Lezione Magistrale. Antonio Rossetti su: L’Architettura si impara ma non si insegna
Situazione del Corpo Umano in un quadrato, tratto da L’Architettura di Marco Vitruvio Pollione tradotta e commentata dal marchese Berardo Galiani
Chiedere se le arti, e tra queste l’architettura, si insegnano o si imparano sembrerebbe una domanda evidentemente retorica. Basta infatti sfogliare qualsiasi manuale di filosofia per apprendere che da sempre, senza alcuna eccezione, si è d’accordo che le arti si imparano, e di ciò non si conoscono i meccanismi.
La domanda mi sembra allora più sensata se viene posta in questi altri termini: poiché, come a tutti è dato di constatare, le arti si insegnano; allo stesso modo come può essere constatata la condizione del fare artistico di cui, a dir poco, si sono perdute tutte le regole del gioco; poiché si ritiene che l’arte è un fenomeno dicibile esprimibile e transitivo; è possibile sperare che la maggior parte dei docenti riveda il suo atteggiamento antinormativo e si assuma la responsabilità di affermare che questa o quella disciplina si insegna o si apprende con precise modalità? E potrebbe continuarsi: anche perché le norme, che pure esistono – ossia gli standards contenuti nei regolamenti edilizi, piani di fabbricazione, piani regolatori, ecc. – sembra che siano proprio quelle che hanno portato la città allo sfacelo che è sotto gli occhi di tutti. (1)
Queste considerazioni, che, a prima vista, sembrano piene di buon senso e totalmente condivisibili, nascondono invece una notevole dose di ambiguità. A queste si potrebbe immediatamente opporre la domanda: se realmente l’arte è quella che si ritiene – ossia un fenomeno dicibile, esprimibile e transitivo – per quale misterioso motivo la maggior parte dei docenti dovrebbe rifiutare di mettere insieme delle precise norme per questa o quella disciplina? Ma, in più, se oggi si riescono a rendere normativi soltanto quei parametri del fare architettonico che vengono prescritti dai regolamenti edilizi, e altri simili strumenti urbanistici, non ci sarà per caso per questa circostanza un qualche preciso motivo? Poiché ritengo che non tutti i docenti siano insensibili ai destini dell’architettura, e che le norme degli strumenti urbanistici abbiano una loro precisa ragion d’essere, evidentemente a qualche termine contenuto nella domanda iniziale, che pur sembrerebbe scontata, viene attribuito un significato non corretto.
Penso che il nocciolo dell’ambiguità della domanda stia nel dare per scontata una circostanza che non lo è affatto: la dicibilità, esprimibilità e transitività dell’arte. Che tra gli uomini si faccia commercio di parole sull’arte, non significa che questa sia paradigmaticamente <dicibile>. Definire poi l’arte <transitiva> è, a dir poco avventuroso. Se è sempre esistita una differenziazione tra il produrre artistico e gli altri produrre in genere, questa a tratto le sue ragioni principalmente dall’accettata intransitività del primo. Che il messaggio artistico ritorni in se stesso senza transitare e disfarsi nel suo fruitore, inducendo invece ad ulteriori domande fino ad intrattenere con questi, come lo chiamo Blanchot, un <discorso infinito>, penso che non debba essere più ribadito. (2)
Ma, poiché è esplicito nella domanda l’invito ad un fare almeno positivo, se non positivistico, se si attende comunque una risposta, penso che la domanda andrebbe riformulata in questi termini: premettendo che fino ad oggi non si è stati in grado di definire con logica coerenza in cosa il produrre artistico si differenzi dagli altri produrre in genere; poiché le discipline artistiche comunque si insegnano; poiché i prodotti che da queste vengono fuori mostrano una condizione del fare artistico di cui, a dir poco, sembra che si siano perdute tutte le regole del gioco; è pensabile che possa essere definita e condivisa una qualsiasi norma che indiche delle precise modalità per il produrre di queste discipline artistiche, in maniera da renderle insegnabili, ossia dicibili, esprimibili e transitive? Se la risposta sarà affermativa, i predicati dicibile, esprimibile e transitivo dovranno, naturalmente, poter essere sostituiti con: ragionevole o coerentemente logico.
Questa sostituzione è condizione essenziale perché una norma possa essere condivisibile e, d’altro canto, se ciò non accadesse, non si comprenderebbe a cosa servirebbe una serie di sistemi normativi irragionevoli. Una infinità di norme tutte omogeneamente non ragionevoli, ossia non nomoteticamente condivisibili, equivarrebbe a poter produrre con qualsiasi norma, detta o non detta che sia. Situazione nella quale già, mi sembra, ci troviamo e che si tenta invece di superare.
