Ricordando Daniele Calabi. Conversazione con Donatella Calabi
di Ivana Riggi
È sempre difficile tracciare la storia di un grande architetto del passato.
Rivedendo le opere di Daniele Calabi ritorna viva, oggi più che mai, la figura di un professionista che si adoperò per tutta la vita, nonostante le difficoltà dovute al periodo storico in cui visse, ad una sola cosa: fare bene il proprio mestiere, progettando al di fuori delle "luci della ribalta".
Classe 1906, Daniele Calabi si laureò in ingegneria a Padova nel 1929 per poi sostenere gli esami integrativi di Architettura a Milano nel 1933.
Dal 1932 al 1938 lavorò a Parigi, Venezia, Padova; poi le persecuzioni razziali, dovute al fatto che apparteneva a famiglia ebrea, lo costrinsero ad emigrare a San Paolo del Brasile dove svolse l'attività prima con un'impresa di costruzioni e poi come libero professionista. Rientrato in Italia stabilì il proprio studio professionale a Milano, Padova e al Lido di Venezia. Insegnò alla Facoltà di Ingegneria di Padova come assistente volontario di Architettura tecnica, alla Facoltà di Architettura di Venezia in qualità di libero docente di Igiene edilizia (1957), incaricato di Estimo (biennio 1958-1959) e poi di Elementi costruttivi (1960). Fu docente di Igiene edilizia alla Scuola di specializzazione di Igiene dell'Università di Perugia ( 1958-1959).
Morì nel 1964.
Le opere e gli interventi di Daniele Calabi hanno lasciato un segno indelebile nella storia dell'Architettura, ricordiamo: la "Casa di riposo di Gorizia" che gli valse il Premio internazionale di Architettura "Andrea Palladio" nel 1960; la "Clinica pediatrica di Padova", Premio regionale IN/ARCH per il Veneto –Friuli nel 1961; il "Reparto pediatrico ed i servizi generali dell'ospedale clinicizzato di Catania", Premio regionale IN/ARCH per la Sicilia nel 1969.
Contribuì alla valorizzazione e conservazione del patrimonio architettonico: la "Biblioteca di Agusta in Palazzo Connestabile a Perugia" e il restauro del "Convento dei Tolentini a Venezia" sono stati riconosciuti con numerosi premi nazionali.
Converseremo con la figlia Donatella, Professore ordinario di Storia della Città e del Territorio all'Università IUAV di Venezia, cercando di restituire al lettore l'immagine di questo Architetto definito da Bruno Zevi "uomo brillante e coltissimo, viaggiatore instancabile, d'intelligenza elegante, immerso nel mondo del teatro e della musica, socialista per tradizione familiare, protagonista nei conflitti sugli assetti familiari ed urbani dell'intero paese" ("Daniele Calabi architetture e progetti 1932-1964"-Marsilio Editore-1992)
Professoressa che ricordo ha di suo padre e cosa le ha trasmesso da un punto di vista umano e professionale?
Il mio ricordo è contemporaneamente quello di una figlia molto legata affettivamente a un padre severo e molto tenero e quello dell'allieva di un educatore per il quale era della massima importanza un esempio di moralità e di rigore nei comportamenti interpersonali e nella pratica del proprio mestiere. Come per tutti i giovani (mio padre è morto che io avevo solamente 20 anni) ho avuto con lui anche dei momenti di conflitto, nel momento in cui –ancora studentessa di architettura ai primi anni di università- volevo trovare un mio autonomo itinerario di studi. Il rispetto della mia libertà era per lui un fatto assoluto, ma il desiderio di fornirmi strumenti di lettura della realtà (e del panorama dell'architettura) era una sorta di dovere molto sentito. Questo è accaduto fin da quando, alla fine del liceo classico, ho espresso il desiderio di iscrivermi alla Facoltà di Architettura: mio padre mi rispose con il suggerimento di una bibliografia da leggere durante l'estate (tra gli altri, il libro di Bruno Zevi, Saper vedere l'architettura; oppure "L'architecture d'au jourd'ui" di Bloc del 1937 su Parigi): solo dopo avrei avuto l'autorizzazione a dar seguito alla mia opzione.
