Verso un nuovo urbanesimo
27 luglio 2003, Camerino - Palazzo Ducale
XIII° Seminario di Architettura e Cultura Urbana
Massimo Pica Ciamarra
Il titolo di questo Seminario ha sapore di rifondazione. Sembra esprimere la perenne ricerca di leggi universali, in filosofia come nella scienza: anche per come formare o trasformare gli spazi fisici, renderli continuamente adatti al mutare dei modi di vita e della nostra cultura, pur diffidando di leggi universali, si vorrebbero solidi principi di riferimento. Non tanto assunti stabili, ancestrali - come per molto tempo sono apparsi quelli della triade vitruviana - quanto principi legati all’evolversi delle conoscenze e dell’organizzazione sociale, come nel ’33 cercò di fissare la più che datata Carta di Atene, o come nel ‘77 tentò la dirompente Carta del Machu Picchu. Questo Seminario sembra quindi organizzato per raccogliere suggestioni sui principi e le logiche che stanno subentrando - o che auspichiamo - per le trasformazioni dei nostri ambienti, sia per le grandi strategie territoriali, sia soprattutto per le se pur minute singole azioni. Gli ambienti dove viviamo - territori sconfinati o ambiti urbani - sono il prodotto di continue modificazioni nel tempo, di volontà conflittuali con ambizioni di efficienza, forma, espressione di significati: un processo di adattamento alimentato dalla contrapposizione fra aneliti di conservazione e speranze di trasformazione.
Nella condizione contemporanea aleggiano inedite: la velocità con cui emergono nuove esigenze (cioè l’accelerazione della domanda di cambiamento); la coscienza della diversità come valore; tecnologie che consentono esperienze simultanee in più luoghi. Forse sono anche questi fattori a far si che una società apparentemente matura (che rifiuta guerre e scontri fisici come strumenti per risolvere le sue contraddizioni) presenti crescenti conflittualità nella forma dei suoi spazi con evidenti carenze di coordinamento. L’assenza di velocità nelle trasformazioni - lo sconcertante iato temporale fra la nascita di un’esigenza e l’effettiva disponibilità degli spazi fisici che consentono di soddisfarla - in uno con l’incapacità di controllare i processi di trasformazione nei paesaggi naturali ed artificiali, ha prodotto i suoi anticorpi: una diffusa aspirazione alla quiete, un sopore, soprattutto l’insofferenza verso trasformazioni ritenute improbabili che, quando avvenivano, facevano rimpiangere quanto c’era prima.
Sotto questo profilo, negli ultimi decenni del secolo scorso l’Italia si è andata distaccando dall’Europa. Si colgono oggi sintomi diversi. Next Italy - alla Biennale di Venezia - ha mostrato alcuni concreti futuri: segna una svolta, abbandona ogni divagazione, mostra l’architettura come sintesi dei processi di trasformazione. Indurrà effetti molto positivi. A Milano, la Triennale ritrova slancio e vigore. La saldatura fra paesaggistica, urbanistica e architettura è ancora lontana, ma ormai esigenza sentita. La logica dei Piani Regolatori non è ancora scomparsa - manca un accordo coraggioso - ma da tempo si vanno introducendo nuovi strumenti e procedure, preziosi, pur se non garantiscono interventi coscienti dell’ambiente e del paesaggio. Certo la Malpensa è uno scandalo architettonico e tecnologico scaturito da meccanismi diversi; ma ancora oggi, lungo il suo percorso, l’Alta Velocità non mostra capacità tecnologiche né sensibilità paesaggistica. Molte città invece sembrano voler cambiare. Milano avvia la costruzione della nuova Fiera, del Politecnico alla Bovisa, della BEIC; Torino ha in corso le realizzazioni dei Giochi Olimpici, la Biblioteca con il Teatro, …; Trieste ridisegna il lungomare; Genova Ponte Parodi; Firenze la stazione dell’Alta Velocità; Roma il Palazzo dei Congressi, il Centro delle Arti Contemporanee, l’area della Tiburtina. Il sud affanna: Salerno è un’eccezione. Indubbi i passi in avanti, ormai tanti, ma occasionali, non sistematici. Sostanziale l’istituzione del DARC, la Direzione Generale per l’Architettura e le Arti contemporanee nel Ministero dei Beni e delle Attività culturali. L’insieme non denota però un governo del paese o una politica che realmente voglia, e quindi sappia, utilizzare le trasformazioni fisiche per rappresentare valori. Quali sono le condizioni che hanno consentito alla Francia di assumer il ruolo di faro in Europa? Quali quelle che hanno trasformato la Spagna del dopo Franco? Quali quelle che hanno portato alle IBA in Germania o quelle dell’Inghilterra all’inizio del 3°millennio?
