Il Solomon R. Guggenheim Museum compie 50 anni
Perla nel cuore di Manhattan, il Solomon R. Guggenheim Museum sorge di
fronte a Central Park ed è tra i protagonisti della scena architettonica di
New York. L'espressiva forma a spirale rovesciata lo rende un edificio
magico, la cui singolarità plastica stimola la curiosità del visitatore, attratta
dall'affascinante successione di piani e vuoti con cui il suo creatore,
l'architetto Frank Lloyd Wright, ne plasmò la veste esterna.
In occasione dei primi cinquant'anni del museo, aperto al pubblico il 21
ottobre 1959, Francesco Dal Co, in contemporanea con la mostra dedicata
a Wright inaugurata nella Grande Mela il 15 maggio, ha omaggiato l'architetto
americano tenendo, presso il Salone d'Onore della Triennale di Milano,
un'esposizione la cui intensità ha entusiasmato i presenti, che hanno vissuto
un'esperienza formativa proposta con lo scopo di perseguire l'interiorizzazione
dell'apprendimento.
Le parole di Dal Co, unite alla proiezione di immagini tratte dal suo libro Il tempo e l'architetto / Frank Lloyd Wright e il Guggenheim Museum, edito nel 2004, hanno rivelato l'identità culturale del museo, una delle più grandi risorse del patrimonio culturale americano.
La genesi del progetto, avviato nel lontano 1943, ebbe origine dall'incontro
tra l'estro creativo di Wright, allora considerato il più innovativo architetto
d'America, e Solomon Robert Guggenheim, ricco filantropo ed entusiasta
sostenitore dell'arte moderna. Con un fine lavoro di ricerca e interpretazione,
Dal Co ha messo a nudo la vitalità delle loro idee, riflesse nei caratteri e
nella maestosità del museo.
All'intervento è quindi seguita la proiezione di due documentari dedicati alle
ispirate costruzioni di Wright: “The Guggenheim and the Baroness” di Sigfrid
Faltin e “Saving Fallingwater” di Kenneth Love. Con i due film ha avuto inizio
la Rassegna di Documentari sull'Architettura del Milano Doc Festival (26-30
maggio 2009), evento curato da Rubino Rubini.
Cinquanta anni fa: Frank Lloyd Wright, 1867-1959; Solomon R. Guggenheim Museum,
1943-1959
«Anything more modern, less stuffy and conventional»: come Wright spiegò
alla sua committente il progetto del Guggenheim Museum
«Cara Hilla,
sono rimasto al tavolo da lavoro mettendo giù alcune idee che avevo in testa a
proposito di un museo mentre cercavo un terreno dove costruirlo. Ritengo che abbiamo
parlato troppo poco dell'edificio e troppo del sito. Come possiamo sapere quale
è il sito più adatto prima di sapere quello che vogliamo costruire?
Quando lo vedrai sulla carta, ciò che ho in mente forse ti stupirà e per questo
ho pensato che dovrei registrarlo per potertene parlare senza astio e con la
dolce ragionevolezza che ritengo ci caratterizzi nei nostri momenti migliori.
Non ti ho mai detto francamente che cosa penso del tuo attuale allestimento
nella galleria temporanea. Non pensavo fosse necessario. Per esempio non ho mai
sottolineato come i soffitti alti tendano ad annullare la complementarietà tra
i piani e i dipinti, immiserendone il significato e le dimensioni. Così come è
ora, la pittura non-oggettiva può avere un grande futuro soltanto se è
proporzionatamente in relazione con l'ambiente e non con soffitti alti. E con
sfondi piani di diverse tonalità adatti ai quadri. Meno evidente è la grana
dello sfondo meglio è. Un museo dovrebbe offrire una atmosfera limpida prodotta
dalla luce e da superfici cordiali. Telai e pannelli sono sempre stati mezzi
per mascherare i quadri e segregarli dall'ambiente annullando relazioni e
proporzioni, ecc. ecc. Un museo dovrebbe essere un piano unico in espansione e
ben proporzionato, ovvero uno spazio continuo da terra sino alla sommità -una
sedia a rotelle che si muove all'intorno, sopra e sotto, per tutto. Nessun
ostacolo. L'atmosfera del tutto dovrebbe possedere una luminosità variata, dal
chiarore all'oscurità - ovunque perseguite: una calma profonda e una ampiezza
pervasiva, ecc. ecc. Nessuna aggiunta - neppure tende o tappeti. Per i
pavimenti sughero o mattonelle di gomma, ecc. ecc. Molto vetro - molto verde in
giro. Ovunque nessun dettaglio che distragga. In breve una creazione che non
esiste ancora. Bene, ho dovuto trarla dal mio sistema e sta assumendo forma
definitiva non come un insieme di parole ma come una costruzione adattabile
alle dimensioni dei lotti di New York, profondi e larghi più o meno cento piedi
-o quanto ci possiamo permettere, anche se più è meglio di meno. Ma potremmo
farlo con 125 per 90 piedi. Un angolo, tuttavia, è necessario […]. Il tutto ti
lascerà completamente disarmata oppure sarà esattamente ciò che andavi
sognando. La cosa più moderna, meno banale e convenzionale che tu abbia mai
visto. Nulla di più appropriato per i tuoi scopi. Tutte queste cose a tal punto
insieme che a prima vista potrai rimanerne sconcertata o offesa.»
