Matematica e creatività
di Riccardo Dalisi
Dal grande mare del Razionalismo, che, ad un esame filosofico, appare ancorato al pensiero ottocentesco ed all’illusione scientifica di una conoscenza e di procedimenti del tutto dominabili dalla comprensione razionale, alla rilevante stagione della ricerca statunitense, che approda anche in Italia negli anni Sessanta, vi è una continuità. Ma già Christopher Alexander appare meno sicuro. Affascina il tentativo (credo disperato) di Alexander di usare il computer per comprendere e dominare la complessità dei processi di creazione della forma. Tali testi appaiono ora distanti anni luce e quasi del tutto ingenui, anche se ancora capaci di qualche contributo.
L’ingenuità è nel pensare di poter imbrigliare una realtà così complessa quale è quella di un villaggio (indiano) in numeri e formule (anche se moltissime).
Il secondo livello di ingenuità è quello di credere di poter tradurre il tutto in una possibilità progettuale.
Il terzo è che esista un’idea coerente e configurabile di una realtà urbana traducibile in più dati quantitativi.
Il quarto è che oggi se ne senta un bisogno (di coerenza: quale?).
L’elenco può continuare, ma i disegni e le formule usate hanno un loro fascino. Non a caso, in effetti, inconsapevolmente Alexander adopera il sistema immediato (oltre il pensare) di cui noi parliamo. Basta guardare ai disegni che rappresentano conclusivamente il suo villaggio.
Ci sarebbe molto da approfondire sulla validità della matematica nella progettazione, una validità tale da poter comprendere una realtà complessa, sulla matematica come sistema rigido ed inoppugnabile.
Essa è oggi qualcosa di piuttosto diverso, è un mondo di straordinaria duttilità in evoluzione. E che dire del mondo delle previsioni su ciò che non c’è ancora e che appartiene al mondo creativo? Il mondo delle previsioni (ad esempio le indagini di mercato) si muove sempre più sulla soglia dell’intuizione creativa, tanto da volersi paragonare all’attitudine artistica, e questo in un mondo in cui gli argini si sono rotti, in tutti i campi: il concetto stesso di civiltà è in crisi, in bilico, come quello di architettura. La grande fase del dominio sperimentale del design rispetto alla stessa arte ha provocato dei mutamenti straordinari, moltiplicando le combinazioni possibili, anche perché, al proprio interno, il design si è specializzato in tantissimi ambiti tra loro diversissimi, dall’oggetto accessorio al soprammobile, dal settore arredo al settore attrezzatura, dalle superfici alle decorazioni, dall’interno all’esterno, dal complemento allo strutturale, dalla fonte illuminante all’involucro, dal quadro alla maniglia, dalla porta al soffitto e così via. Non vi è uno studio serio sulle infinite ramificazioni di tutti questi sottoinsiemi che si complicano sempre più in combinazione con l’arte, la tecnologia, l’architettura, con la città e la non città.
Le scomposizioni a piani e segmenti di Theo Van Doesburg, di Rietveld e di Mies e poi di tanti altri sono apparse risolutive e dirompenti. Il loro fascino è per me dovuto ai fatto che è come aver fatto emergere la cifra geometrica pitagorica e matematica che è dentro l’oggetto; questo al di là del fatto che si tratta per lo più di oggetti scomodissimi. E questo dimostra che la forma non deriva dalla funzione e che tale procedimento non è affatto razionale. Dimostrerebbe altresì la tesi secondo la quale un oggetto moderno è in un certo senso vicino ai primitivi e più agli antichi utensili contadini.