Ricordando Franco Albini. Conversazione con Marco Albini
di Ivana Riggi
La cultura è un bagaglio di conoscenze che si trasmettono di generazione in generazione; se consideriamo, poi, questa nozione nel senso umanistico del termine come “coltivazione” dell'animo umano ecco che la sua valenza diviene quantitativa e quindi variabile da soggetto a soggetto. Franco Albini era sicuramente persona colta anche in quest'ultima accezione del termine. Estraneo all'autocelebrazione era un uomo fattivo e progettista polivalente straordinario. Nacque, nel 1905 a Robbiate; si laureò in architettura al Politecnico di Milano nel 1929.
Avviò la sua attività nel 1931 aprendo uno studio insieme a Giancarlo Palanti e
Renato Camus. Con questi realizzò i quartieri IFACP: ”Fabio Filzi”, ”Gabriele
D'Annunzio”e “Ettore Ponti” a Milano. Nel 1932 conobbe Edoardo Persico il
personaggio più rappresentativo del Razionalismo italiano che sicuramente
rafforzò le scelte tipologiche e tematiche del suo fare. Alla fine degli
anni'30 lavorò con Ignazio Gardella, Giuseppe Pagano, Giovanni Romano ed altri
progettisti ad alcuni prestigiosi concorsi per l'EUR e al piano urbanistico
Milano Verde.
Poi la guerra.
Finito il conflitto, seguirono gli anni della ricostruzione e del boom. Nel
1945 Albini fu tra i fondatori del Movimento Studi Architettura, in questo
importante periodo di rinascita culturale diresse insieme a Palanti la rivista
“Costruzioni Casabella”. Nel 1956 diventò socio dello studio Franca Helg con
cui condivise molteplici progetti. Ai primi anni '50 risale la sistemazione
delle Gallerie comunali di Palazzo Bianco a Genova: una progettazione museale
innovativa che concepì la mobilità delle opere all'interno degli ambienti. Fu
uno dei primi musei realizzati all' interno di una struttura storica
preesistente studiato secondo i principi del Movimento Moderno. Questo
straordinario intervento riconobbe Albini come un maestro della museografia
avviandolo ad una felice stagione in questo settore (Museo del Tesoro di San
Lorenzo -1952, 1956 - Restauro e sistemazione Museo di Palazzo Rosso - 1952,
1962). Negli anni'60 entrarono a far parte dello studio altre due presenze
importanti che, insieme a Franca Helg, portarono avanti i progetti di Albini
anche dopo la sua morte: Marco Albini (il figlio) ed Antonio Piva.
Tra gli incarichi più autorevoli si evidenziano: il Rifugio Pirovano a Cervinia
(1948, 1952 - 1955, 1960), la Villa Olivetti a Ivrea (1955, 1958), gli uffici
dell'Ina a Parma (1950, 1954), la Rinascente di Roma (1957, 1961), le Stazioni
della linea 1 della Metropolitana milanese (1962, 1965 - 1964, 1969)… Albini fu
un progettista completo, capace di occuparsi di diverse scale d'intervento dal
design, all'architettura, all'urbanistica.
Fu un designer innovativo: sua la libreria in tensostruttura (1938), la
poltrona Fiorenza per la Arflex (1952), la poltroncina Luisa (1954)
caratterizzata dall'incastro “a doppio pettine”, che nacque insieme ad altri
progetti dalla lunga collaborazione ( 1950- 1968) con la ditta Poggi.
Da ricordare l'attività didattica: negli anni 1949-54 e 1955-64 all'Istituto
Universitario di Architettura di Venezia, nel 1954-55 al Politecnico di Torino,
dal 1964 al Politecnico di Milano.
Albini fu, inoltre, membro dei CIAM, dell' INU, dell' Accademia di San Luca,
dell' America Institute of Architects, dell'Istituto scientifico dei CNR per la
sezione di museografia.
Tra i numerosi premi vinti i più importanti : tre Compasso d'oro nel 1955, 1958
e 1964; il Premio Olivetti per l'Architettura nel 1957; il Premio Royal
Designer for Industry della Royal Society di Londra del 1971.
Converseremo con il figlio Marco per ricordare l'immagine di questo grande
progettista che architetti del calibro di Renzo Piano, formatosi al suo studio,
definiscono Maestro.