Una via per poter definire una norma così fatta viene indicata suggerendo che questa accantonata l’annosa problematica ontologica [si ponga] come metodologia scientifica indifferente all’essenza [delle arti], bensì rivolta alle sue implicazioni operative e verificata dalla efficacia delle sue applicazioni. (3) Ancora una volta la proposta sembra piena di buon senso. Perché la norma, scientificamente intesa, non potrebbe essere d’aiuto al nostro produrre?
Delle scienze esatte – la matematica e la fisica – non si conosce l’essenza, eppure i matematici continuano a produrre matematica, se logicamente congruente, corretta, ed i fisici, fisica, se verificabile, corretta. Bisogna allora chiedersi: cosa rende corretto un prodotto della matematica e della fisica? Certamente la verificabilità della sua correttezza. Se qualcosa sia corretto o meno può essere detto quando esista un qualcos’altro sul quale verificare la correttezza del giudizio. Questo qualcos’altro per la fisica, è evidente, è il mondo naturale. Più sottile è invece la verificabilità per i prodotti della matematica. La sua differenza dalla fisica, la espresse bene già Aristotele: La matematica assume il suo aspetto e i suoi principi non dalla natura, come fa la fisica, bensì per ipotesi costruite dall’uomo e che non dimostra, ma in base alle quali dimostra tutte le sue conclusioni. (4) La correttezza dei prodotti matematici viene verificata sulla logica congruenza che questi mostrano con la logica interna che lega tra di loro principi, assiomi e postulati posti dall’uomo. Il coerente-tutto-già-prodotto-matematico è – come per la fisica, la natura – il qualcos’altro su cui verificare gli ulteriori prodotti matematici.
Per i prodotti artistici quale è il qualcos’altro sul quale poter verificare la loro correttezza? Questi, qualunque sia il produrre, non dicono mai in maniera obiettivamente mimetica qualcos’altro, ma lo rappresentano interpretandolo. In particolare, come intuì Platone, l’architettura e la musica, tra tutte le arti, si accrescono come la matematica, su se stesse, ma senza la coerenza logica di questa. (5)
Va però sottolineato che per la scienza la verificabilità dei suoi prodotti intanto esiste perché questa riguarda soltanto il loro aspetto quantitativo. Per la matematica questo è evidente. Per la fisica è vero, come si è detto, che è il mondo naturale a verificare la correttezza dei suoi prodotti, ossia la congruità con il fenomeno fisico che interpreta, ma di questo la fisica dà ragione soltanto dell’aspetto quantitativo. È evidente che per la legge di Newton è del tutto indifferente se a cadere è la Venere di Milo o una scopa vecchia, l’importante è che in entrambi i casi la legge riesca a valutare correttamente l’accelerazione di velocità di caduta.
Ma, se la verificabilità della correttezza dei prodotti scientifici trae la sua origine dall’aspetto esclusivamente quantitativo, potrà mai essere verificata quella dei prodotti artistici, per i quali i parametri qualitativi sono fondamentali? Certo, anche la Venere di Milo è fatta di misure, ma la sola elencazione di queste darebbe ragione della sua artisticità?
È vero dunque che la metodologia scientifica può rimuovere l’annoso problema dell’essenza delle scienze, ma perché è continuamente supportata dalla opportunità della verifica della correttezza del suo operare. Senza di essa, la definizione dell’essenza di ogni singolo produrre diviene invece ineliminabile. Se non so di cosa parlo, né ho la opportunità di verificare se è corretta la sequenza delle parole che sto connettendo, ogni mio parlare diventa impossibile o arbitrario.
Per i prodotti scientifici poi la verificabilità della correttezza comporta, relativamente a quelli artistici, ulteriori differenziazioni. Di un prodotto scientifico oltre la correttezza è possibile verificare la progressività, ossia se contiene delle differenze cognitivamente migliorative, che siano logicamente congruenti con gli altri già-prodotti. E poiché tali differenze si sommano le une alle altre, tempo dopo tempo, di un prodotto scientifico è anche possibile definire la sua diacronicità rispetto agli altri prodotti, ossia la sua sistemabilità all’interno dell’intero arco produttivo di quel produrre. In relazione a queste caratterizzazioni, la matematica progredisce su se stessa diacronicamente ed è sempre corretta, la fisica progredisce per continue diacroniche verifiche confutanti, e ciò che resta è sempre momentaneamente corretto.
