Tate Modern - Londra
di Davide Vargas
A Londra due personaggi, entrambi moderni, sicuri delle proprie ragioni, si fronteggiano e intorno a loro il pubblico parteggia per l’uno o per l’altro.
Da un lato c’è il Nuovo della Tate Modern, un nuovo sobrio ma decisamente certo della propria originalità, dall’altro, un po’ stanco, l’High-Tech, impeccabile nel proprio completo fumo di Londra.
Il confronto sembra impari, l’High-Tech è sostenuto da molti altri suoi simili, possono interscambiarsi a piacimento, freschi nell’agone, e tutti in divisa; e poi ha dalla sua la ferrea tradizione inglese che dal gotico di Westminster in poi ha sempre preteso che la tecnica fosse mostrata in modo esplicito.
Il Nuovo della Tate Modern è solo, almeno lì, ma è sostenuto dalla propria memoria di unità con altri suoi simili sparsi nel mondo.
Una comunanza.
A ben guardare, apparentemente impari, perché il Nuovo della Tate è più forte, e si vede.
Solo contro tanti, ma sta tutta lì la sua forza.
Originalità contro monotonia.
Ma attenzione, un’originalità silenziosa, tutt’altro che eclatante, che viene colta sulla pelle, mentre le labbra pronunciano un sorprendente "ma è tutto qui?";solo che poi quello spazio, quei metalli e quelle luci, quelle vetrate e quelle grafiche non ti lasciano in pace e continui a pensarci e ad emozionarti.
Un’emozione placida, un benessere a starci, in quello spazio.
Dall’altro lato spazi raffinati, tecnologie disumane, ma questo grigio dei pannelli, dei tiranti e del cemento sono monotoni, non c’è che dire.
"Il concetto di idea geniale è pressoché completamente sparito dai nostri progetti" scrivevano Herzog & de Meuron qualche anno fa.
La Tate Modern sembra l’ultima tappa di un processo di edificazione dello spazio del mondo - che cos’è la realtà, che cos’è il mondo? si chiedono gli architetti svizzeri - utilizzando sempre e soltanto i mezzi dell’architettura e senza cedere mai alla tentazione del gesto sorprendente e autocelebrativo.
E così nella Tate Modern si sta in uno spazio quieto, nel grande vuoto d’ingresso, tra le installazioni di Louise Bourgeois, che ne sono parte integrante, e che percorrendole mostrano punti di vista diversi dello spazio contenitore.
È come stare in uno spazio freddo, il freddo che diventa qualità percepita; i blocchi di vetro luminosi e dietro animati dai visitatori, sono fatti di luce che non irradia, ferma in se stessa, come dei bianchi blocchi di ghiaccio, e la luce è una luce cruda, la stessa dei grandi corridoi vetrati superiori, quasi che dall’esterno non potessero entrare mai raggi ma sempre una massa di lattice, al più un chiarore bianco.
Herzog & de Meuron scrivevano mentre lavoravano al progetto e sperimentavano nell’atelier per l’artista Rémy Zaugg : "Questa forma di lucernario è così semplice che si è costretti a domandarsi perché non sia stato sviluppato prima nell’architettura museale. È troppo semplice, troppo primitivo o valorizza troppo poco l’individualità del progettista? Veramente è proprio il contrario di una cascata di luce, perché lo spazio espositivo, grazie a questi lucernari leggeri e quasi scenografici, emana una quiete e una concentrazione a cui non si è abituati nei musei tradizionali con i loro soffitti completamente vetrati, i lucernari sospesi o le coperture reticolari"
Tutto sommato: la luce naturale come un inganno.
La luce artificiale che illumina le opere d’arte invece è d’altra natura.
Niente più freddo, ma misura, e democraticamente distribuita.
Ed ha origini nascoste, così come il clima, i colori, i suoni. Anch’essi estremamente misurati.
Tutta la tecnologia è a servizio dell’esposizione senza apparire, il vero tema del confronto.
La qualità dell’architettura è altrove, l’antagonista in grigio è servito.
Affacciano sul grande vuoto - la vecchia sala delle turbine, che è una sorta di grande piazza coperta - le sale espositive in successione, dove le opere di Donald Judd, astrazione e poesia, le luci di Dan Flavin, abbaglianti o avvolgenti, gli oggetti puri sulle tele di Michael Craig-Martin, i fumettoni di Roy Lichtestein, il silenzioso Lucio Fontana, vivono in costante dialogo con lo spazio architettonico, moderni linguaggi d’arte in relazione.
Trasversalità continua.
E il visitatore è captato in un circuito di arte e architettura, che è il vero punto centrale dell’opera, in una complessità di linguaggi, ratifica del mondo moderno su un piano superiore, come un Perseo che vola a portare il proprio saluto di emancipazione a tutto il quartiere affamato di dinamiche di sviluppo integrato.
Il fascione superiore di vetro con le sue grafiche e il medesimo coronamento della torre ne annunciano le intenzioni.
Affermano Herzog & de Meuron : "Solo con la Tate abbiamo capito ciò che effettivamente è un Museo. E siamo diventati molto più liberi"
A Cardiff c’è uno straordinario disegno di Cézanne, il tuffatore.
Viene voglia di tuffarsi senza riserve nell’architettura quando con il linguaggio dell’arte costruisce la libertà del mondo.