Architetto, in una interessante conversazione con Luigi Mascheroni lei ha
riportato delle espressioni di suo padre che mi hanno toccato: (…)”Io non ho
desideri di possesso” (…) “Il mondo non lo devi limitare con la proprietà,
altrimenti non lo vedi più” (…) Chi era Franco Albini?
Franco Albini aveva una sua rigidità morale che non era “moralismo”, anzi
era molto aperto, ma era più un “rigore” che trasferiva poi alle cose che
faceva. Era una rigidità morale verso se stesso che gli proveniva da una storia
di vita passata di una famiglia borghese milanese vissuta in Brianza, che ha
avuto improvvisamente dei tracolli finanziari. Un nucleo familiare che intorno
al 1929 è passato da una situazione di agiatezza ad un problema di
sopravvivenza. Mio padre ha dovuto far fronte a questa difficoltà essendo
l'unico uomo in famiglia perché il papà era morto già da tempo. Ciò gli ha
cambiato l' atteggiamento verso la vita con una scelta minimalista: ciò
riguardava anche l'architettura ma gli proveniva dall'interno. Si doveva essere
parchi, occorreva non avere bisogni, specialmente quelli del consumo;
evidentemente ciò dipendeva anche da un'ideologia che prediligeva le classi
più povere e metteva qualunque professione, da quella dell'architetto a quella del
medico, al servizio della gente; un servizio sociale che si rivolgeva, appunto,
a chi aveva più bisogno.
In architettura, quindi, i temi erano quelli delle case popolari, degli alloggi
a basso costo, della riduzione delle superfici al minimo, del rispetto del modo
di abitare. Da un lato era una scelta ideologica di vita in cui rientrava anche
la partecipazione di gruppi di tendenza intellettuali, dall'altro si
rispecchiava in scelte professionali.
Quindi era un percorso parallelo?
Parallelo era il clima culturale dell'epoca: una sinergia di diverse
personalità, arti, mestieri. I pittori, gli scultori, gli architetti lavoravano
tutti in una certa tendenza che poi si rispecchiava, dagli anni trenta in poi,
in una opposizione agli architetti del passato: all'Ottocento ad esempio, al
Barocco, a un modo di vita celebrativo, molto sovraccarico. La nuova
architettura doveva essere semplice, ridotta, minimale, doveva “sottrarre” per
opporsi a quella di prima. In un certo senso “Non ho desideri di possesso” rientrava
in una logica, appunto, in cui non bisognava averne! Mio padre aveva anche un
rapporto con il denaro molto disinvolto. Mia madre, che proveniva a sua volta
da una ricca famiglia di possidenti piacentina che aveva subito anch'essa il
tracollo della guerra pure se qualcosa era rimasto, mi raccontava che si doveva
mantenere la famiglia con i cibi che si prendevano dalla campagna andando da
Milano a Piacenza in bicicletta perché non c'era benzina. Si prendevano le
uova, i polli e così via. Papà non chiedeva le parcelle, non aveva
corrispondenza tra il lavoro fatto e la remunerazione, lavorava perché gli
piaceva. Le racconto, ad esempio, che durante la guerra aveva aperto un piccolo
studio, con Enea Manfredini (architetto di Reggio Emilia), a Piacenza perché
abitava nella campagna di mia mamma che era piacentina. Era uno studiolo in
via Scalabrini, dove adesso c'è la Facoltà di Architettura, non avevano
commesse perché non c'era lavoro però loro si trovavano lì tutte le mattine e
lavoravano. Disegnavano mobili, probabilmente sperimentali, di cui oggi abbiamo
qualche disegno, alcuni prototipi, fatti con dei fili sospesi: degli armadi le
cui ante stavano su con dei tiranti, dei tavolini che avevano le gambe
tirantate che poi hanno dato origine a quel tavolo a cavalletto che vede lì.
Era un'attività che volevano fare per loro stessi, che in un certo senso si
imponevano… Tutto ciò per esplicarle ancora più chiaramente quello che era il
rapporto di Franco Albini con il denaro.
Per suo padre quando l'architettura diventava arte?
Ah in questo senso non voleva sentir parlare di arte!
Sì, infatti la mia è una domanda provocatoria…
L'arte non era un presupposto del fare architettura, non voleva essere
chiamato artista ma piuttosto artigiano; ha sempre lavorato con la materia, con
i falegnami, i fabbri, tirando fuori da loro delle esperienze che poi
trasformava in oggetti. Che poi queste siano diventate delle opere d'arte non
saprei dire però, certamente, il “fare un'opera d'arte” non doveva, non poteva
essere l'obbiettivo di un problema architettonico. Il metodo era invece
importante: bisognava lavorare al meglio, costantemente passo dopo passo.