Del produrre artistico, invece, non essendo possibile verificare la correttezza, si può dire che è sincronico e non progressivo. La cosa è evidente. Se non posso verificare la ragionevole correttezza di un prodotto artistico, non posso neppure verificare se questo contiene o meno quantità di conoscenze maggiori o minori degli altri prodotti artistici. In altre parole, se è logicamente impossibile mettere a confronto due prodotti artistici, non si potrà mai sapere se uno sia progressivo rispetto all’altro. E ciò avviene per qualsiasi prodotto di qualsiasi epoca. Se ne deve dedurre che di ogni prodotto artistico non può essere definita la progressività, non solo, ma che tutti i prodotti artistici di tutti i tempi, relativamente al parametro <progresso>, sono omogeneamente uguali tra di loro. Relativamente alla progressività, tutti i prodotti artistici, di tutti i tempi, è come se fossero stati prodotti nello stesso momento, contemporaneamente, sincronicamente.
Ogni prodotto artistico è diacronico perché prodotto dopo altri, e perché senza questi non potrebbe esistere, ma sincronico relativamente alla valutazione della differente quantità di conoscenza della quale è portatore, relativamente alla progressività dell’arte. Ogni prodotto artistico, poiché di esso non è possibile verificare la correttezza né la progressività, è un unicum ragionevolmente ingiudicabile rispetto agli altri prodotti artistici e rispetto a questi ragionevolmente sincronico. Ciò significa che per questi prodotti non è possibile definire una trasmissibilità obiettiva, che sia in grado di comunicare correttamente quale sia il livello di conoscenze delle discipline artistiche alle quali appartengono, né di predisporre ad ulteriori produrre correttamente progressivi. Come si vede, se la logica è sempre la logica, l’arte ragionevolmente non è dicibile, né trasmissibile, né tantomeno transitiva.
Chiarita, spero, l’ambiguità della domanda iniziale, ne segue che per poter dire, trasmettere, insegnare una qualsiasi disciplina artistica è logicamente necessario pre-costituirsi un sistema, sempre e comunque certamente arbitrario. In esso, una volta descritte le caratterizzazioni che si ritiene debba avere un prodotto artistico, è possibile verificare la correttezza del successivo prodotto. Si potrà discutere sulla liceità del sistema di riferimento, resta comunque il fatto che, al limite, ognuno che produce può costruirsi il suo e nessuno potrà obiettivamente dirgli che è scorretto. Sarà scorretto almeno come tutti gli altri.
Si potrebbe allora proporre: accordiamoci su di un sistema di riferimento, una norma, e su questa verifichiamo la correttezza dei prodotti. Ciò può anche essere fatto. Ma questa ipotesi si fonda su un parametro molto opinabile e avventuroso: la stabilità del giudizio umano. Oggi, qui, noi potremmo accordarci. Ma domani cosa potrebbe accadere? (6)
Sorge allora un dubbio. Se quanto detto sembra logicamente ragionevole, come ha fatto la norma classica a durare più di duemila anni? I motivi sono molti, ma penso possano essere ridotti a tre. Anzitutto perché essa era parte della più grandiosa costruzione sistematizzatrice del Tutto che abbia prodotto la civiltà occidentale: quella platonico-aristotelica. Finché durò questa, durò anche la norma classica. Poi perché essa altro non era se non la razionalizzazione metrica, fantasiosa quanto si voglia, di un sistema costruttivo: quello trilitico. Quando i segni dell’ordine greco furono adottati anche dai romani e usati, anche se con motivazioni profondamente diverse, per un altro sistema costruttivo, quello voltato, conformato con malte cementizie o muratura piena, l’ordine durò finché non sorsero nuovi materiali e nuove tecnologie. Ma soprattutto perché, contrariamente a quanto si crede, mai è esistita una norma più anti-normativa di quella classica. Nessuna fu più permissiva ed aperta ad ogni manomissione o deroga. E ciò non deve stupire, poiché tutto il mondo classica non si reggeva su norme certe ed impositive, ma sul nomos, che oggi noi, banalizzando, traduciamo: legge, dandole un valore coercitivo, che è quanto di più lontano dalla parola greca. (7) Il nomos greco non imponeva a nessuno un dover essere. Agire secondo il nomos nasceva in ciascuno come sentire, voler appartenere ai medesimi valori che gruppi di uomini, in tempi diversi, una volta data la misura (nomos) ad un luogo, dicevano con parole ed opere anche diversissime tra loro. Il nomos, in una parola, era anzitutto una idealità da vivere insieme e poi un elenco di norme che liberamente ci si dava ed alle quali liberamente ci si sottoponeva.
