Dieci domande a Enrico Morteo
di Ivana Riggi
Oggi ho il piacere di intervistare Enrico Morteo, architetto noto per i suoi interventi storico-critici sul design, ex direttore editoriale di Abitare, collaboratore di numerosi periodici, autore e conduttore di programmi televisivi, scrittore. Cercherò di discutere con lui per conoscerlo meglio e riflettere insieme.
Enrico Morteo, chi era e cos'è diventato? Mi racconterebbe, in breve, il suo
vissuto: studi, incontri, un fatto che l'abbia particolarmente segnata nelle
scelte professionali?
Posta così la domanda mi sembra un poco drastica. Spero di essere me
stesso, certo oggi un poco più maturo (eufemismo dietro cui si nasconde l'idea
della vecchiaia), ma ancora quello di una volta. Cioè, un architetto che ha
sempre coltivato il sogno di continuare a studiare, leggere libri, guardarsi
intorno e cercare di capire il perché delle cose.
Sinceramente non amo parlare tanto di me, non credo che le mie avventure siano
particolarmente interessanti e non credo di avere un curriculum così anomalo.
Cercherò quindi di riassumere i passaggi in breve. Mi laureo in Composizione
Architettonica al Politecnico di Torino nel 1984, abbondantemente fuori corso,
con una tesi critica sul trapasso da moderno a post-moderno. Nel frattempo ho
frequentato alcuni corsi della Washington Univerisity con Astra Zarina e Steven
Holl e sono stato assistente alla regia in occasione della messa in scena di
uno spettacolo di Jean Dubuffet: per un pelo non abbandonai l'università per
trasferirmi a Roma e fare l'aiuto regista di Giorgio Treves che curò le riprese
di quello spettacolo.
Inizio la professione come molti, curando ristrutturazioni di appartamenti
ville e negozi, senza però abbandonare l'università, dove collaboro al corso di
Piero Derossi.
La svolta, se così si può dire, avviene quando mi fu offerta l'opportunità di
entrare a far parte della redazione di Domus, allora diretta da Mario Bellini.
Ciò significa nel 1987 lasciare Torino e l'università. Nel giornale inizio
sistematicamente ad occuparmi di design, materia che non avevo mai approfondito
se non disegnando qualche arredo e, da studente, nel corso tenuto da Achille
Castiglioni. Questa mia ignoranza mi ha spinto a studiare molto, a farmi un
sacco di domande e ad avvicinare il tema ‘dal basso' evitando così la
supponenza di molti ‘specialisti'. Domus era (e forse è ancora) un posto
eccezionale. Da Mario Bellini ho ricevuto molti insegnamenti per capire gli
oggetti e imparare a valutarli. Un episodio rimane per me emblematico: di
fronte ad una sedia, a chi gli chiedeva come fosse possibile esprimere un
giudizio, lui disse candidamente :”sedendocisi sopra”. Come redattore viaggiai
molto e incontrai tantissime persone che altrimenti mi sarebbe stato difficile
avvicinare: Charlotte Perriand, Robert Venturi & Denise Scott Brown, Renzo
Piano, Frank Ghery, David Chipperfield, Ross Lovegrove, Rem Koolhas, Eduardo
Soto de Moura, Eric Miralles… un elenco lungo e noioso, anche perché non ho mai
cercato di approfittare di questi incontri per tessere strategiche amicizie.
Ricordo però con molto piacere due interviste con Alvaro Siza e Jeames Sterling
che credo abbiano mantenuto nel tempo una loro attualità.
L'esperienza con Domus cessa nel 1993. Continuo però a collaborare con altre
riviste, consolidando una mia professionalità da ‘pubblicista' del design sulle
pagine di Modo, Abitare, Interni, Rassegna. Non abbandono però l'architettura,
anche se solo scritta, perché Garzanti mi chiede di stendere per l'allora
imminente Garzantina di Architettura una specie di breve storia universale che
dovrà chiudere il volume. Incarico che svolgo, come in trance fra il maggio e
l'ottobre del 1995. Contemporaneamente inizio per caso a lavorare per la radio
e da quel momento, per ben 8 anni, ho passato sei mesi all'anno a Roma
collaborando a Radio3, come autore e conduttore di vari programmi. Credo, con
il senno di poi, che sia stato il più bel mestiere che mi sia capitato di fare.
Nel 1997 vengo incaricato del corso di Teoria e Storia del Design presso lo
IUAV di Venezia, incarico rinnovato sino al 2000. Deluso dalle vaghezze
accademiche, accetto di diventare direttore editoriale di Abitare Segesta,
piccolo editore milanese che pubblica Abitare, Costruire, Case da Abitare, che
aveva appena messo in piedi un progetto televisivo in società con RaiSat. Per
un anno sono stato direttore del quotidiano televisivo RaiSatArt-Abitare, che
in un anno ha prodotto più di 90 ore di programmi originali. Per Abitare ho
curato una piccola collana di volumi dedicati al design e all'architettura di
interni che si chiamava Prontuario. L'esperienza termina nel 2006, con
l'acquisizione di Abitare da parte di RCS.