In che modo utilizzava la tecnologia, mi spiego meglio: come percorse la
“via del moderno”?
Allora non esisteva questo termine “tecnologia” che assumesse un
significato anche di riferimento culturale perché quella di quel periodo era
la tecnica tradizionale che si era trasferita nel tempo sino ad allora ed era
appunto l'artigianato. È chiaro che c'erano le macchine e quindi l'industria
aveva fatto dei passi avanti per quanto riguarda i mobili per esempio. Per
quanto concerne l'architettura l'utilizzo delle tecniche consisteva nel
ricercare dei modi costruttivi nella storia, nella tradizione. Se mai li si
poteva modernizzare, trasformarli nei termini moderni, che voleva dire
semplificarli, diminuirli nei costi, ridurli nell'uso del materiale usandone
meno possibile, significava trovare delle intenzioni per razionalizzare,
ottimizzare i risultati. In questo senso la tecnologia veniva portata avanti
secondo la logica, o il metodo, dei piccoli passi: un avanzamento progressivo
del lavoro quotidiano.
Perché “funzionava” la coppia Albini - Helg?
Franca Helg è arrivata in studio nel 1956.
Era una grande organizzatrice anche nel coordinare gli altri, funzionava pure
da barriera protettrice: teneva lontano papà dai problemi di tipo pratico
permettendogli di fare ciò che gli piaceva come stare al tavolo a progettare.
Ricordo che in studio si arrivava la mattina e si andava via la sera; non ci si
muoveva quasi mai, si stava lì a disegnare. Si usavano dei camici bianchi con i
polsini stretti per non sporcare le camicie e nel taschino si tenevano le
matite: sembravamo dei medici!
È assolutamente il contrario di ciò che accade oggi: in studio non ci si sta
più quasi mai, si sta sempre fuori per appuntamenti, per cantieri... A quel
tempo era come una bottega, per questo il fattore protettivo di Helg
funzionava. Ha portato anche un affinamento di alcune pratiche progettuali: ad
esempio il modo di comporre le dei disegni.
Come fosse nata questa coppia, io non lo so; le voci dicono che ci fosse un
rapporto sentimentale, se c'era meglio ancora, io lo escludo completamente e
per quello che so non c'era. Anche mia madre non mi ha mai dato segnoerano
delle sintonie su altro!
Ci fu un progetto che fu per loro particolarmente impegnativo?
Io ho seguito i progetti dal 1968 in poi. Uno dei lavori più impegnativi,
perché ha comportato tanti anni, fu sicuramente il restauro e sistemazione a
museo dei chiostri di Sant'Agostino a Genova. Progetto iniziato prima del 1970
come preliminare, poi abbandonato per mancanza di fondi per anni e continuato a
metà degli anni '70, lasciato nuovamente perché non andava avanti niente, poi
ripreso da noi come studio successivamente alla morte di mio padre dopo il 1978
e completato nel 1986. Venti anni e più di progettazione! È un progetto
abbastanza significativo perché oggi le Sovrintendenze non ti concederebbero
più la ricostruzione di un chiostro medievale, se pur distrutto, con delle
putrelle di ferro alte due metri che correvano da una parte all'altra. Le
attuali Sovrintendenze, a parte quelle molto illuminate, inorridirebbero di
fronte ad una cosa del genere. Di questo sono quasi sicuro! Viceversa io credo
che si sia riusciti nell'intento di mantenere l'atmosfera del chiostro
medioevale pur utilizzando materiali completamente diversi.
Un altro progetto molto sofferto fu quello del restauro e sistemazione a Museo
Civico del complesso degli Eremitani a Padova. Il museo è stato completato nei
due chiostri abbastanza rapidamente. Il progetto dell'avancorpo che consisteva,
sulla spinta anche di alcuni critici dell'arte e dell'architettura, nella
ricostruzione di un piccolo edificio di fianco alla facciata della chiesa ebbe,
invece, seri problemi. Vennero fatti 14 progetti diversi: cambiati, approvati,
non approvati, finche si arrivò a costruire una gabbia metallica per simularne
il volume. Ciò fu un disastro perché questa struttura venne scambiata dalla
gente per quella vera. Si scatenò una polemica enorme. Il progetto fu
cancellato; fu una grande sofferenza perché tutto il museo avrebbe funzionato
entrando da lì: non essendoci un avancorpo tutto diventò una cortina senza una
hall, un bookshop… ricavando le cose a pezzettini.