Negli anni Trenta il periodo trascorso a Parigi che importanza ebbe su Daniele Calabi come Architetto?
Credo che il periodo passato da Daniele Calabi a Parigi da giovane neo-laureato in ingegneria abbia avuto un'importanza enorme. La capitale francese era allora un polo di innovazione molto vivace e un centro di passaggio per architetti ed artisti singolarmente significativi per l'architettura moderna (da Le Corbusier a Gino Severini, da Marcel Lods a Georges Braque, da Auguste Perret a Jean Hans Arp, da André Lurçat a Mallet-Stevens). L'attività svolta come impiegato della Entreprise Générale des Grands Travaux e la lettura de "L'architecture d'au jourdhui dove'vano costituire una tappa d'obbligo per un giovane visitatore curioso d'architettura. Alcuni elementi costruttivi e di linguaggio, insieme con l'uso di alcuni materiali (il tetto piano, i pilotis, la tessitura delle superfici, l'alternanza di superfici chiuse e superfici vetrate, i mattoni di vetro) hanno certamente influenzato la sua decisione di sostenere gli esami integrativi come architetto e i suoi primi progetti. Ne sono segnate perfino le tecniche di rappresentazione (disegni prospettici, esecutivi).
In che modo visse l'esperienza in Brasile o, meglio, quali difficoltà vi incontrò? Ci citerebbe alcune opere a lui care di quel periodo?
Il primo periodo in Brasile fu certamente complicato per mio padre, visto che –come straniero- non poteva firmare i suoi progetti; fondamentale fu per lui in quel periodo, non solo il lavoro garantitogli dall'impresa edilizia (la Costrutora Moderna) di suo cugino, l'ingegnere Silvio Segre (che era emigrato prima), ma anche l'accoglienza offertagli da Rino Levi con il quale ebbe occasione di lavorare nei primi anni e di cui divenne amico. Solo qualche anno dopo il suo arrivo (giovani ricercatori di San Paolo stanno ora facendo ricerca negli archivi professionali per stabilire con precisione in che anno fu riconosciuto il suo titolo di architetto) ebbe la possibilità di firmare i suoi progetti in modo autonomo. Tra le opere principali di quel periodo, accanto a pochi edifici di uso collettivo (come la tipografia Scheliga, il Predio Autogeral, la fabbrica del Rayon Seda) restano tuttavia le ville del Pacaembù, realizzate per alcuni parenti (il fratello Fabio Calabi, il suocero Carlo Foà) ed amici (Medici, Ascarelli, Cremisini): insomma quella che allora in famiglia chiamavano la "comunità italiana", da intendere come il gruppo degli italiani emigrarti nel ‘38. In queste ultime, la divisione funzionale tra parte giorno, notte, servizi intorno ad una parte centrale (il patio interno) consentono la realizzazione di una continuità tra interno ed esterno che è poi uno dei temi prevalenti nella sua architettura.
Ci descriverebbe il rientro in Italia ed alcuni interventi significativi, o esperienze, che lo coinvolsero maggiormente?
Al rientro in Italia, l'esperienza più importante fu quella della Clinica pediatrica di Padova, non solo perché fu la prima –quella che gli aveva garantito il rientro, data la possibilità di reintegro per gli architetti ebrei vincitori di concorso, che avevano perso il loro incarico prima della guerra-, ma anche perché finì per determinarne una sorta di futura specializzazione nel campo dell'edilizia ospedaliera e universitaria. Fu anche un lavoro che gli consentì di "entrare" nel non facile ambiente padovano, in cui certamente lasciò una traccia negli anni Cinquanta (case di Via Vescovado, case di Via Alicorno, case di Via Ospedale).
Ci fu qualcuno che influenzò particolarmente la sua formazione?
Oltre all'ambiente parigino già menzionato, negli anni del ritorno in Italia, Daniele Calabi fu influenzato da un lato dagli architetti milanesi Ignazio Gardella, Franco Albini, i BBPR, dall'altro dall'urbanista Luigi Piccinato (che ebbe modo di conoscere bene all'epoca del Piano regolatore di Padova e di cui divenne amico): si trattava delle personalità che poco a poco gli permisero di fare riferimento all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia.
