Appello per Gaudì
archimagazine, su richiesta di "Casabella", pubblica la versione integrale, in italiano e spagnolo, dell'appello firmato da Francesco Dal Co e Juan José Lahuerta che si rivolge al Presidente della Generalitat de Catalunya affinché vengano sospesi i lavori di restauro-completamento in via di esecuzione in una delle opere di architettura più importanti del Novecento, la Cripta della Colonia Güell a Santa Coloma de Cervelló, presso Barcellona, che Antoni Gaudí lasciò incompleta nel 1914.
I lavori già realizzati e quelli in programma rischiano di stravolgere questo monumento.
Ciò che Juan José Lahuerta e Francesco Dal Co chiedono al Presidente Maragall
è di sospendere i lavori e di riportare l'opera al suo stato originario.
Cripta della chiesa della Colonia Güell,
Santa Coloma de Cervelló, Barcellona 1898–1914, prima dei restauri
Gentile Signor Pasqual Maragall, Presidente della Generalitat de Catalunya
per favore …
Signor Presidente,
nel 1906 suo nonno, il poeta Joan Maragall, riferendosi al Tempio della Sagrada Familia di Gaudí scrisse: "Mi incamminai, allora, come spinto da un dovere, non uno di quelli che assolviamo di nostra volontà, ma piuttosto uno di quegli obblighi che si compiono dentro di noi […]. Il Tempio mi apparve, come sempre, come a tanti, simile a una grande rovina; o a una grande colombaia, come ebbe a dire una bambina vedendolo per la prima volta. E le colombe volano davvero sulla sommità delle guglie e sopra i ponteggi dei campanili. Io però avverto più forte la sensazione della rovina e mi piace, perché, sapendo che quella rovina è una nascita, mi salva dalla tristezza di tutte le altre rovine; e da quando conosco questa costruzione, che sembra una distruzione, tutte le distruzioni possono sembrarmi costruzioni".
Cripta della chiesa della Colonia Güell,
Santa Coloma de Cervelló, Barcellona 1898–1914, prima dei restauri
Queste stesse emozionanti parole, questa appassionata descrizione, non potrebbero, signor Presidente, adattarsi alla Cripta della Colonia Güell?
Senza dubbio, e probabilmente con ancora maggiore intensità rispetto alla Sagrada Familia, l'opera che Gaudí lasciò incompleta nel 1914 a Santa Coloma de Cervelló presso Barcellona, dopo avervi lavorato con estrema lentezza e per molto tempo, ha l'aspetto di una rovina capace di redimerci dal dolore delle rovine, proprio perché, malgrado appaia come una rovina, un'opera incompleta, è una costruzione. È il luogo in cui, prima di tutto, è evidente lo sforzo dell'architetto artigiano che fu Gaudí, e qui si percepisce il suo amore per il lavoro, per i materiali e per la natura, la sua volontà di unire nei gesti, nelle impronte, persino nelle ferite del lavoro, gli utensili, la materia e la natura in un'opera dedicata a Dio e all'uomo, che alza verso di Lui le medesime mani che impugnano gli attrezzi e toccano, accarezzano, colpiscono, quando è necessario, i materiali.
Vedute della cripta dopo gli interventi di restauro |
La Cripta, signor Presidente, non sorge alla fine di strade polverose, ma su una bassa collina, in mezzo a un boschetto di pini, cui si accede da un piccolo sentiero e dove si giunge dopo aver attraversato un ponte, all'ingresso della Colonia, quasi che Gaudí avesse voluto indicarci, sin dall'inizio, che quel bosco era un luogo separato, sacro.
