Le idee sono nelle cose
di Antonietta Iolanda Lima
C’è una grande forza poetica in queste pagine. Come in una nuova e libera situazione, dà gioia e simultaneamente inquietudine, per questa improvvisa soglia aperta su residui. Frammenti che paiono intenzioni lasciate come tali, ti rubano certezze. Ma ho impiegato del tempo per arrivare a sentire questo e certamente non sapevo che sarebbe accaduto. In momenti diversi le ho sfogliate e nei modi più disparati; dalla fine, dall’inizio e di seguito e quindi una dopo l’altra, qua e là e risfogliate, e a lungo alla ricerca di un vedere. All’inizio non percepivo nulla; forse un disorientamento appena. Eppure, sentivo che capendole queste pagine così intrise di una naturale anticonvenzionalità, meglio sarei entrata nel fare di Miralles di cui inizio a ricordare lo splendido cimitero di Igualada fatto con Carme Pinos, una sorta di non finito per contingenza e forse anche vocazione con palesi riferimenti corbusiani (Firminy e palazzo di giustizia di Chandigarh), e però così magistralmente reinterpretati e fusi con la specificità del tema, della configurazione geografica e culturale del luogo, della vocazione linguistica dei progettisti, da creare il nuovo.
Scorro il curriculum. Vi leggo dal ’92, l’incontro e il sodalizio con Benedetta Tagliabue (laurea all’IUAV di Venezia con una tesi sul Central Park preceduta da un biennio di studio a New York) e riconoscimenti, premi, incarichi di grande respiro in un crescendo incalzante. Con appena un ventennio di attività, un’avventura culturale ed umana che palesemente si vertebra sulla volontà di essere costantemente presente nell’universo del fare e del farsi dell’architettura attraverso una transumanza che ancora prima è mentale: viaggi di studio, conferenze, convegni, mostre, partecipazione a prestigiosi concorsi di architettura vinti ripetutamente. In breve questo giovane barcellonese per nascita (1955) e in parte anche per radici, ha ormai raggiunto internazionale risonanza. Con temi tra i più disparati, progetti ed edifici in corso di realizzazione in più parti d’Europa (Grecia, Danimarca, Germania, Olanda, Spagna, Italia). A ultimazione avvenuta nella loro indiscutibile fisicità e concretezza offriranno su Miralles e su questo suo modo pressoché‚ unico di perseguire la disintegrazione delle forme facendo piazza pulita di qualsiasi consolidato referente spaziale, altre e necessarie possibilità di interpretazione; molte più di quante oggi se ne possiedano sugli spazi interiori del suo creare, su quel suo dar l’impressione di voler bloccare i singoli istanti, silenziosamente fissarli, per poi poterli così, nella loro candida e inquietante nudità quasi cristallizzata, porli in successione a ricreare un continuum disturbato e vedere che succede, e ancor più la verifica di quale possa essere lo scarto con i disegni che li sottendono, quelli da cui traggono origine, che solitamente sembrano voler sperimentare ad una scala inedita la ricerca per giungere ad esprimere le più sottili essenze di questa nostra epoca così prepotentemente non ordinaria (cfr.: "Sensori del futuro. L’architetto come sismografo" alla biennale di Venezia del ‘96 o l’idea dell’abitabilità - trasferimento in "Abitare la Masieri").
Frammento di città che si muove perché‚ vive, l’idea dei nuovi uffici giudiziari a Salerno (concorso ’99). Un non finito spaziale ‘Abitare la Masieri’, Venezia ‘97. Torna, ma in altro modo interpretata, la dolorosa poetica di Igualada nell’ampliamento del cimitero di San Michele in Isola, Venezia (concorso ‘98). Di una diversa complessità, una frammentazione assorbita dal bisogno di esplicitare più chiaramente le forme, la nuova sede IUAV sempre a Venezia, in fase di esecuzione. Chiesa e centro ecclesiastico a Roma (concorso ’94), generati da un gesto che in circolo li strutturano. Ancora echi corbusierani nelle morbide stratificazioni del centro turistico di Buggerru in Sardegna (concorso ’94), distese nella topografia come una rosa che si spampina colpita dal vento.