Questo brano è tratto dalla lettera che F. Ll. Wright scrisse a Hilla Rebay il 20 gennaio 1944 e che si può leggere in F. Ll. Wright, The Guggenheim Correspondence. In questo libro B. Brooks Pfeifer ha ordinato le lettere che l'architetto inviò ai suoi committenti tra il 1943 e il 1959, durante i diciassette anni che l'elaborazione del progetto e la costruzione del Guggenheim Museum hanno richiesto. La baronessa Hilldegard (Hilla) Rebay von Ehrenwiesen (1890-1967) era un'artista tedesca che riteneva Kandinsky “il profeta di una nuova vita spirituale” e la sua “arte non-oggettiva” (Gegenstandlos alla quale Wright fa riferimento anche nella lettera qui tradotta) espressione di quella che pensava avrebbe dovuto diffondersi come una nuova religione della modernità. Per dieci anni, dal 1943 al 1953, Hilla Rebay, per incarico di Solomon R. Guggenheim (1861-1949), agì come committente di Wright. Il loro epistolario è la fonte più importante per comprendere quali furono la genesi e le vicende che portarono alla definizione del progetto del Museo, la cui costruzione iniziò nel 1956. Per le ragioni di cui ora diremo, tra le lettere pubblicate da Brooks Pfeifer che offrono innumerevoli informazioni preziose, abbiamo scelto di pubblicare e tradurre, per ricordare che il 2009 è il cinquantesimo anniversario della morte di Wright e dell'inaugurazione del Museo, quella scritta nel gennaio 1944 (affrontando così le non poche insidie che il linguaggio utilizzato da Wright, in particolare nella sua corrispondenza privata, riserva). Con questa lettera Wright annunciò, dopo che i primi contatti avuti con Hilla Rebay e Solomon Guggenheim nell'estate del 1943 lo avevano indotto a ipotizzare la possibilità di costruire il Museo lontano da Manhattan, di avere definito la concezione spaziale di cui il Guggenheim è espressione, essendosi nella sostanza mantenuta inalterata nel corso dei successivi sedici anni. Abbandonata l'ipotesi di progettare un edificio (o un complesso di padiglioni) costituito da corpi di fabbrica bassi, immerso nella natura e avendo compreso come i suoi committenti desiderassero edificare il Museo a Manhattan, Wright mise a punto la concezione del progetto poi realizzato. In questa occasione per spiegare a Hilla Rebay quale immaginava dovesse essere il tratto costitutivo del nuovo Museo coniò la celebre espressione, tanto suggestiva quanto difficile da tradurre: «a wheel chair going around and up and down, troughout».
La lettera è anche una chiara dimostrazione di come Wright fosse consapevole di
quali perplessità e sconcerto il suo progetto avrebbe potuto suscitare e come
le une e l'altro fossero destinati a tramutarsi, come poi avvenne, in
opposizioni e ostacoli ai quali egli seppe però opporsi con successo. Nel
perseguire i propri obiettivi e contrastare i suoi avversari, nel corso degli
anni egli mise in campo una strenua determinazione come dimostrano anche le
ultime e toccanti lettere che indirizzò, ormai novantaduenne, meno di una
settimana prima del 9 aprile 1959 giorno dalla sua morte, a coloro che
all'epoca erano impegnati ad allestire il Museo. Inoltre il tono usato da
Wright nel rivolgersi a Hilla Rebay consente di capire quanto tormentati furono
i loro rapporti e come questi contribuirono a condizionare il progetto per il
Museo senza però mutarne la concezione di fondo. Questa lettera, poi, offre un
buon esempio dei modi in cui Wright era solito rapportarsi con i suoi
committenti, presentando senza alcuna modestia le qualità del suo lavoro e
sostenendo di essere in grado, come scrisse a Hilla Rebay, di offrire loro
«anything more modern, less stuffy and conventional, you have never seen. Nor anything
so ideal for your purpose». Infine nelle parole che Wright utilizzò per
spiegare a Hilla Rebay che nel nuovo Museo «anywhere desired: a great calm and
breadth pervading the whole place. There should be no “stuffs”» e che ciò che aveva
progettato lo aveva tratto «out of my system», non è forse azzardato avvertire,
come spesso accade esaminando la sua opera, l'eco di altre parole da lui
scritte trentadue anni prima per spiegare come dall'architettura giapponese e
dall'arte di Hokusai e Hiroshige avesse appreso la lezione, da cui anche il
Guggenheim venne modellato, più importante della sua vita: «la grande dottrina
della semplificazione, dell'eliminazione di ciò che è insignificante».
«Potrebbe venire a New York per discutere con me di un edificio per la nostra
collezione di quadri non-oggettivi?». Con queste parole inizia la lettera che
Hilla Rebay inviò a Frank Lloyd Wright il 1 giugno 1943, la prima di una serie
destinata ad allungarsi col passare degli anni. Queste semplici parole
rappresentano l'atto di nascita di uno dei capolavori dell'architettura
occidentale e segnano l'inizio della storia del Guggenheim Museum. Il plastico
del Museo venne approntato nel 1945 e undici anni dopo, il 16 agosto 1956, fu
posata la prima pietra. Il Solomon R. Guggenheim Museum venne inaugurato il 21
ottobre 1959.