Quando si arrivava lì, come Lei ben sa, la prima cosa che si scopriva era il portico con le colonne inclinate, emergenti dal terreno in perfetta continuità con i tronchi dei pini, di cui ricordano le rugosità e i nodi. Subito dopo, si vedevano le volte, con le nervature protese come rami in tutte le direzioni, gonfie come chiome di alberi. Ma ciò che più colpiva, in quel primo momento, era rendersi conto che, per costruire quello che si poteva osservare, Gaudí aveva utilizzato materiali che sembravano di scarto, mattoni anneriti, pietre non levigate, frantumi di ceramica o aghi di vecchie macchine per tessere. Questi materiali erano stati disposti quasi senza ordine, con una brutalità e una goffaggine che raccontano l'atto del costruire come un fare duro e trascendente, sacro, certo, dal punto di vista dell'architetto che conosce il valore del dono di Dio che ha tra le mani, così come lo conosceva chi si preparava a offrirgli un sacrificio. Non vi è traccia qui, signor Presidente, dell'architettura banale, fatta per capriccio, alla quale ci hanno abituato tanti architetti, dimentichi del significato della parola Architettura. Si tratta, invece, di un'opera ricca di valori e virtù; è il manifestarsi della virtù e in quanto tale è piena di doveri e misteri, simili a quelli cui faceva riferimento Suo nonno parlando della forza che lo spingeva verso la Sagrada Familia.
Pilastri inclinati, volte bombate, nervature in tutte le direzioni, disposizioni labirintiche… Il modo di lavorare di Gaudí è manuale nel senso più profondo del termine, letteralmente fisico e per nulla metafisico. Per rendere percepibile questa manualità in tutta la sua energia, Gaudí lavorava concentrandosi, soprattutto, sull'inizio: l'istante decisivo e pericoloso, ma pervaso di forza, in cui l'utensile colpisce la materia. In tal modo, tutti i materiali, umili o impuri, qualunque sia la loro natura e la loro provenienza, subiscono una trasformazione, sono trasfigurati da questo gesto che inizia, vengono redenti dalla loro condizione originaria di residui o rifiuti: segnati, feriti dallo sforzo dell'uomo, marcati dall'impronta del lavoro, si trasformano quasi fossero pietre preziose.
Vedute di dettaglio della cripta dopo il restauro |
Tuttavia, se dopo aver attraversato il portico, signor Presidente, entriamo nella Cripta, osserviamo non solo i medesimi materiali poveri che abbiamo visto fuori e la stessa voluta goffaggine, la medesima brutalità (il mattone, la ceramica, il ferro, gli zoccoli sommariamente intonacati, la disposizione osteologica delle nervature delle volte) ma, soprattutto, a rappresentare tutti i significati possibili di un'architettura sacra, quattro grandi colonne monolitiche di basalto inclinate verso il centro dello spazio. Il primo colpo inferto al basalto nella cava è stato sufficiente per ottenere queste pietre enormi, con le quali Gaudí sembra aver voluto lanciare un monito agli architetti privi di memoria: qualsiasi gesto successivo a questo primo incontro con la mano, l'arnese e il materiale che riposava nella terra, è pleonastico o ridondante, prova di un vano orgoglio o, peggio ancora, di una banale presunzione.
Come Lei ben sa, signor Presidente, molti pensano - e noi così pensiamo - che questa costruzione meravigliosa, questa rovina che è una costruzione che redime, rappresenti l'apice dell'opera di Gaudí. In quale altra occasione Gaudí è stato più libero? O, per meglio dire, in quale altra opera si è sentito più libero, più vicino all'atto primordiale del Creatore, che modellò con le sue mani l'uomo dal fango ? È questo ciò che Gaudí qui ha fatto lentamente, con una lentezza che ha lasciato segni profondi nella costruzione, ferite: questo, segni e ferite di un tempo che non ha niente a che vedere con lo sfruttamento cui lo sottopone la modernità, è ciò che mostrano i materiali poveri, rotti, spezzati, i passaggi bruschi, brutali, maldestri…
La Cripta sorge dal terreno come il bosco che la circonda: e il suo cuore di pietra è, ciò malgrado, palpitante. La Cripta rimase incompiuta perché non poteva essere completata e questo ne costituiva il principio: come le massime creazioni, come le sculture di Michelangelo o il grande dipinto su lastra di vetro di Marcel Duchamp, la Cripta, in realtà, è l'opera "definitivamente incompleta" e per questo capace di spiegare la condizione del mondo moderno non come la vuota commedia dell'imitazione del nuovo, ma come la tragedia di chi resiste alla perdita del vero.