Installazione pensata per piazza Stazione, il Totem 2 Domus (Milano 1998) che nel decostruire l’orologio dissacra la certezza di poter leggere il tempo. Ri-creare il luogo modificando e confondendo, la sfida per il palazzetto dello sport a Salerno (concorso ‘99). Possibile una sintesi interpretativa a livello linguistico? Nel confermare un’inafferrabilità che sento come intrinseca, questo in aggiunta avverto: l’adozione di un elemento base di cui esplicita spesso chiaramente la linea come genesi; una specie di matrice di cui accanto si dà lo spezzettamento, la contorsione, la frammentazione, ma anche accostamenti e sovrapposizioni di linee che però rimangono continue, rese uniche come da una dinamica del gesto che le crea, dove il movimento fluido dà la configurazione, la riconoscibilità dell’insieme. E poi non c’è terra, piano, topografia insomma che in mano a Miralles non diventi pretesto per sperimentare un’ansia di riuscire a dar corpo di volta in volta a un programma, a richieste specifiche, senza nulla gerarchizzare, dando valore a tutto, considerando – come lui stesso afferma - tutto allo stesso modo nella collocazione.
Guardo il "Croquis" del ‘95. Colore e bianco/nero mescolati con il giallo-beige della balsa che ha dato forma e corpo a idee e progetti. La sua è una complessità spaziale che sembra negarsi a matericità facilmente riconoscibili. Da più parti, specie in Spagna, dicono che chi li ha concepite, fatte queste cose, è come un altro Gaudì. Non appartiene però a Miralles la virulenza, sempre più espressionista, nell’arco di un breve tempo, del grande architetto catalano. Più morbide a prima vista, meno turbate, le sue serpentine; più riconciliate con gli uomini, le cose, il paesaggio, il pensiero ambientale, per così dire, di cui palesemente coglie la forza delle diversità. Ma ancora scandaglio ed ecco che viene fuori l’enorme potenziale di ciò che ancor più dentro, ad un livello direi profetico, racchiude Casa Milà e quanto di esso ha preso, penetrato, esplicitato, continuato, trasformato Miralles lavorando dentro l’incalzante frammentazione di Gaudì sino a giungere a qualcosa simile alla dematerializzazione nonostante ugualmente si senta la materia... e poi è come se per lui l’architettura sia una specie di sforzo teso sempre più a corrodere l’idea che essa in qualche modo, per necessità, debba anche chiudere: più cavità racchiuse le sue, che spazi chiusi, in un libero fluire, sicché il dentro e il fuori sempre più tendono a non potersi riconoscere. Ecco, forse, il senso di quel suo fare segni che spesso come fasci contorti o insieme sghembi, ma leggibili uno per uno nel loro singolo costituirsi, sovrapporsi, stratificarsi, sembrano lasciare appena sbozzati possibili ripari. E però, al pari di Gaudì, avverto in lui il raro dominio della dimensione paesaggistica, la magistrale capacità di estrarre i potenziali dai luoghi, la coscienza di riconoscere l’intensità della storia e l’ineluttabile necessità che di essa ha l’uomo, l’atemporalità di cui sempre sono pregne le grandi opere a qualsiasi passato appartengano e la cui comprensione, dice Miralles, aiuta a rinnovare le interpretazioni della nostra attualità. Attualità che in quanto momentanea nei suoi aspetti perennemente cangianti direttamente conduce al non finito. Mirales & Tagliabue ritengono l’intervento di BBPR nel Castello Sforzesco a proposito della Pietà di Michelangelo magnifico in quanto attuale, poiché nella sua forza detonante si offre lasciando nodi aperti. Per una nuova avventura creativa, questi architetti dell’immediato secondo dopoguerra consentono di cominciare da li, e questo assicura nuova linfa al loro intervento, spiegandone al pari il timbro genetico, la loro feconda atemporalità così avvertita da Miralles. Non è la prima volta che osservo le sue opere. Spesso ho sostato tanto su una pagina che lo riguardava. Con pazienza, curiosità; e ciò che mi colpiva era nel movimento e nella stratificazione l’inafferrabilità, e però, al pari, la sentivo come impregnata di cose anche già note anche già note. Orme dei luoghi? che come un fiume si intrecciano alle nuove del progetto? Ma anche