La vicenda italiana è del tutto diversa. Alla fine degli anni ’50 il Paese usciva dalla ricostruzione e si proiettava nel futuro. Le Olimpiadi di Roma erano alle porte, così le grandi opere per il "centenario". Nella cultura italiana stava penetrando l’idea della programmazione; la "questione meridionale" sembrava prioritaria; l’"Autosole" appariva simbolo di una nuova visione territoriale; si delineava una vera riforma urbanistica. Il mondo, l’occidente in particolare, guardava stupito al "miracolo economico" di un Paese trainante dell’idea europea. Grande fiducia, azioni, conflitti ed enormi contraddizioni, in parte animate da un sostanziale "riarmo morale". Oggi l’Europa non è più limitata ai soli sei paesi ad elevato reddito che la fondarono ed è tesa a coinvolgere ben più dei venticinque che ne sono parte: nel nuovo contesto, il nostro Mezzogiorno non rientra più fra le aree relativamente deboli del sistema. Dimensione e penetrazione internazionale delle imprese italiane non hanno più i livelli di allora. Diversamente da cinquant’anni fa, l’Italia non sembra attraversata da proposizioni vigorose. Le sue trasformazioni sono condizionate da un sistema legislativo improprio anche se recente, involuto e conflittuale, oppressivo e rinunciatario. Nel confronto internazionale l’aspirazione al progetto, a trasformare - la fiducia nel futuro - ha raggiunto livelli assai bassi. In architettura ne sono sintomi evidenti l’esasperata tensione verso il recupero, i caratteri ingenui dell’aspirazione ambientalista, la diffusa diffidenza verso il nuovo; ai quali si affiancano - nel costruire e trasformare - indici di riferimento economico ben più modesti che altrove (non avendo riscontro in differenze di reddito, sono indicatori di disinteresse e scarsa domanda di qualità); esasperante lentezza delle trasformazioni; conflittualità di ogni tipo che ostacolano azioni condivise protese ad un ordinamento legislativo appropriato. La Legge obiettivo suscita perplessità, se non disappunto, in ampia parte della cultura del Paese; ad una diversa scala trova riscontro nelle nuove forme di DIA, ulteriore rinuncia a livelli di qualità condivisi. Nei processi di trasformazione dei nostri paesaggi urbani e territoriali questi sintomi sono sempre più preoccupanti malgrado la tradizionale forte tensione culturale; malgrado il crescere della sensibilità eco-ambientale; nonostante azioni positive e concrete ormai frequenti benché isolate, lente e non in sistema. Di segno del tutto opposto l’interesse - di conseguenza la capacità di innovazione e produzione - per i prodotti con i quali conviviamo e che, a differenza dell’architettura, non sono legati indissolubilmente al suolo, quelli che attraverso tecnologia e design esprimono un’inarrestabile ricerca di qualità e di bellezza.
Non occorre dimostrare che spinte all’innovazione e proiezioni verso il futuro sono oggi fortemente alimentate dalla diacronia del contemporaneo; lo sottolinea persino il motto recentemente assunto dall’Europa "unita nella diversità". Si è ormai coscienti del positivo coesistere - simultanee e compresenti, simbiotiche pur se fra loro conflittuali - di diversità e singole identità, ambiziose anche di ambienti urbani adatti a sviluppi diversificati. Da tempo cioè è crollato il mito della città ideale, non si aspira più ad assetti stabili, si rifiutano interpretazioni univoche. Ma al di là delle conflittualità che animano le nostre realtà, senza dubbio sostenibilità ambientale, chiave paesaggistica e stratificazioni culturali identificano oggi valori primi per la fisicità dei nostri territori. Peraltro il testo della Costituzione europea, nella stesura or ora varata dalla Commissione presieduta da Giscard d’Estaing, afferma il valore della sostenibilità ambientale, benché manchi di qualsiasi accenno ad una politica dell’Unione per il paesaggio, l’urbanistica e l’architettura (che invece qualche anno fa, nei bozzetti per l’euro, fu assunta come paradigma unificante della cultura europea).