La Cripta della Colonia Güell rappresenta la "conclusione incompleta" di molte delle ricerche strutturali, formali e simboliche di Gaudí. I metodi di lavoro qui da lui seguiti lo collocano in una situazione di eccezionale originalità nel panorama europeo, e il suo uso di materiali di scarto, unito alle tecniche del collage o dell'assemblage, tecniche privilegiate dall'arte contemporanea, fanno sì che qui la sua opera si sovrapponga a molte delle ossessioni delle avanguardie, giungendo ad anticiparle.
Oggi, signor Presidente, quest'opera straordinaria è in pericolo. I lavori del cosiddetto restauro della Cripta, diretti dall'architetto Antoni González i Moreno-Navarro, sin dal primo momento, hanno avuto l'obiettivo, come lo stesso architetto e i suoi collaboratori hanno più volte spiegato, di completare l'edificio, di dichiararlo terminato.
A tal fine, lo sforzo principale di questo architetto è stato conseguentemente rivolto a quelle aree in cui l'opera incompleta di Gaudí entrava in contatto con il terreno, al coronamento delle mura, al tetto e alla rampa di accesso alla chiesa superiore, mai costruita. Vale a dire, signor Presidente, a tutti quei punti estremi in cui l'opera o si mostrava nellatto di 'nascere e nel momento in cui iniziava a emergere dal suolo, come i pini, oppure si mostrava tronca e non finita, come nei coronamenti irregolari delle murature o nella rampa, nei punti di contatto con il "suo" esterno, lì dove la "sensazione di rovina", ma di "rovina intesa come nascita", era trasmessa con più potenza. Per completare l'edificio, per ottenere la giusta "essenza di edificio terminato", come ha scritto il suddetto architetto, sono stati costruiti:
– nell'accesso al portico e sotto lo stesso portico, un pavimento fatto con piccoli pezzi rettangolari di pietra calcarea molto chiara, quasi bianca, simile a quella che qualcuno potrebbe usare per il proprio bagno, dopo aver sfogliato una rivista d'arredamento. Il pavimento è interrotto da un piccolo gradino che forma un angolo proprio con il margine dei pilastri del portico –e per impedire, per altro senza riuscirci, che i visitatori vi inciampino, il gradino è stato rivestito di marmo nero ed è stata collocata una ridicola iscrizione– con il risultato che adesso i pilastri di Gaudí non sprofondano più nella terra, non emergono più dal suolo come i pini, ma si appoggiano semplicemente, senza peso, su una superficie liscia e levigata che spezza ogni legame tra il portico e il terreno e che non ha altra qualità se non la sua triviale volgarità;
– la parte superiore delle murature della facciata è stata ricoperta con un "coronamento finale" –per citare le parole dell'architetto– realizzato con sottili lastre di pietra basaltica, disposte in maniera simmetrica, che eliminano le irregolarità preesistenti, sostituendole con la banale rigidità di una linea orizzontale. Questo rivestimento annulla le infinite qualità della materia e imprigiona il movimento delle mura di Gaudí, così trasformate in semplice zoccolo del coronamento fatto dai restauratori o, peggio ancora, con un'assurda e tesa orizzontalità del tutto contraria allo spirito di questo edificio in particolare e dell'opera di colui che lo ha costruito in generale (l'affermazione dell'architetto incaricato del restauro secondo cui la pietra basaltica proviene dalle stesse cave dalle quali Gaudí estrasse quella da lui impiegata, suona sarcastica). Inoltre, a quella futile del nuovo e impensabile "coronamento finale" delle murature, bisogna aggiungere l'orizzontalità spoglia del tetto, su cui i resti del portale della chiesa non costruita sembrano depositati come ossa spolpate su un piatto, le cui ringhiere metalliche e canalizzazioni di zinco non fanno che accrescere la sensazione di perdita di densità dei muri originari, che adesso appaiono scioccamente separati dall'opera, estranei, dominati, appunto, da ciò che inopinatamente li "conclude";