Fu rigida norma, legge, il De Architectura di Vitruvio? Quando questi descrive l’accordo delle parti di un edificio non dice: e si farà così, perché questa è la norma, ma perché produce un gradevole effetto, oppure: perché gli elementi posti in questo modo contribuiscono a dare importanza ed eleganza all’opera. (8) Evidentemente neanche Vitruvio riteneva l’ordine norma cogente, fortemente formalizzata, sovrastorica. Egli, semplicemente, tra i tantissimi edifici che doveva aver visto, descrive quelli che gli erano sembrati più gradevoli o imponenti o eleganti. In tal modo era pienamente nel nomos classico. E si può dubitare della <classicità> di Alvise Cornaro, il mecenate di Palladio, che pure scrive: et oltre a ciò una fabbrica può essere ben bella et comoda, et essere né dorica né de alcuno di tali ordini? (9)
E proprio lo spirito della norma classica sembra evocare Mukarovsky quando, tratteggiando le caratteristiche di una eventuale norma, scrive: nonostante tenda ad una obbligatorietà senza eccezione, la norma non può mai raggiungere la validità di una legge naturale – altrimenti vi si trasmuterebbe e cesserebbe di essere norma [...]. La norma si forma dunque sulla antinomia dialettica fondamentale tra una validità senza eccezioni e una potenza soltanto regolativa o addirittura semplicemente orientativa che implica la pensabilità della sua violazione. (10) Definizione che assume un senso soltanto quando si legga oltre, dove l’autore aggiunge: il segno artistico [ossia quello che configurando oggetti artistici dovrebbe dire l’operatività di una norma siffatta] a differenza di quello comunicativo [...] non comunica delle "cose", ma esprime un "determinato atteggiamento sulle cose" [...] l’opera però non "comunica questo atteggiamento" [...] bensì lo fa "nascere" direttamente nel fruitore. (11) Evidentemente se l’oggetto artistico comunica un determinato atteggiamento sulle cose che deve <nascere> nel fruitore, tra questi e chi ha prodotto l’oggetto deve esistere la ben fondata opportunità di un comune sentire.
Ma è pensabile tutto ciò oggi, in un mondo abitato da indifferenti <uomini senza qualità> di sempreverde musiliana memoria? L’uomo senza qualità, senza certezze, ricerca qualità e certezze ed è soltanto una metodologia scientifica che non si ponga l’annosa problematica della ricerca dell’essenza che può dargliele. Ma queste devono essere certezze <forti>, ragionevolmente dicibili e verificabili. Esattamente come sono le norme quantitative contenute negli strumenti urbanistici nati dalla mente dell’uomo <positivo>, che sa <stare sulle cose>, senza lasciarsi fuorviare da indimostrabili a-priori o da norme di sapore ontologico.
In alternativa a queste restano soltanto le classificazioni, le tassonomie, le genealogie formali, ancora una volta di sapore scientifico molto ambiguo. Ogni tassonomia, infatti, senza la verifica della sua ragionevole correttezza è una pura invenzione di chi la pone e dunque soltanto da questi applicabile. Gli ingloriosi esiti di presunte <costruzioni logiche dell’architettura> mostrano chiaramente l’ambiguo limite di ogni presunta scientificizzazione del produrre artistico, quando questa non sia intesa come ulteriore opportunità dicente, ma soltanto come piatti esercizi combinatori di neutrali, o presunti tali, formalismi. Che ritornino, a questo punto allora, i lucidi geometrismi di Ledoux, Durand o Guadet!
Scriveva Robert Musil: Vi è un mondo che deve contenere certezze, ma non vi è più l’uomo che voglia comprenderle; un mondo di esperienze, senza che si trovi più chi voglia viverle. (12)
Ha questo mondo certezze? Anche gli scienziati, dietro la metodologia operativa dei quali si corre affannosamente, non sono più così certi. Le fisiche e le matematiche, tutte naturalmente corrette, che oggi convivono nel mondo della scienza, hanno minato anche la speranza nella esattezza di questo. Anche gli scienziati, direi finalmente, devono oggi porsi il problema della più o meno veridicità delle loro corrette teorie. (13) Ma essendo queste tutte corrette, ossia logicamente congruenti, e dunque, matematicamente parlando, vere, non ha più senso parlare di veridicità per una teoria matematica, ma al massimo si potrà discutere della sua più o meno accentuata razionalità, definendo più razionale una teoria che mostra una maggiore capacità nel risolvere problemi all’epoca più importanti. (14)
Ancora una volta, per analogia, una norma per l’architettura potrebbe prendere le mosse da questo assunto. Tranne che: chi decide quali sono i problemi importanti all’epoca? La risposta è molto semplice: chi ha il potere di deciderli. Un tempo, anche per le arti li decideva Pericle, Adriano, Cosimo de’Medici, Giulio II, Luigi XIV... E oggi? Oggi, chi può deciderli non ha più bisogno dell’architettura per autorappresentarsi. La comunicazione dei segni del potere passa per altri canali.