Dovunque, anche qui dove in apparenza si è abbastanza restii a mutazioni, la trasformazione dei territori è continua. Diversamente da altri periodi del passato però l’insieme di queste trasformazioni non sembra rispondere ad un pensiero, non esplicita una visione del mondo o valori condivisi; peraltro sono abbastanza rare singole forme portatrici di senso. Certo, pur se quasi un ritornello, la frase di Jack Lang "l’architettura esprime la società del suo tempo, o meglio i poteri che la dirigono" sostiene un assunto: le trasformazioni dello spazio derivano da interazioni complesse fra chi le promuove, chi le domanda, chi le progetta, chi le autorizza e controlla, chi le realizza, chi le utilizza. Cioè, più di ogni altra forma di espressione umana, l’architettura interessa non tanto come opera di singoli, quanto per come rifletta un sistema sociale e sia condizionata dalle sue regole.
Rischiando un’astrazione, può dirsi che le trasformazioni fisiche dello spazio derivano da piani (che, al di là delle mediazioni insite nella loro natura di "patto sociale", dovrebbero materializzare speranze, rappresentare forti e fiduciose visioni del futuro) e da progetti (che a loro volta dovrebbero essere azioni attentamente valutate nelle loro conseguenze, quindi ampiamente condivise). Nella realtà invece queste trasformazioni derivano soprattutto da sommatorie di interventi inconsulti, risposte settoriali, per non dire egoistiche. Da una parte coesistono simultanei piani che fra loro si intrecciano inconsapevolmente, non più unitari, non già espressioni di volontà a sostegno di ipotesi per il futuro, bensì frazionati da ottiche di ogni tipo, attenzioni e prudenze in sommatoria paralizzante, banalità contrapposte, troppo spesso incapaci di una visione aperta, ampia ed integrata. Sul fronte opposto si attuano progetti, molti anche di rilievo, ma raramente partecipi di logiche superiori. Incalcolabili poi le azioni minute, più che altro ingombri, spezzoni, erosioni, corrosioni. Il precipitato di questa miscela appare inesplicitabile. Non è espressione di un senso collettivo, anche se certo non unitario ma pur sempre di scala superiore alle singole azioni. Sempre più spesso i singoli interventi ingombrano il territorio, sono prodotto di un sistema - oso dire di una cultura - che sembra estendere le logiche di progettazione degli oggetti industriali alle trasformazioni dell’ambiente (l’architettura, nella sua accezione più ampia) ignorandone le profonde sostanziali differenze.
E’ un’affermazione da approfondire. Connota l’architettura l’essere parte dei contesti (non solo spaziali, ma culturali, economici, sociali, amministrativi e via dicendo), l’essere cioè radicata ai luoghi ed a un tempo specifico. I prodotti industriali invece vivono di indifferenza localizzativa. Non che non abbiano "senso". Qualsiasi espressione formale sottende un’idea, in nessun campo sono tollerabili forme che derivino da fattori settoriali, che non siano portatrici di senso. L’indifferenza localizzativa dei prodotti industriali spinge però con forza verso l’autonomia delle loro forme, giustifica espressioni improntate da esigenze interne al prodotto. Non mancano implicazioni esterne, ma rispondono a requisiti generali, mai a contesti. L’architettura invece non è autonoma, è eteronoma per definizione, riflette altro. Le patologie più diffuse degli attuali processi di trasformazione sono al tempo stesso sintomi e risultato della confusione fra due aspetti del tutto diversi dei processi creativi, di una cultura che sostiene modi di pensare e di essere impropri pur se diffusi e consolidati. La devastazione ambientale e paesaggistica deriva anche dall’aver esteso ai fenomeni architettonici un approccio creativo improprio: l’esigenza di un approccio all’architettura diverso - rispetto a quello proprio dei prodotti senza luogo - non è estranea al tema del nuovo urbanesimo e dell’ecologia dei sistemi insediativi. Per un aereo, un’automobile, una nave, una navicella spaziale, una roulotte od una mobile-house (tutti spazi abitabili, ma tutti privi di rapporto con un luogo specifico) l’obiettivo resta nelle prestazioni del prodotto: ottimizzazione degli spazi, efficienza energetica, ogni regola interna all’oggetto. La forma di questi oggetti non nasce per entrare in relazione specifica con alcunché e può raggiungere ideali di pura bellezza, contemplazione estetica, compiacimento negli usi. Così una penna, un orologio, un televisore od una lavatrice, per ricordare - non sia ironia - un prodotto associato al nome del Ministro che una diecina di anni fa ha rivoluzionato le norme del progettare gli edifici, con alcuni spunti positivi, ma ignorando del tutto su cosa si fondi la qualità in architettura.