tracce, schegge di cose, io odo per un attimo perché‚ subito fuggono. Guarda, mi dicevo, lo scorcio del palazzo dello sport a Vuesca (1993), mi fa pensare a Zaha Hadid, a quella sua stazione dei pompieri (1990) che in certi punti sembra lì pronta per staccarsi e volare via. Ma è un attimo e subito questa scintilla se ne va scacciata dai muri serpentinati e avvolgenti del cimitero di San Michele in Isola a Venezia (1998) che invade la laguna. Muri che sembrano lì lì per rinchiudersi, a nascondere cose che vanno scoperte solo entrandoci dentro..., come il dolore per esempio o ancora più il senso che può assumere un piano che calpesti quando con trame e segni, quelli e non altri, è capace di raccontarti le cose per cui è lì e in quel certo modo; e diventa spazio dell’architettura questo pentagono deformato. La impregna, mi dico; la forma quest’architettura, al pari dello sghembo manto piegato che la copre e sembra esser planato lì spinto da una necessità improvvisa, mettendosi di sbieco ad interrompere la fitta tessitura di setti e tombe dove deve proteggere o nascondere ancora, in un profondo solco d’ombra. E poi mi sembra proprio di vederla la laguna con i suoi campanili e cupole mentre percorro il ponte che al di sopra delle tombe mi conduce in una nuova isola-terra; e in tutto questo so anche che c’è più di un rischio o forse una scommessa perché‚ cammino dentro un’idea (il progetto) e chi fa e conosce l’architettura sa bene quale differenza può aversi tra essa e la sua realizzazione. Ma continuo questi attimi irripetibili di avvicinamento alla comprensione; dentro queste pagine, che sento anch’esse architettura. E non parlo solo dei progetti rappresentati; parlo di tutto all’interno di un foglio che all’apparire è stato vuoto. Delle parole, ciascuna da sola con se stessa e con le altre. Del modo come le parole si mettono insieme a combinare i righi in molteplici polidirezionate ramificazioni; dei punti che chiudono e definiscono e di quelli che aprono; dei vuoti tra rigo e rigo; degli slittamenti, e di ciò che essi generano e ancora dei diversi pieni definiti o frammentati delle immagini e dei disegni che a volte sembrano caduti lì per caso tanto sono rapidi, leggeri, veloci e ancora delle relazioni tra tutte le cose: parole, righi che diventano linee (rette, semirette, segmenti); disperse nel vuoto della pagina di volta in volta costruiscono uno spazio, senza però mai significare una riconoscibile significanza, e poi, nel passaggio da questo al successivo territorio di un’altra pagina ancora confondono, traslano le informazioni, in una nuova, diversa simultaneità, acquistando, nella loro decontestualizzata reiterazione, altri e sorprendenti significati spaziali. Lavorando con criteri costruttivi non visuali il lavoro della ripetizione, dice Miralles, è molto importante per produrre "l’embodiment" di un’idea. Ciascun nuovo disegno è un’operazione di dimenticanza e le linee che si generano hanno un’intima coerenza. Sono testi così spiazzanti i suoi; così liberi, fluenti, generosi nell’offrirsi in tutta la loro apparente nudità e al pari misteriosi nel darti la certezza di cose che non dicono; che non diranno forse mai o perché non sanno o perché vogliono che sia tu a dirle. Come un’opera che inizia a disvelarsi e va avanti e poi... resta così... in attesa che siano altri, altri che sappiano vedere a continuare. Ed ora sento la logica del fatto che aprendo con il progetto per il nuovo palazzo di giustizia di Salerno, sembra quasi di essere trascinati in un diverso sentiero dove credi che di lui, del palazzo, più non si parli. E invece è l’avvio di un processo: alla ricerca di luoghi, momenti atemporali, ricordi di spazi tutti incentrati sulla luce: da quella indefinita dei borghi sul Po in unicum con l’acqua del fiume, al ritaglio geometrico e concluso del Sant’Andrea di Alberti, ai flussi intrecciati e materici guariniani. …Si comincia da quest’ultima luce? Ma dove collocare la Pietà? Oggi come ieri, ancora questo mirabile sospeso...
Tratto da Embt
Enric Miralles e Benedetta Tagliabue ARQ. ASS.
Ordine Provinciale degli Architetti di Palermo
Palermo 12-19 maggio 2000