Conversazione con Claudio Caramel
di Ivana Riggi
(…) Uscire dalla città, a piedi, è faticosissimo. T'investe la lava bollente
del brutto, del rumore, strade sopra strade, tremendi ponti di ferro, treni,
camion, Tir, corsie con sbarramenti, impraticabili autostrade, un vero teatro
di guerra (…). Quanto riportato è un periodo tratto dal libro “Un viaggio in
Italia” di Guido Ceronetti, un itinerario percorso dall'autore lungo tutta
l'Italia degli anni '80… Purtroppo ancora oggi, sollevando il naso per aria, ci
accorgiamo delle brutture che ci circondano che “riempiono gli spazi” in
termini “quantitativi” ed a tutti i costi, dimenticando il ruolo importante
dell'architettura ed il significato di quella “bellezza intelligente” in grado
di persistere nel tempo …
Intervisteremo l'Architetto padovano Claudio Caramel che attraverso i suoi
interventi ha sicuramente contribuito ad evitare il nutrimento, aimè, di quella
“zona ancora deserta della coscienza umana”.
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Architetto, oggi l'architettura può condurre alla felicità sociale ed a
quali problemi è tenuta a rispondere?
L'architettura deve rispondere anche a problemi sociali, ma sarebbe
veramente troppo, davvero troppo pensare di poter condurre alla “felicità
sociale”. Ricordo benissimo una lezione all'università tenuta dal prof Ceccarelli,
che già alla fine degli anni 70 diceva: “…bisognerà ripensare le città e le
periferie, immaginando che nei primi anni del secolo futuro esse verranno
invase da migliaia e migliaia di lavoratori stranieri…”. Ecco che si capisce
dove sta la problematica sociale a cui rispondere con l'urbanistica e
l'architettura. Poi però ricordo anche una conversazione privata col grande
Gino Valle che, in seguito alla presentazione di un suo grande progetto in
Comune, mi disse: “Decidono tutto loro, noi architetti non contiamo più niente,
siamo alla fine del processo di trasformazione della città. Prima ci sono i
terreni, la rendita urbana, le leggi, i piani urbanistici, gli appalti, le
volontà politiche, gli interessi, i costruttori, i confinanti, i vincoli … Fare
architettura è sempre più complesso, è sempre più difficile. Siamo dei
mediatori culturali, fare architettura è una difficile mediazione tra tante e
complesse istanze diverse, il luogo e il contesto, la città, l'applicazione
delle leggi, il rispetto delle norme, il committente e i suoi interessi,
l'interesse della collettività, i denari e i budget, la tecnica e le strutture,
la terra, i flussi, la funzionalità dell'edificio, i vigili del fuoco, i portatori
di handicap, gli impianti, il condizionamento, l'aria, le facciate, le
finestre, i rivestimenti. E il vento, e le finiture, e gli interni. Lo spazio.
Il distributivo. Il contesto, l'intorno, la città, le strade, i marciapiedi, il
traffico, i trasporti. La storia. La gente. I flussi variabili e quelli
commerciali. Il funzionamento, che tutto funzioni. Il tempo.
Lo spazio e il tempo … Bisogna chiedersi: quali sono le priorità?
Bisogna riuscire a mediare perché le priorità dell'architettura restino quelle
vere e non vengano sopraffatte da altre meno importanti per noi, per la città,
per la società …”
Il linguaggio progettuale contemporaneo è cambiato? Se sì come: in meglio,
in peggio… per farla breve, lei è “contento”?
Senta, devo essere chiaro: come si fa ad essere contenti in un periodo come
questo? Lo diceva già Pasolini moltissimi anni fa che questo modello di
sviluppo non andava bene… non si tratta di essere contro il progresso ma contro
uno sviluppo dominato dalle leggi di un mercato sovralimentato, un turbocapitalismo
sprecone e truffaldino che da venti, trent'anni distrugge per il profitto di
pochi e che ci ha portato alla crisi mondiale di questo periodo in modo
diretto, provocando a cascata degrado culturale, degrado sociopolitico ed in conseguenza
anche degrado nella qualità architettonica. Ormai da molti anni si costruisce
troppo e molto spesso si costruisce male, con poca coscienza e poco rispetto
per il territorio e le risorse del territorio. Io vivo a Padova, in pieno
“nordest”, nel pieno centro di quella regione che una volta e più giustamente
si chiamava Triveneto, dove Palladio ha lasciato i suoi edifici e dove oggi
centinaia di “ville venete” si incontrano casualmente tra i capannoni
prefabbricati e semantizzati dalle immagini e scritte pubblicitarie… questa è
l'immagine del diverso linguaggio architettonico tra oggi ed il passato. Certo
qualche buona opera viene fuori anche oggi, ci sono molti bravi architetti, ma
il diffuso costruito è altro ed è lo specchio di un'epoca miope. Oggi, nel
magma commerciale del consumo, i ragazzi non vogliono più imparare a fare i
mestieri, che so il falegname o il pittore decoratore perché non è “figo”, e
così pian piano si perdono i saperi e la cultura di un fare sedimentato nei
secoli che è il nutrimento della buona architettura. Oggi, nel tempo
dell'immediatezza del tubo catodico, si perde il valore stesso del tempo, ma il
tempo serve per maturare una buona idea, una buona costruzione, un buon
massetto, un buon intonaco, come un buon vino. Oggi, nel tempo
dell'appariscenza, l'architettura deve svettare, proporsi in modo potente fino
a raggiungere l'arroganza, bisogna cercare l'opera d'impatto ed
indimenticabile, quando invece, da sempre, la buona architettura ha cercato
anche la semplicità e la sicurezza di un linguaggio sintetico e quindi ancora
più incisivo. Oggi, nel tempo dell'omologazione istantanea provocata dai media,
i grattacieli vengono su storti, svergolati, ricurvi e sfidano le leggi della
gravità, altro principio basilare dell'architettura quello della gravità, non
del peso ma della gravità, perché si devono mostrare prepotentemente al di
fuori dell'omologazione e le società che li commissionano fanno a gara a chi lo
fa più strano e più innovativo rischiando a volte di esagerare.