Nel 1968 lei entrò a far parte dello studio, com'era il confronto con un
padre come il suo?
Sono entrato come disegnatore fino al 1972,1974; nel 1970 o 1969, non
ricordo bene, è entrato in studio per un anno anche Renzo Piano il quale
afferma di aver disegnato ciottoli, uno per uno… È un po' provocatorio per
significare che partire da cose molto piccole per poi andare avanti è un
insegnamento. Il lavoro si svolgeva disegnando a mano, a china e facendo
asciugare la riga; ricordo che c'era un disegnatore che fumava e passava la
sigaretta sopra la riga per farla asciugare: sono tutte tecniche che i giovani
non conoscono… Bisognava pensare alla tavola, a come comporla, a cosa metterci
dentro, era una progettazione in se stessa perchè il disegno doveva essere tutta
pieno. La pianta doveva essere accanto alla sezione, vicina al prospetto,
doveva essere composta e stavi attento perché se sbagliavi dovevi rifare tutto
da capo… Non è come adesso che con un click sistemi tutto…
Che rapporto aveva Franco Albini con il mondo accademico?
Franco Albini ha insegnato a Venezia fino al 1964 quando venne chiamato
dalla Facoltà di Architettura di Milano dove io frequentavo il quarto anno. Era
il periodo della prima occupazione della Facoltà. Nel mio anno accademico 1964
è iniziata una battaglia contro gli accademici dell'epoca per uno scopo che
allora aveva dei precisi obbiettivi culturali, che poi sono diventati politici,
ma che nel 1964 erano voglia di modernità. Noi pretendevamo che venisse
insegnata l'architettura moderna, quella degli anni trenta, quella
razionalista, l'arte moderna, l'arte astratta, il cubismo. I programmi di
insegnamento di allora non concepivano che si parlasse di modernità: tutto si
fermava alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento, perché la modernità
aveva un sentore politico e non bisognava parlarne. Questo accadeva sia nelle
scuole, sia nelle università. Così noi facevamo architettura disegnando il
capitello, le colonne, il tempio dorico, le piante degli edifici “moderni”, se
vuoi, ma con in testa gli stili. Chiedevamo:<< Ma allora Le Corbusier,
chi è? Non ce lo insegnate?>> I docenti rispondevano che non era nel
programma! Insistendo, insistendo, questi insegnanti reagirono battendo il
pugno e minacciando di sospendere tutti. La nostra risposta fu l'occupazione
della Facoltà! Non so come sia avvenuto questo fatto ma ci fu un vero e proprio
sollevamento popolare perché questa storia ci aveva fatto seriamente incazzare!
In seguito, intorno al 1965, l'onda studentesca dilagò un po' ovunque: dall'America,
alla Francia e così via.
Nel ‘64 accadde che uno dei professori più incattiviti nell'opporsi alle nostre
intensioni, prossimo alla pensione, si dimise e nacque la necessità di chiamare
altri due docenti. Gli studenti in assemblea chiesero che venissero due
professori da Venezia: uno era Albini e l'altro Belgiojoso.
Quando mio padre arrivò a Milano, tra il 1964 e il 1965, da allora in poi il
problema della gestione studentesca della Facoltà assunse una piega
assolutamente politica, anti architettonica: c'era l'atteggiamento
rivoluzionario della “tabula rasa”, si chiamava così, ossia quello di azzerare
la cultura, la società, per ricominciare da zero. Tutte queste cose hanno
portato danni enormi, e la formazione degli studenti di quegli anni fu un disastro!
Mio padre, di fronte a tutto ciò, era molto curioso perché si ricordava della
sua gioventù in cui anche lui si opponeva al passato e pensava :<<Magari
hanno ragione!>> Non riusciva, però, a dare dei contributi perché era un
architetto e non poteva, non voleva insegnare come si facevano le barricate!
Ebbe una grande sofferenza perché tutto questo si inoltrò all'incirca fino al
1975: per quasi dieci anni! Contemporaneamente nel 1970 papà si è ammalato, è
morto nel 1977 dopo sette anni di malattia, anche per questo ha lasciato la
scuola.
Per concludere, le chiedo: sulla base delle esperienze maturate anche “per
tradizione”, lei crede che oggi l'architetto andrebbe “riprogettato”?