– sulla rampa di accesso alla chiesa superiore –che Gaudí, certo, lasciò incompleta, ma che doveva essere una rampa o una scalinata– è stata costruita una copertura di zinco che genera un contrasto doloroso con l'opera originaria non solo in termini di materiale, colore e orditura, tutti molto lontani da quelli utilizzati da Gaudí; e questa vasta superficie, con le sue dimensioni, rimpicciolisce e nasconde il lavoro della Cripta, in origine costruita con elementi fatti con le mani e, pertanto, piccoli. Per di più, e questo è gravissimo, la copertura assurda è stata collocata su quella parte del portico in cui Gaudí, come abbiamo precisato, aveva previsto una rampa o una scalinata, alterando e falsando così le funzioni di questa porzione dell'edificio. Inoltre, questa è l'unica copertura visibile. Adesso è lì dove mai era esistita. Per esagerare con le assurdità, con lo spreco e la falsificazione, questa copertura elimina l'accesso naturale alla terrazza superiore e lo sostituisce con uno nuovo, inventato, a forma di fossa, vicino al prospetto orientale e si conclude con una scalinata. Il tutto è poi risolto con fasce di pietra basaltica e superfici regolari che, raggiungendo così il colmo del cinismo o dell'ignoranza, i restauratori spiegano come un "omaggio al maestro";
– e non è tutto: nell'imposta dell'antica rampa, adesso trasformata in un tetto di zinco, i restauratori hanno collocato un monolito orizzontale di granito nero, lungo più di tre metri e alto più di un metro, sul quale, con caratteri sepolcrali, hanno scritto i numeri 1908–2002 e la parola AMEN. È difficile immaginare un gesto di maggior presunzione e più barbaro, una prova più chiara di megalomania, di disprezzo per l'opera di Gaudí e i valori della sua architettura. Inoltre, la presenza prepotente di questo monolito viene giustificata con la grottesca motivazione di voler così impedire ai visitatori di salire lungo la rampa (ma a che diavolo serve una rampa o una scala? E se questo era quello che si voleva, c'era proprio bisogno di un simile monolito e di iscrizioni tanto lugubri?). Ciò dimostra la disarmante banalità degli argomenti utilizzati dai restauratori, motivati dal desiderio di "esprimere la volontà di far sì che l'edificio, una volta restaurato e finito, sia ritenuto completato", come scrive l'architetto responsabile dell'intervento, dando un'ulteriore prova della presunzione che affligge chi è convinto che opere straripanti come quella di Gaudí possano avere un punto finale e, peggio ancora, di chi è convinto di essere stato scelto per mettere quel punto.
Signor Presidente: dopo aver realizzato tanti spropositi, alterando e tradendo, come abbiamo tentato di spiegare, una delle opere più emozionanti e importanti del Novecento, l'architetto restauratore ha già eseguito alcune prove di quello che definisce il restauro dell'interno. Queste prove sono consistite, per ora, nel rivestire di gesso il muro di laterizi di una delle cappelle (è un'incombente minaccia di altri analoghi "provvedimenti"), basandosi, semplicemente, ancora una volta, sul fatuo convincimento di conoscere –senza prove, è chiaro, perché chi conosce il modo pragmatico di lavorare di Gaudí sa bene che simili prove non sono mai esistite né esisteranno– "l'intenzione primigenia del maestro". Possiamo permettere che si restauri –come loro dicono– in base alla presunta conoscenza di intenzioni mai dichiarate e che, in ogni caso, non hanno mai lasciato traccia? Da dove proviene tale supposta conoscenza, quasi medianica, se non dalla stessa presunzione e dal disprezzo di chi è capace di collocare il monolito con la parola AMEN ai piedi di una rampa che lui stesso ha trasformato arbitrariamente in un tetto di zinco?
L'architettura di Gaudí deve la sua incompletezza alla sua stessa forza; una delle caratteristiche della mentalità kitsch, invece, è "voler finire tutto", a ogni costo. Signor Presidente, salviamo l'opera di Gaudí. Questa devastazione deve essere fermata e l'opera deve venire riportata allo stato originario, a esclusione degli interventi necessari per la sua conservazione. Che il tempio torni a manifestarsi alla fine di un sentiero, vicino alle case della Colonia, tra i pini, sorgendo dalla terra che con loro condivide, come la tragica e forte "rovina che ci salva dalla tristezza di tutte le rovine", e non come la triste e volgare sciocchezza in cui coloro che sono stati incaricati di restaurarla finiranno col convertirlo "definitivamente", se Lei non lo impedirà.