Siamo talmente avvolti da strumenti e oggetti d’uso finalizzati a funzioni specifiche che la sensibilità verso questioni diverse va inaridendosi. Eppure non possiamo dirci estranei alla struttura topologica dei diversi luoghi dove viviamo. In altre parole, nelle trasformazioni dello spazio, compito primario di qualsiasi intervento, quale che siano le motivazioni specifiche cui risponde, è aggiungere qualità all’insieme. Inserendosi in uno specifico contesto, ne costituisce una modificazione: cambia le relazioni fra le parti. Nel processo di progettazione si confrontano e mediano due atteggiamenti. Quello "schizofrenico" vuol far prevalere le logiche interne e si inebria di un isolamento egocentrico: ma conduce alla dissociazione. Quello "ciclofrenico" vuol far prevalere invece le logiche esterne, si immerge e dissolve nel contesto, sfocia in continuità indifferenziate. Nella sua concretezza ogni intervento, ogni edificio è un frammento di un contesto più ampio da cui trae radici e nel quale si sviluppa: rifiutando monadi - o edifici concepiti come unità isolate - si tende ad un processo combinatorio di "frammenti informati". Al centro dell’attenzione è lo spazio fra gli edifici, il non-costruito: e dove le relazioni prevalgono gli oggetti perdono la loro importanza fino ad annullarsi. Il disegno delle piazze, delle strade, del sistema di connessioni crea possibilità di dialogo fra gli edifici, permeabilità del costruito. L'obiettivo è interpretare lo spazio come sistema di luoghi, introdurre principi di identità e di aggregazione.
L’architettura quindi si connota per i rapporti con il luogo ed i contesti di cui fa parte, vive di relazioni immateriali con gli elementi del paesaggio, naturale o artificiale non importa. Diversamente da quanto è privo di collocazione predefinita, nel progetto delle trasformazioni spaziali - a qualsiasi scala - le "regole di immersione" prevalgono sulle "regole interne"; la partecipazione prevale sugli egoismi; domina il senso dell’insieme. E non vorrei qui alimentare equivoci dando forza a chi sostiene il mimetismo, si oppone all’innovazione, esprime principi conservatori: estranei sono soprattutto edifici o interventi "in stile", omogenei, che non rinnovano, che non comprendono che prima della qualità delle singole parti vengono le relazioni immateriali che il nuovo va a stabilire con quanto preesiste, ma anche con quanto sarà, pur se sconosciuto, imprevisto o imprevedibile.