Oggi l’architetto è veramente solo con la sua ragion critica. A questa soltanto può fare appello, attimo per attimo, per dar senso e consistenza alla sua operatività. Ma è ancora possibile aggrapparsi ad una qualsiasi razionalità in un momento, questo, nel quale tutto sembra precipitare nell’irrazionale più assurdo?
Forse si, se si riesce ancora a credere in ciò che scrive Dario Antiseri: La via della ragione è segnata dalla passione per i problemi; dalla creazione di tentativi di soluzione; dalla critica incessante e severa delle alternative che debbono senza tregua venir proposte. La ragione è passione per i problemi; è creazione di soluzioni; è critica delle proposte avanzate; è, dunque, dissenso continuo; dissenso sulle prove addotte, sulle soluzioni proposte, sui mezzi adottati. È dissenso e invenzione di nuove alternative. È assalto di queste alternative. La razionalità è un processo e la ragione costruzione senza fine. La ragione è passione; la ragione è fantasia; la ragione è critica; la ragione è eresia. L’ortodossia dell’uomo razionale è la difesa dell’eresia. Ma, consapevole del fatto che l’eresia di ieri è la teoria di oggi e sarà domani superstizione, la difesa dell’eresia sarà una difesa senza fine. (15)
Hanno una qualche valenza operativa queste vuote parole? A mio giudizio molta, più di qualsiasi pseudo-norma scientificamente atteggiata.
NOTE
(1) Le frasi in grassetto sono tratte da: R. DE FUSCO, Le arti si insegnano le arti si imparano, in <Op.cit.>, n°77, Electa Napoli, 1990.
(2) M. BLANCHOT, L’infinito intrattenimento – Scritti sull’insensato gioco di scrivere, Einaudi, Torino, 1969, pp. 311-321.
(3) R. DE FUSCO, Storia e struttura, Teoria della storiografia architettonica, ESI, Napoli, 1981, p. 165.
(4) ARISTOTELE, Metafisica, K7.1064a24, in R. MONDOLFO, Il pensiero antico, Storia della filosofia greco-romana, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 215.
(5) PLATONE, Sophista, 235b-236a, in E. PANOFSKY, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Firenze, 1975, p. 99.
(6) Sulla impraticabilità di fondare teorie minimali, sperando nel generale consenso, cfr: E. GARRONI, Senso e paradosso, Laterza, Bari, 1986, pp. 30-34.
(7) Per una esauriente trattazione del concetto di Nomos, cfr: C. SCHMITT, Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991, pp. 54-84.
(8) I giudizi di Vitruvio qui riportati riguardano la costruzione delle basiliche nel foro. M. VITRUVIO POLLIONE, De Architectura, libro V, I, 9-10, Studio Tesi, Pordenone, 1990, p. 203.
(9) L’affermazione del Cornaro è riportata in: G. FIOCCO, Alvise Cornaro – Il suo tempo, le sue opere, ESA, Vicenza, 1965, p. 53.
(10) J. MUKAROVSKY, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali, Einaudi, Torino, 1966, p. 62.
(11) J. MUKAROWSKY, Il significato dell’estetica, Einaudi, Torino, 1973, p. 358.
(12) R. MUSIL, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1972, p. 143.
(13) Sulla veridicità delle scienze esatte, cfr: AAVV, Metamorfosi, dalla verità al senso della verità, Laterza, Bari, 1986, pp. 111-132.
(14) La definizione di L. Laudan è riportata da D. ANTISERI, vedi nota (15).
(15) D. ANTISERI, Verso una teoria non giustificazionista della ragione, in Metamorfosi..., op. cit. pp.116-117.
Antonio Rossetti è Architetto, Ricercatore e Docente presso l’Università degli Studi di Napoli "Federico II".
Articolo inserito il 23 ottobre 2005