Francesco Dal Co e Juan José Lahuerta
Al Señor Pasqual Maragall, Presidente de la Generalitat de Cataluña
Señor Presidente:
Su abuelo el poeta Joan Maragall escribió en 1906 refiriéndose al Templo de la Sagrada Familia: "Me encaminé, pues, allí como llevado por un deber, no de aquellos que nosotros cumplimos, sino de aquellos que se cumplen por sí en nosotros (...) El Templo se me apareció, como siempre, como a tantos, como una gran ruina; o como un gran palomar, que dijo una niña a su primera vista. Y realmente vuelan palomas en la altura de las agujas y los andamios de los campanarios. Pero a mí me penetra más la sensación de ruina; y me halaga, porque sabiendo que aquella ruina es un nacimiento, me redime de la tristeza de todas las ruinas; y ya desde que conozco esta construcción, que parece una destrucción, todas las destrucciones pueden parecerme construcciones".
¿No podrían aplicarse, señor Presidente, estas mismas emocionantes palabras, esta sentida descripción, a la Cripta de la Colonia Güell?
Sin duda, y probablemente aún con más intensidad que la Sagrada Familia, esta construcción que Gaudí dejó inconclusa en 1914 en Santa Coloma de Cervelló, después de haber trabajado en ella con gran lentitud durante mucho tiempo, tiene el aspecto de una ruina capaz de redimir del dolor de las ruinas, justamente porque es, pese a su aspecto de ruina, de obra sin acabar, una construcción, el lugar en el que lo que se demuestra, ante todo, es el esfuerzo del arquitecto artesano que fue Gaudí, de su amor por el trabajo, por los materiales y por la naturaleza, de su voluntad de unir en los gestos del trabajo, en sus huellas, en sus heridas incluso, las herramientas, la materia y la naturaleza, en una obra dedicada a Dios tanto como al hombre que levanta hacia él las mismas manos que empuñan las herramientas y tocan y acarician y golpean cuando es necesario los materiales.
La Cripta, señor Presidente, no se alza al final de calles polvorientas, sino que lo hacía sobre una pequeña colina, en medio de un bosquecillo de pinos al que se puede acceder por un caminito después de atravesar, a la entrada de la Colonia, un puente, como si Gaudí hubiera querido indicarnos ya desde el principio que ese bosque era un lugar separado, sagrado.
Al llegar, como usted bien sabe, lo primero que se descubría era el pórtico, con sus columnas inclinadas surgiendo del suelo en perfecta continuidad con los troncos de los pinos, a cuyas rugosidades y defectos recuerdan. Enseguida veíamos las bóvedas, con sus nervios lanzados en todas direcciones, como ramas, y con sus bóvedas abombadas, como las copas de los árboles. Pero lo que más impresionaba en ese primer momento era comprobar que para construir todo eso Gaudí había utilizado materiales que parecían de desecho, como ladrillos requemados, piedras sin desbastar, cerámicas troceadas o agujas de las antiguas máquinas de hilar. Además, esos materiales fueron dispuestos casi sin orden, con una brutalidad y una torpeza que nos hablan del acto de construir como de un acto duro y trascendente, sagrado, sin duda, desde el punto de vista del arquitecto, que conoce el valor de los dones de Dios que tiene entre sus manos, como lo conocían quienes se aprestaban a ofrecer un sacrificio. No hay nada aquí, señor Presidente, de esa arquitectura banal, que se hace por capricho y a la que desgraciadamente nos tienen acostumbrados tantos arquitectos que han olvidado por completo el significado de la palabra Arquitectura, sino que se trata de una arquitectura llena de valores y virtudes, expresión misma de la virtud, y como ella, llena de deberes y misterios como aquellos a los que su abuelo se refería hablando de la fuerza que lo empujaba hacia la Sagrada Familia.
Pilares inclinados, bóvedas abombadas, nervios en todas las direcciones, disposiciones laberínticas... La forma de trabajar de Gaudí es manual en el sentido más profundo, literalmente físico y para nada metafísico, que pueda tener esa palabra. Para mostrar esa manualidad en toda su intensidad, el trabajo de Gaudí ama concentrarse, sobre todo, en su primer momento: el instante radical y peligroso, puesto que lleno de poder, en el que la herramienta golpea al material. Así, todos los materiales, bajos o sucios, sean cuales sean y provengan de donde provengan, quedan transformados, transfigurados, por ese gesto iniciático, redimidos de su condición primera de desperdicio o desecho: marcados, heridos por el esfuerzo del hombre, señalados por la huella del trabajo, se elevan como si fueran piedras preciosas.