Oltre ad assumere principi di scala superiore, in ogni caso ogni progetto di architettura di per sé è prototipo: deriva dal tenere insieme esigenze contrapposte, molteplici quando non infinite, si struttura attraverso scelte di prevalenze di volta in volta diverse. Il secolo corso ha massimizzato la cultura della separazione, quella delle ottimizzazioni specifiche; invece oggi ci alimentiamo di intrecci, ibridazioni, complessità. Punto di fuga della cultura contemporanea è l’integrazione: tenere insieme, far interagire, diversità. La mutazione di cui si avverte l’esigenza potrà scaturire da una capacità di progettare e costruire che ridia prevalenza alle regole di immersione sulle regole interne, che veda ogni intervento come frammento di un sistema, non solo risposta alle motivazioni pratiche che ne sono l’origine, certamente da soddisfare, ma alla fine semplice pretesto per elevare la qualità del contesto dove si opera. Può sembrare un sogno, astratta utopia, ma le condizioni di una nuova rinascenza sono in un accordo sociale teso ad ammettere trasformazioni, consentirle, non solo se non inquinano - né nei termini eco-ambientali tradizionali, né in termini di qualità di contesto - ma soprattutto se ciascuna contribuisce ad una realtà in divenire sempre più interessante e positiva. Un patto che coinvolga innanzitutto chi domanda le trasformazioni (quindi committenti reali e formali), poi chi le progetta, poi chi autorizza e controlla. Un patto senza norme, da esplicitare attraverso principi assunti come standard di riferimento, requisiti da soddisfare; che porti a far si che, indipendentemente dalla diversità dei linguaggi espressivi adottati e dall’adeguatezza tecnologica, l’armatura formale di ogni intervento privilegi i valori paesaggistici ed ambientali, colga i significati topologici dell’insieme in cui viene ad immergersi.
Una cultura dialettica e sperimentale, aggiornata e propositiva, non può non fissare - pur se provvisorie - acquisizioni, di riproporre principi. Da tempo non aspiriamo più a forme che esprimano assetti stabili: imbrigliati da piani molteplici e contradditori, siamo immersi nel magma delle miriadi azioni individuali ed azioni di amministrazioni pubbliche per lo più disinteressate - se non incapaci - ad esprimere tramite la forma dello spazio la cultura della collettività che lo anima. L’insieme di queste azioni, nelle atomizzazioni dei singoli componenti e nella totalità che ne risulta, esprime più egoismi che condivisioni, rispecchia ma non risponde all’insieme delle domande della collettività. In questa situazione sembrano opportuni, cioè da promuovere e sostenere, interventi capaci sì di soddisfare le proprie motivazioni, ma soprattutto tempo capaci di elevare la qualità dell’insieme, di apportare un dono ai contesti; interventi da valutare nel come entrino a far parte di sistemi più ampi, cioè per come evitino monologhi e si fondino invece sui dialoghi che andranno a stabilire con quanto preesiste. Non è un sogno aspirare ad interventi coscienti delle precarietà dei pretesti funzionali cui rispondono e simultaneamente della permanenza dei segni che introducono nel contesto, interventi fondati cioè su riflessioni attente e prioritarie sul proprio senso e sul proprio significato.
Malgrado l’ineluttabilità del degrado espressa dal 2°Principio della Termodinamica, da più parti si ammette la permanenza di sacche che lo contraddicano: un’ipotesi è impegnarsi per realizzare "zattere di salvataggio", ambiti ristretti ad elevata qualità, quasi con ruolo analogo a quello dei conventi che accolsero le comunità monastiche del Medioevo. Le questioni però oggi sono del tutto diverse: siamo critici della nostra realtà malgrado che, per miliardi di altri esseri umani, sembri un miraggio, quasi una "zattera di salvataggio". La coscienza della globalità non ci esime dal pretendere (nel senso di agire con tensione verso) anche qui, in questi luoghi per molti versi privilegiati, un mondo decisamente migliore. Come architetti abbiamo il compito di trovare opportune risposte alle domande di trasformazione, ma non siamo estranei alla formulazione stessa di queste domande. Ci occupiamo di trasformare lo spazio, siamo delegati a produrre trasformazioni fisiche che facilitino comportamenti, certo imprevedibili, ma espressioni di civiltà, di rapporti umani, di una cultura che riflettendo su se stessa raggiunga continuamente nuovi livelli. L’ambizione è tradurre pensiero in forma, dare senso a sempre nuove trasformazioni, esprimere lo stretto rapporto filosofia / architettura. Nella speranza di un nuovo "rinascimento", oggi più che mai il nostro impegno è per trasformazioni che, nel magma in cui siamo immersi, ambiscano non tanto a produrre "zattere di salvataggio", ma tentino soprattutto di porsi come benefiche "agopunture".
Articolo inserito il 26 agosto 2003