Nel 2008 sono stato coinvolto nell'organizzazione di Torino 2008 World Design
Capital e ho curato una mostra dedicata alla Olivetti (Olivetti: una bella
società) e a Roberto Sambonet (Roberto Sambonet: design, grafico, artista).
Sempre nel 2008 ho pubblicato per i tipi della Electa il Grande Atlante del
Design.
Oggi collaboro con aziende private come consulente, curo progetti editoriali e
di comunicazione, e sono stato incaricato dalla Fondazione Adi di curare la
collezione storica del Compasso d'Oro.
Lei è stato direttore editoriale di Abitare in quel periodo, mi pare fosse
il 2001, RaisatArt, pacchetto dei canali satellitari della Rai, realizzò in
collaborazione con la rivista un programma dedicato all'architettura e al
design. Mi parlerebbe di quella esperienza, com'era articolata e come
raccontavate quei temi?
Non c'è dubbio che la prospettiva di potermi avvicinare al mezzo televisivo
fu la ragione che mi spinse ad assumere il ruolo di direttore editoriale di
Abitare Segesta. Mi sembrava che, dopo aver conosciuto i meccanismi della
comunicazione scritta e di quella radiofonica, fosse molto interessante
avvicinarmi ai linguaggi della comunicazione video. È stata senza dubbio
un'esperienza molto appassionante, ma anche molto difficile. Allora la
televisione era ancora un mezzo per molti aspetti ‘pesante', sia in termini
tecnici che economici. Lavorare in coproduzione con Rai Sat significava gestire
budget notevoli ma anche vincoli altrettanto importanti sia in termini
operativi che burocratici. La speranza era quella di riuscire ad interessare il
mondo dei produttori del design, ma forse ci muovemmo troppo in anticipo e quel
progetto non riuscì mai a raccogliere il sostegno pubblicitario di cui aveva
bisogno.
Nonostante questo, riuscimmo a produrre due o tre format che credo
interessanti, dedicati sia all'architettura che al design. Diciamo che la
chiave di volta del progetto era quella di evitare una televisione per
specialisti. Volevo sottrarmi al gergo degli architetti e dei designer
privilegiano piuttosto il ruolo divulgativo della televisione. Non volevo fare
concorrenza alle riviste di settore, quanto trovare un linguaggio che parlasse
a tutti, visto che tutti viviamo in luoghi urbanizzati, abitiamo case comunque
arredate, usiamo oggetti che qualcuno ha disegnato e prodotto.
Con il senno di poi non so se sia stata la scelta migliore. In ogni caso
l'esperienza durò solo una anno, poi ci furono divergenza fra Abitare e la Rai
e tutto finì. Mi rimangono alcune amicizie e la consapevolezza che il mezzo
televisivo rimane un arma a doppio taglio, dove la vanità è sin troppo
vezzeggiata dalla forza autonoma delle immagini.
Secondo lei che relazioni esistono oggi tra architettura, design e strumenti
mediatici? Le trova ben gestite?
Premesso che oggi i mezzi di comunicazione giocano apertamente un ruolo
strategicamente attivo e non si limitano a registrare le notizie, queste
considerazioni investono anche il mondo dell'architettura e del design. La
cultura degli eventi, che negli ultimi decenni si è sostituita alla cultura dei
fatti, è una delle ricadute più vistose della contemporanea società dello
spettacolo. Nel bene o nel male siano orami tutti degli spettatori: basta
vedere quanto spazio occupano sui giornali (o sul web) le cronache che
riguardano cinema, televisione e mostre, tutte cose da guardare e non toccare,
per le quali si paga un biglietto (o un abbonamento).
Anche architettura e design si sono adeguate, producendo i loro protagonisti planetari,
i loro linguaggi globali, i loro stili sempre più simili alla moda.
È la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente.
Una rivista di settore che trova interessante e perché.
Non c'è una rivista che ritengo migliore. Ne sfoglio diverse, anche abbastanza
distrattamente. Quello che mi interessa è l'impressione d'insieme che producono
in modo automatico e involontario. E poi ci sono i quotidiani, il web, le
televisioni. Design e architettura non sono più solo materia per pochi.
L'importante è guardare anche le riviste straniere. Illuderci di essere ancora
il centro del mondo è un errore imperdonabile.
Giro una domanda che lei fece in un'intervista a Philippe Starck:
“Dostojeski diceva che la bellezza può salvare il mondo. È d'accordo?”
Certo che fatta a me, che non disegno decine di presunti begli oggetti ogni
anno, la domanda ha un altro sapore. Comunque, proviamo a dire così. Credo
serva la tensione verso la bellezza. Come ci ricorda un recente volume di
Umberto Eco, il bello non è una categoria stabile e la bellezza è un ideale in
continua evoluzione. Soprattutto, sono convinto serva ricostruire una nozione
di brutto, rispetto alla quale impostare i parametri di una bellezza futura.