Più che riprogettare l‘architetto andrebbe riprogettato il mestiere, occorrerebbe
far partecipare gli architetti alle fasi di progettazione anche di tipo
decisionale. Purtroppo da sempre è considerato un “facciatista”: viene chiamato
per decidere il colore, mettere a posto le facciate, fare una composizione più
“carina”, mettere a posto le piante… Le scelte iniziali di tipo urbanistico,
architettonico, compositivo, quando viene interpellato sono già state fatte.
Questo fa parte di una crisi della professione e di un dualismo tra urbanistica
e architettura, mentre al tempi di mio padre si parlava di “forma della città”
adesso l'urbanistica fa pianificazione, non si occupa di fatti formali e gli
architetti fanno monumenti. Quelli contemporanei fanno sculture,
autocelebrazione, fanno immagini il più visibile possibile sopratutto nelle
architetture pubbliche: vanno sui giornali, vogliono l' impatto visivo. Fanno
parte di un mondo in cui i consumi e la pubblicità rendono l' apparenza
elemento supportante. Ciò è per me negativo. Spero che la crisi attuale porti a
riflettere verso una maggiore serietà. Credo, però, che l'architetto abbia
fatto grosse sperimentazioni liberandosi dall'edilizia. Ci sono pure dei
progetti interessanti che hanno dato più lustro all'architettura e più
importanza agli architetti in quanto, forse, un progetto ben fatto migliora
anche l'aspetto economico e quindi quello della vendibilità. Sicuramente il
mondo è peggiorato da un punto di vista burocratico, su aspetti in cui non ci
chiamano a esprimere un parere. Negli ultimi decenni, per fortuna, un fattore positivo
è che si sia rafforzato il sistema dei concorsi il quale permette un dibattito
e quindi dei confronti.
Il mestiere degli architetti risente pure della pessima pubblicità che gli ha
fatto l'ottanta per cento della categoria che produce tante di quelle cose
orrende che si vedono in giro: per forza la gente prende la distanza! C'è molto
sospetto forse perché nel passato gli architetti son stati citati per
speculazioni edilizie, traffici, tangenti. Molti sono di scarso livello, sono
troppi e, chissà perché, non diminuiscono.
Marco Albini mi ha salutato esclamando: <<Chissà cosa verrà fuori da
questi piccoli racconti!>> Il suo studio, in Via Telesio 13 a Milano, è
un posto accogliente: la stanza in cui si è svolta la nostra conversazione
conteneva una luce moderata, grandi plastici, oggetti realizzati ed un ritratto
di Franco Albini. Tutto “avvolgeva” il nostro dialogo.
Troppo spesso la nostra frenesia ci porta ad offuscare la memoria.
Per un attimo, navigando con la fantasia, ho avuto il privilegio di immaginarmi
lì, anni addietro, con un camice bianco a polsini stretti e un taschino pieno
di matite…
Marco Albini, architetto, è Professore associato di Architettura degli
Interni e Allestimenti alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano
per cui è anche responsabile del Laboratorio “Architettura dei luoghi della
mobilità” nell'Area di ricerca “Urbanistica dei tempi e della mobilità” del
Dipartimento di Architettura e Pianificazione .
Dal 1996 è Membro effettivo del Consiglio Direttivo del Museo Teatrale alla
Scala. Dal 2002 insegna nel nuovo corso di laurea “Architettura dei luoghi
della mobilità e urbanistico dei tempi moderni” presso la sede di Piacenza.
Nel 2006 viene nominato componente della commissione giudicatrice della
“Procedura di valutazione comparativa a n. 3 posti di Ricercatore Settore
Scientifico Disciplinare ICAR/16” 1^ Facoltà di Architettura “L. Quaroni” dell'
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
Ha curato diverse mostre tra le quali ricordiamo: "La natura morta al tempo
di Caravaggio" e "I capolavori della collezione Doria Pamphilj - da
Tiziano a Velàzquez", presso la Fondazione Arte e Civiltà, Milano (1996);
"I segni dell'arte. Il Cinquecento da Praga a Cremona", presso
Palazzo Affiatati, Cremona (1997); "Luca Beltrami e la Milano del suo
tempo", presso la Triennale di Milano (1997); "Ambrogio. L'immagine e
il volto", Museo Diocesano, Milano (1998);
Contemporaneamente svolge la libera professione, il suo studio -“Architetto
Marco Albini” - si trova a Milano.