Uno dei nostri cantautori italiani e “collega”, Edoardo Bennato, ritiene che
si debba comporre una sorta di “architettura mentale” che stimoli i cittadini
ad indagare su ciò che li circonda… Lei come la costruirebbe?
Pur essendo d'accordo sul concetto io direi che oggi più che costruire
bisognerebbe abbattere, riqualificare, riconvertire, ristrutturare con al
centro del pensiero l'esigenza prioritaria della sostenibilità e del risparmio
energetico. Rifare le zone industriali con tetti verdi e pannelli solari, sui vialoni
impiantare microgeneratori eolici e alberi, negli spazi di risulta intorno ai
capannoni e fuori dai parcheggi fare piccoli boschi e orti; bisognerebbe
costruire nuove microreti nei quartieri con piccole centrali e produzione di
energia dal sole sui tetti, rigenerare i quartieri partendo proprio da un nuovo
accordo sociale tra gli abitanti che si mettono insieme per risparmiare e
produrre energia rinnovabile, che si mettono insieme per raccogliere l'acqua
piovana e che si mettono insieme per farsi recapitare direttamente a casa buoni
prodotti agricoli di stagione a km 0, che si mettono insieme per i micronido e
per le residenze degli anziani in quartiere sul modello dei paesi nordeuropei…
Architettura e politica convergono o divergono? Quali sono, a suo giudizio,
le responsabilità dell'una e quali quelle dell'altra?
L'architettura e l'architetto ormai da tantissimo tempo vengono dopo. Le
decisioni sul territorio e sulle leggi che regolamentano il modo di costruire
le prendono i politici e i potentati economici, prima. Si fa una modifica al
regolamento ed improvvisamente vengono fuori migliaia di tetti curvi a botte
sopra i condomini, si fa un'altra modifica e spuntano abbaini sui tetti a falde
delle nuove bifamiliari, appuntiti il più possibile per guadagnare cubatura…
quindi anche gli architetti hanno le loro responsabilità (anche se in Italia
solo il 10 per cento del costruito è progettato dagli architetti). Basta
pensare a come certa urbanistica male applicata abbia prodotto periferie
derelitte fatte di casette a cinque metri dal confine, l'una addosso all'altra,
disordinate, costruite e progettate quasi sempre al risparmio e male… basta
pensare a come son venute su le fabbriche e con quale qualità progettuale e
costruttiva sono state pensate… basta pensare alla densità del costruito basso
e informe che allora si capisce come la gente sia spaesata ed insicura in
quartieri dove non puoi camminare o andare in bicicletta. Quartieri pensati, e
male, solo per le auto che adesso sono molte di più delle case e dei garage che
le devono contenere. Allora questa crisi, spero, potrà trasformarsi in
un'occasione per ripensare tutto e per riportare le cose alla normalità,
bisogna rifondare un semplice concetto di normalità anche nel progettare: fare
muri, finestre, tetti, fare case che non consumano ma che producono energia,
fare giardini e viali alberati, fare strade per i pedoni e le biciclette e
lasciar fuori, magari sottoterra le macchine…
Esiste qualcosa che influenza fortemente la sua progettualità?
Certo, tantissime cose. Il mio modo di concepire l'architettura è
fortemente influenzato in primo luogo da alcuni principi “etici” che sarebbe
troppo lungo qui descrivere, poi dal contesto e dal luogo, dalla luce e dalla
materia, dalla pioggia e dal vento; fortemente dallo studio e dalle emergenze
del passato che per me sovrastano totalmente quelle del presente. Intendo dire
che potrei studiare sempre Brunelleschi e Borromini, Michelangelo e Palladio,
ma anche Scarpa e Albini, Le Corbusier e Breuer, Calabi e Gardella, Mies e Wright
e sarei comunque sempre aggiornato e ben influenzato.
In diverse occasioni ha definito “viaggi” le sue esperienze progettuali; me
ne racconterebbe qualcuna che l'ha segnata particolarmente come professionista
e come uomo?