Pero si tras atravesar el pórtico, señor Presidente, penetramos en el interior de la Cripta, veremos no sólo los mismos materiales pobres que hemos encontrado fuera y la misma buscada torpeza, la misma brutalidad -el ladrillo, la cerámica, el hierro, los zócalos sumariamente revocados con cemento, la disposición osteológica de los nervios de las bóvedas-, sino, sobre todo, como culminando todos los significados posibles de una arquitectura radicalmente sagrada, cuatro grandes columnas monolíticas de basalto y plomo inclinadas hacia el centro del espacio. El primer golpe en la cantera ha sido suficiente para obtener esas enormes piedras, con las que Gaudí parece haber querido lanzar una admonición a los arquitectos desmemoriados: que cualquier proceso posterior a ese encuentro entre la mano, la herramienta y el material que dormía en la tierra, debe ser eliminado, puesto que ya sólo responderá al orgullo inútil o, aún peor, a una banal presunción.
Como usted bien sabe, señor Presidente, muchos piensan –y pensamos- que esa construcción maravillosa, esa ruina que es una construcción redentora, representa la culminación de la carrera de Gaudí, y desde luego hay razones para creerlo así. ¿En qué otra obra Gaudí fue más libre que en esta? O, mejor aún, ¿en cuál otra se sintió a sí mismo más libre, más cercano al acto primordial del Creador, que modeló al hombre con sus manos en el fango? Eso es lo que Gaudí hizo aquí lentamente, con una lentitud que ha quedado marcada en la construcción con profundas huellas, con heridas: eso, huellas y heridas de un tiempo que no tiene nada que ver con el aprovechamiento moderno, es lo que muestran los materiales pobres, rotos, troceados, las soluciones bruscas, brutales, torpes... La Cripta surge de la tierra como el bosque que la rodea: es su corazón pétreo y, aún así, palpitante. La Cripta quedó inacabada porque no podía acabarse, por principio: la Cripta, en efecto, como las grandes creaciones, como las esculturas de Miguel Ángel o el Gran Vidrio de Marcel Duchamp, es la obra "definitivamente inacabada" y por ello capaz de explicar la condición del mundo moderno no como la estúpida comedia de la imitación de lo nuevo, sino como una tragedia de la resistencia a la pérdida de lo verdadero.
La Cripta de la Colonia Güell, pues, señor Presidente, significa el punto culminante y más radical de la obra de Gaudí, la "inacabada conclusión" de muchas de sus investigaciones estructurales, formales y simbólicas. Los modos de trabajo seguidos aquí por Gaudí lo colocan en una situación de excepcional originalidad en el panorama europeo, y su uso de materiales de desecho, unidos por medio del collage brutal o del assemblage inesperado, esas técnicas esenciales del arte moderno, hacen que aquí su obra coincida y hasta se adelante a muchas de las obsesiones de las vanguardias. Esta obra, señor Presidente, ha sido siempre admirada por estos motivos que acabamos de nombrar: por ellos llamó la atención tanto de los arquitectos expresionistas como de los racionalistas de los años 20 y 30, o de los artistas y poetas surrealistas, pero también de los arquitectos brutalistas de los años 50 y 60, y por esos motivos ha sido siempre presentada por muchos de los historiadores del Movimiento Moderno como un ejemplo supremo, anticipador y culminante a la vez, de la llamada arquitectura orgánica.
Pues bien, señor Presidente, esta obra extraordinaria está en peligro. Los trabajos de la así llamada restauración de la Cripta, dirigidos por el arquitecto Antoni González i Moreno-Navarro, se han planteado desde el primer momento, y tal como el propio arquitecto y sus colaboradores han explicado reiteradamente, con la intención de finalizar el edificio, de darlo por acabado.