Fra i suoi ultimi lavori in campo professionale:
1996, Adeguamento dei Chiostri di Sant'Eustorgio e allestimento
museografico del Museo Diocesano, Milano; Progetto e Direzione Lavori
1996, Adattamento di spazi a mostre temporanee, Fondazione Arte e Civiltà,
Milano;
1997, Progettazione dell'illuminazione scenografica del Castello Sforzesco, con
P.Castagna, G.Ravelli
1999, Restauro e realizzazione di: albergo, ristorante, Accademia Europea del
Gusto, enoteca, sala conferenze, banca del vino; POLLENZO - BRA (Cuneo), con
M.Miraglia, E.Villani, L.Villani, TEKNE s.p.a.; Progettazione e direzione
lavori; Committente: Agenzia di Pollenzo
2001, Progetto nuova sede Banca Intesa, SESTO SAN GIOVANNI (Milano);
Committente: Banca IntesaBci
2002, Ristrutturazione, conservazione e restauro del complesso monumentale
dell'ex Monastero di S. Maria Assunta in Cairate, CAIRATE (Varese);
Committente: Provincia di Varese.
2004, Restauro e recupero della Manica Nuova di Palazzo Reale con il successivo
allestimento della Galleria Sabauda in TORINO; Committente: Soprintendenza
Piemonte.
Fra le principali pubblicazioni:
2006 ALBINI - “ZERO GRAVITY - FRANCO ALBINI - COSTRUIRE LE MODERNITA'” a
cura di Federico Bucci e Fulvio Irace - Triennale-Electa - saggio
"Evoluzione di una poetica" - pag. 199/215 - (testimonianza sulla
continuità)
2006 Documenti di Architettura - I MUSEI E GLI ALLESTIMENTI DI FRANCO ALBINI- a
cura di Federico Bucci e Augusto Rossari Ed. Electa - saggio "Il meno è il
più" In studio con mio padre - pag. 208/215
2005 Collana di Architettura - NUOVA ESTETICA DELLE SUPERFICI “NEW SURFACE
AESTHETICS” Campo Baeza - Garcia Abril - Machado and Silvetti - Pacheco+Clément
Silvestrin - Albini a cura di Vincenzo Pavan - gruppo editoriale faenza
editrice s.p.a. - VERONAFIERE
"Tradizione e Memoria: il Museo del Tesoro di San Lorenzo" -
"Tradition and Memory: the San Lorenzo Treasury Museum"
2005 el Famedio del Monumentale “Il Pantheon di Milano” a cura di Giorgio
Taborelli e Raimomdo Cantucci - Profilo di “Piero Portaluppi” - Presidenza del
Consiglio Comunale di Milano - Chimera Editore
2004 Urbanistica - 125 Serie Storica - Settembre-Dicembre 2004 - “I luoghi
della mobilità, ovvero il progetto degli spazi pubblici abitati
temporaneamente”
2004 “DO.CO.MO.MO Italia” - giornale - Nr. 15 luglio 2004 - Collaborazione alla
stesura del numero con arch. Kea Bea Jones :- “Moderno e memoria Albini a
Genova - Museo del tesoro di San Lorenzo”
2004 “Genova - Guida Di Architettura Moderna” - Volume realizzato per “Genova
2004, Capitale Europea della Cultura” - Introduzione “Franco Albini a Genova,
30 anni di sperimentazioni”
2003, Architettura moderna alpina, regesto cronologico delle opere Franco
Albini, musumeci editore, Pagg. 237-249
2003, “Concorso della Nuova Stazione di Torino Porta Susa”, Progetto pubblicato
su l'ARCA - n° 187 dicembre 2003 - Supplemento IL NODO URBANO, pag. 119
2000, M. Albini, (a cura di), Musei lombardi: prospettive - Progetti, Lybra
Immagine, Milano, pp.143
2001, M. Albini, con Silvio D'Ascia, « La nuova dimensione temporale e la
costruzione della città contemporanea », Territorio, n. 18, pp.38-39.
1999/2000, M. Albini, (a cura di), La sicurezza nei musei lombardi, Regione
Lombardia, Milano, pp. 470
1999/2000, M. Albini, « Progetti diversi relativi al Castello nel XIX secolo», in
Luca Beltrami e il Castello Sforzesco, Edizioni Comune di Milano, Regione
Lombardia, Milano, pp. 13-16