Tutti i lavori per me sono ugualmente importanti: un piccolo oggetto di
design, un piccolo appartamento, una villa, un edificio. Ogni lavoro ha la sua
storia e i suoi protagonisti che non sono solo il committente e il progettista,
ma le imprese, gli artigiani, gli ingegneri, gli idraulici, gli elettricisti, i
posatori, i pittori, i serramentisti e molti altri. Un opera è sempre corale,
fin dagli albori del progetto che ovviamente si confronta con una specie di
intelligenza collettiva sedimentata e la storia. Dall'idea si passa alla realizzazione
ed al plasmare la materia alla ricerca dello spazio, che è la vera dimensione
cognitiva con cui l'architetto deve confrontarsi, ma per giungere alla
realizzazione di quello spazio, un insieme complesso e variegato di conoscenze
interagiscono tra loro e portano al risultato. Ogni progetto è un viaggio con
le sue difficoltà e le sue gioie. Potrei dirle che negli ultimi anni ho fatto
un lungo viaggio con Tobia Scarpa ed il prof Turrini per progettare il nuovo
centro servizi dell'Interporto di Padova, una lama di 74 m per 74 per 12 di
profondità dove corrono insieme tecnica ed invenzione, materia antica e
innovazione tecnologica, ma anche poesia e luce, un edificio vivo. Dal 1995 al
97 ho fatto un altro lungo viaggio per progettare un piccolo oggetto: la
tazzina Lavazza; per ogni casa che realizzo m'incammino coi miei committenti in
un percorso di approfondimento e di ragionamento che mi affascina sempre; ho
avuto l'opportunità di risanare una casa magnifica di Calabi o di confrontarmi
con l'architettura rurale oppure di pensare ad una barca per un signore che va
in pensione e vuole fare il giro del mondo. Ma sempre, in ciascuno di questi
piccoli viaggi, è necessario sforzarsi per mantenere costante la qualità e
l'intensità d'approccio, l'approfondimento ed una certa leggerezza, magari
cercando anche di togliere, di eliminare e di sintetizzare difendendosi dal
bombardamento di cose immagini oggetti materie dell'appariscenza che non sempre
portano a buoni risultati. E soprattutto, ad ogni viaggio, imparare. Non so
proprio a che risultati mi abbia portato la mia idea di architettura, ma so che
per tutti già partire con il giusto atteggiamento è già un bel partire. Vorrei
riuscire a migliorare la mia capacità di sintesi e continuare a lavorare
pensando allo spazio, e vorrei continuare il più possibile a lavorare con
persone che sanno fare il loro mestiere, con bravi colleghi, con bravi
artigiani, con bravi collaboratori per cercare di dare un piccolo contributo a
quella cultura collettiva di cui parlavo prima.
NOTE BIOGRAFICHE
Claudio Caramel, architetto e designer, vive a Padova.
Tra i suoi progetti architettonici più noti:
Edificio per uffici a Padova (Premio Architettura città Oderzo 1999);
Dipartimento di ingegneria ambientale Image - Università di Padova 2000-2002;
Centro servizi interporto Padova 2003-2005 (incarico congiunto con Tobia
Scarpa); Alessi mobili Bassano del Grappa; Jole Film - Padova 2005 (per
l'attore Marco Paolini); Flagship Store Morellato - Milano 2005.
Tra le opere più conosciute quelle per le aziende:
Lavazza, Morellato, Kleis, Even, Panasonic, Desalto…
Si evidenziano:
Lo shaker progettato per Lavazza insieme a F. Adrià presentato alla mostra
D-Day al Pompidou di Parigi nel 2005.
Il premio “Best System” Colonia 2005 “Interior Innovation Award” per Hang di Desalto.
Altre opere sono state presentate a Tokio e sempre a Parigi ed in numerose
mostre sul design sia in Italia che all'estero.
Tra le pubblicazioni a lui dedicate:
“Giacomo, Angelo, Sergio, Claudio Caramel attraverso il '900” di Virginio Briatore
(Ed. Archivolto - 1996);
“Claudio Palmi Caramel - Architettura e design 1995-2005” (ed. Idea Architecture
books)
“Trecase” (ed. Electa - 2006) di Claudio Caramel ,a cura di Laura Lazzaroni,
con testi di Tobia Scarpa e David Chipperfield.
Le sue opere sono state documentate e pubblicate nelle principali riviste
quali Interni, Abitare, Casabella, CasaVogue, Case da Abitare e molte altre.
Tra gli scritti di suo pugno:
“La casa di Jaco” (E-book - 1999)
Pubblica spesso articoli e piccoli saggi ed ha collaborato con alcune riviste
tra cui Modo.
Invitato a numerose conferenze e congressi ha tenuto lezioni o seminari anche
in varie Università tra cui IUAV e IUAV claDIS, Accademia di Bolzano, IED Roma.
Info:
Studio arch. Caramel
Claudio Palmi Caramel
www.claudiocaramel.it
Arch. Ivana Riggi
progettare@simail.it