine tra la sua vita privata e professionale o è un
flusso continuo e reciproco?
Io credo che questo confine non esista, e che quando esiste porta a grandi
conflitti interiori. E comunque, concentrando casa e studio nello stesso luogo,
ho impostato la mia vita sulla totale fusione/confusione dei due ambiti.
Cosa trasferisce dalla quotidianità ai suoi progetti?
I miei progetti sono pieni della mia personale quotidianità, sicuramente
diversa dalle altre. Il progetto non è mai in valore assoluto, può soltanto
testimoniare un vissuto.
Al Triennale Design Museum ho avuto modo di sostare davanti ad un video che
la riprendeva in cui si definiva il “Collodi del design”. Ci chiarirebbe questa
affermazione?
Io cito Collodi quando voglio parlare dell'impossibilità di predire un
best-seller. Collodi era un simpatico visionario che sentiva il bisogno di
raccontare la storia di un burattino di legno. Tutto il resto è affidato al
caso. Quanto più usi un registro intimo e personale, tanto più puoi aspirare a
un riscontro universale.
Che rapporto ha con la “quantità”?
Quando penso alla quantità mi viene sempre in mente il concetto di massa
critica che indica una soglia quantitativa minima oltre la quale si ottiene un
mutamento qualitativo. Io non riesco a scindere le due facce della stessa
medaglia che sono quantità e qualità, e cerco sempre di stabilirne un
equilibrio responsabile. Il mio mantra come progettista contemporaneo è: “fare
meno, farlo meglio”.
Alcuni miei amici psicologi hanno redatto di recente una rivista; il primo
numero si intitola “Arte e follia”. Lei lo trova uno spunto meditativo
interessante anche per il nostro mestiere? Se sì in che termini?
Lo sdoganamento del concetto di follia nei territori della creatività è
frutto di un lungo processo: genio e sregolatezza, belli e dannati, sono stati
i cavalli di battaglia dell'arte moderna. E dico moderna, non contemporanea,
perché credo sia qualcosa di già passato. Il mondo attuale ha declinato la
follia a tutti i livelli, e ha fatto esplodere il concetto stesso di arte
permeandone tutte le manifestazioni del fare. Il titolo che avrei scelto per la
nuova rivista sarebbe stato “Atto e amore”.
Tra i suoi lavori più avvincenti ricordiamo gli showroom per Bisazza a New
York e a Berlino. Che affinità ha trovato e come si è incontrato con questa azienda?
Mi spiego meglio, come si riesce a coniugare un mondo ricco di allegorie con
quelle che sono le logiche aziendali?
Il segreto è stato quello di non snaturarsi a vicenda nel reciproco
rispetto e stima. Ci siamo scelti, stabilendo da subito ambiti e ruoli. Ed è
stata un'esperienza illuminante con un imprenditore sicuramente illuminato.
Fellini affermava :”nello squallore alberga la bellezza”. A quale tipo di
“squallore” penserebbe e come lo proietterebbe nel suo fare progettuale?
Lo squallore cui si riferiva Fellini, se lo si contestualizza
temporalmente, era semplicemente il diverso. L'intera opera di Fellini anticipa
la valorizzazione del diverso che si consacrerà con gli anni settanta. Questa è
una lezione che abbiamo appreso bene, i valori della diversità sono i nostri.
C'è sempre un Obama dopo un Bush, fortunatamente!
Nei suoi progetti quanto appartiene ai colori, sapori, forme della sua terra
d'origine, ossia la Puglia? Ne esiste qualcuno particolarmente influenzato?
Con un paragone azzardato, i negozi per Stuart Weitzman ricordano le chiese
del barocco leccese. Mi spiego: lo stile barocco sviluppatosi nella mia città
natale era caratterizzato da forme quasi spontanee di iperdecorazione filtrate
attraverso la monocromaticità del materiale adottato (la pietra leccese).
L'elaboratezza dell'elemento in corian che riveste la quasi totalità delle
superfici dei miei negozi trasfigura in chiave contemporanea i miei ricordi
d'infanzia.
Qual è stato il lavoro più “semplice” da realizzare e quale il più
“difficile”?
La verità è che qualsiasi cosa richiede un grande impegno. Ormai ho capito
che accettare un piccolo lavoro mi porterà via lo stesso tempo di una grande
opera. Saper scegliere diventa la discriminante.
In un'isola deserta cosa porterebbe con sé e come allestirebbe quel “ vuoto”
che potrebbe pervaderla inizialmente?
Devo confessare che non sono particolarmente legato alle cose, pur progettandole.
L'animismo degli oggetti può essere un argomento soltanto quando si vive
circondati da persone. Un'isola deserta per me sarebbe un incubo. Io sono un
vero animale sociale.
Per concludere, cosa auspica per il futuro suo e per quello dei progettisti
più “giovani”, non solamente in senso anagrafico, che la circondano?
Auspico un livello di coscienza e sensibilità sempre maggiore. Abbiamo gli
strumenti per capire dove siamo, dobbiamo elaborare senso critico per sapere
dove andare. L'ho già detto, il mantra del progettista contemporaneo deve
essere: “fare meno, farlo meglio”!
Note biografiche
“Dal 1966 rispondo a chi mi chiama Fabio Novembre.
Dal 1992 rispondo anche a chi mi chiama “architetto”.
Ritaglio spazi nel vuoto gonfiando bolle d'aria e regalo spilli appuntiti per
non darmi troppe arie.
I miei polmoni sono impregnati del profumo dei luoghi che ho respirato e quando
vado in iperventilazione è soltanto per poi starmene un po' in apnea.
Come polline mi lascio trasportare dal vento convinto di poter sedurre tutto
ciò che mi circonda.
Voglio respirare fino a soffocare.
Voglio amare fino a morire.” (Fabio Novembre)