Altro riferimento culturale e politico importante fu per lui il Movimento di Comunità e Adriano Olivetti (per il quale progettò, fra il 1958 e il 1962 la casa per anziani e l'albergo Monte Ferrando ad Ivrea)
Che tipo di rapporto ebbe con il mondo accademico?
Daniele Calabi non fu mai un accademico in senso stretto: chiamato allo IUAV da Giuseppe Samonà (allora direttore della Scuola), su suggerimento di Luigi Piccinato, accolse l'incarico con entusiasmo e straordinario spirito "di corpo", identificandosi in quella che, pur nelle sue sfaccettature, riteneva "la" Scuola di Venezia: quasi un bisogno di appartenenza che, nelle peripezie di una vita a volte difficile, aveva a lungo sentito come problema di identità. Al suo interno, poi, i principali riferimenti erano Luigi Piccinato (che aveva conosciuto a Padova), Mario Coppa (collaboratore Olivettiano), la Trincanato (con la quale si era trovato a collaborare per il Villaggio San Marco a San Giuliano) e Bruno Zevi (al quale lo legavano anche ragioni di solidarietà etnica e di comune esperienza d'emigrazione, oltre che una grande ammirazione per gli scritti).
Se oggi fosse presente come crede che giudicherebbe la società di oggi ed il modo di progettare odierno?
La storia non si può fare con i "se" e certo anche Daniele Calabi, se avesse continuato a vivere, avrebbe inevitabilmente cambiato il suo modo di vedere le cose e di progettare. Credo tuttavia che avrebbe alcune serie difficoltà ad accettare il mondo dello "star-system" che contraddistingue l'odierno panorama dellarchitettura. Per' lui, poco interessato alla pubblicità della carta stampata, il suo era un mestiere terribilmente serio, con il quale costruire un'edilizia solida, duratura, fatta per il benessere degli utenti. Era anche un mestiere da bottega artigiana: l'organizzazione di grandi studi professionali fatti da centinaia di persone e da responsabilità molto frammentate, come è quello che caratterizza oggi il mondo degli architetti, forse lo metterebbe a disagio.
Donatella Calabi è Professore ordinario di Storia della Città e del Territorio all'Università IUAV di Venezia; dirige il dottorato in Teorie e Storia delle Arti della Scuola di studi avanzati di Venezia. È presidente dell'Associazione Italiana di Storia Urbana, lo è stata della European Association of Urban Historians. Ha occupato il ruolo di Visiting Professor a Parigi, Londra, Lovanio, Tokyo e a San Paolo del Brasile.
Molte delle sue pubblicazioni riguardano la storia della città in età moderna e contemporanea con particolare interesse agli spazi e agli edifici di mercato e alle aree riservate alle minoranze. Citiamo: La città degli ebrei (con Ennio Concina e Ugo Camerino, Marsilio, Venezia 1991, 1996); Parigi anni venti. Marcel Poëte e le origini della storia urbana (Marsilio, Venezia 1997; L'Harmattan, Paris 1998); Les étrangers dans la ville (con Jacques Bottin, Èditions de la Maison des sciences de l'homme, Paris 1999); La città del primo Rinascimento (Laterza, Roma-Bari 2001); Storia della città. Vol. I: Età moderna; vol. II: Eta contemporanea (rispettivamente Marsilio, Venezia 2001, 2005); The market and the city (Ashgate, London 2004); Cities and Cultural Exchange in Europe, 1400-1700 (a cura di, con Stephen Turk Christensen, Cambridge University Press, 2007); il volume monografico La città cosmopolita di "Città e storia" (Roma, 2007); Musei d'arte e di architettura (a cura di F. Varosio, 2004, Bruno Mondadori Edizioni); Storia dell'urbanistica europea (2004 e 2008, Bruno Mondadori Edizioni); Il mercante patrizio. Palazzi e botteghe nell'Europa del Rinascimento (con la collaborazione di S. Beltramo, 2008, Bruno Mondadori Edizioni).