Oggi bellezza è quasi sinonimo di lusso e di eccesso. Non credo possa durare a
lungo. Se non recuperiamo un qualche limite alla volgarità, non troveremo mai
nuovi canoni di eleganza.
Un architetto del passato e uno di oggi che trova interessanti e perché.
Credo sinceramente che il mondo non si risolva con un'unica variabile di un
sistema binario.
Più che uno o due architetti, vorrei segnalare un'attitudine. Non mi piacciono
gli architetti formalisti, mi piacciono gli architetti che si fanno domande e
non danno risposte certe, mi piacciono i progettisti che sperimentano invece di
applicare formule collaudate.
E allora Guarino Guarini, Francesco Borromini, Buckminster-Fuller, Eladio
Dieste, Robert Venturi, James Stirling, Jan Duiker, Luis Barragan…
Oggi mi interessano le sperimentazioni latinoamericane. Dalle raffinate architetture
di Paulo Mendes da Rocha alle esperienze comunitarie realizzate in Brasile,
Venezuela, Cile, Colombia. Il libro più interessante che ho letto di recente si
intitola Manual do arquiteto descalço (Manuale dell'architetto scalzo). L'ha
scritto Johan Van Lengen, un architetto olandese che da decenni vive in
latinoamerica ed è esperto di architettura spontanea e bioclimatica.
Nel 2008 Torino ha accettato il titolo di capitale mondiale del design. A
guidare questa importante macchina organizzativa siete stati lei, Guta Moura
Guedes, Michael Thomson, Gillo Dorfles. Si è potuta ritenere una sfida? Se sì,
perché?
Piano: noi quattro eravamo solo il comitato scientifico. C'erano poi un
consiglio di amministrazione e una efficientissima macchina organizzativa ben
radicati nella società e nel territorio.
Però sì, credo che per Torino sia stata una sfida, vinta anche abbastanza bene.
Torino non è conosciuta come città del design, soprattutto la città non si è
mai sentita un centro del design. Questo anno è servito prima di tutto a Torino
per prendere miglior coscienza di sé e del proprio potenziale. Ricordare
quanto design ci sia in un'automobile è, credo, superfluo. Ma Torino è stata
anche la città della poltrona Sacco e di molto design radicale; è la città di
Armando Testa e dello Slow Food. E poi, a 40 chilometri da Torino c'era la
Olivetti. Bisognava riallacciare dei fili, rimettere in relazione memoria e
futuro. Qualche cosa è stato fatto.
Restando nell'ambito di Torino World Design Capital ci furono oltre 200
manifestazioni fra eventi, rassegne, convegni, concorsi, mostre e workshop. Tra
queste ve ne fu qualcuna, in particolare, di cui restò molto soddisfatto e,
contrariamente, qualche altra che la deluse?
Le delusioni, quando ve ne fossero, vanno dimenticate in fretta. A
prescindere da quanto fatto da me o dai miei colleghi del comitato scientifico,
credo che valga la pena ricordare tutte le iniziative che hanno coinvolto i più
giovani: le comunità cittadine dei giovani progettisti così come i corsi estivi
per studenti di tutto il mondo. Investire nel futuro non delude mai.
Lo scorso 29 aprile, alla DesignLibrary di Milano è stato protagonista,
insieme a Mario Bellini, Luisa Bocchietto, Giovanni Cutolo di uno del ciclo di
incontri “I Giovedì ADI”: “Una storia dell'ADI”. Si tratta della maggiore
istituzione del design nazionale. Cosa pensa della storia progettuale italiana:
che tipo di evoluzione ha avuto il design?
Questo, accidenti, sarebbe il tema di un corso universitario! Diciamo
tardivo, travolgente, innovativo, domestico, ludico, colorato, radicale e oggi
globale, patinato, forse un po' troppo lussuoso e modaiolo.
Nel salutarla, ringraziandola, le chiedo: nuovi propositi?
Continuare a divertirmi.
Note biografiche
Enrico Morteo, architetto, scrive e talvolta insegna storia del design.
Ha collaborato con numerose riviste e case editrici, fra cui Domus, Abitare,
Modo, Interni, Utet, Garzanti, Electa.
È autore di programmi radiofonici per Rai Radio3 ed ha curato trasmissioni
televisive per RaiSatArt.
Ha fatto parte del comitato scientifico di Torino 2008 World Design Capital.
Ha curato recentemente alcune mostre fra cui ‘Olivetti: una bella società' e
‘Roberto Sambonet - designer, grafico, artista'.
È autore del volume Grande Atlante del Design, uscito nel 2008 per i titoli
Electa.
È curatore della collezione storica del Compasso d'Oro.