Para ello, el esfuerzo principal de este arquitecto se ha centrado justamente en aquellos lugares en los que la obra inacabada de Gaudí entraba en contacto con el suelo, en los remates de los muros, en la cubierta y en la rampa de acceso a la iglesia superior nunca construida. Es decir, señor Presidente, todos esos lugares extremos en los que la obra o bien se mostraba naciendo y empezando a crecer desde el suelo, como los pinos, o bien se mostraba truncada y non finita, como en los remates irregulares de los muros o en la rampa, en los lugares de contacto con "su" exterior, en los puntos en los que su "sensación de ruina", pero de "ruina como nacimiento", era mayor, más determinante. Para dejar acabado el edificio, para conseguir su "esencia de edificio terminado", tal como ha escrito el arquitecto que hemos mencionado arriba, se ha construido:
- en el acceso al pórtico y bajo el pórtico mismo un pavimento de pequeñas piezas rectangulares de piedra calcárea muy clara, casi blanca, como la que alguien habría puesto delicadamente en su cuarto de baño después de ojear una revista de decoración. Ese pavimento está partido por un pequeño escalón formando ángulo justo en el límite de los pilares del pórtico –escalón que, aparte de una ridícula inscripción ha necesitado de bandas de mármol negro para impedir sin lograrlo que tropiecen los visitantes en él-, de modo que ahora los pilares gaudinianos ya no se hunden en la tierra, ya no brotan de ella como los pinos, sino que se apoyan simplemente, sin peso, sobre una bandeja, sobre un plano liso y pulido que corta toda la relación del pórtico con la tierra y que no tiene otra cualidad sino su vulgaridad trivial.
- en la parte alta de los muros de la fachada se ha levantado un "remate final" –así lo llama el arquitecto- realizado con losas finas de piedra basáltica en perfecto aparejo, que eliminan las irregularidades de la obra anterior, sustituyéndolas por la banal rigidez de una línea perfectamente horizontal que aplasta las infinitas cualidades materiales y aprisiona el movimiento de los muros gaudinianos, convertidos ahora en simple zócalo del remate de los restauradores, o, aún peor, de una absurda y tensa horizontalidad totalmente contraria al espíritu de este edificio en particular y de la obra de Gaudí en general (el que el arquitecto restaurador diga que la piedra basáltica ha sido obtenida de las canteras de las que Gaudí obtuvo la suya no parece sino un sarcasmo). Además, a esa fútil horizontalidad del nuevo e impensable "remate final" de los muros, hay que añadir la horizontalidad desnuda de la cubierta, en la que los restos del portal de la iglesia no construida parecen haber sido depositados como huesos pelados en un plato, cuyas barandillas metálicas y canalizaciones de zinc no hacen sino aumentar la sensación de pérdida de densidad de los muros originales, que ahora aparecen como algo autónomo, tontamente separados de la obra, extrañados, dominados por sus remates.
- se ha construido también, sobre la rampa de acceso a la iglesia superior -que Gaudí, claro, dejó inacabada, pero que tenía que ser una rampa o escalinata- una cubierta de zinc que contrasta dolorosamente con la obra original no solamente en términos de material, color y textura, tan alejados todos del sentido que desde esos puntos de vista tienen los materiales empleados por Gaudí, sino, sobre todo, en cuanto tamaño, puesto que la gran superficie de zinc empequeñece y oculta la obra de la Cripta, por principio surgida de lo que las manos pueden hacer, siempre menudo. Además, y esto es gravísimo, esa cubierta prepotente y absurda ha sido colocada sobre una parte del pórtico, en el lugar en que Gaudí, como hemos dicho, había previsto una rampa o escalinata, con lo que las funciones de esa parte del edificio han sido alteradas y falseadas. Es más: esa es la única cubierta visible, que hay ahora y que nunca ha habido en la Cripta, dominándola con su tamaño, con su material extraño a todo, y con una inclinación de tejado que nunca Gaudí había previsto ni querido. Para abundar en el absurdo, en el desperdicio y en la falsificación, si esa cubierta elimina el acceso natural a la terraza superior ha sido para construir otro, nuevo, inventado, en forma de foso junto a la fachada de levante concluido por una escalinata, resuelto todo con hileras de piedra basáltica y superficies regladas que, en el colmo del cinismo o de la ignorancia, los restauradores interpretan como "homenaje al maestro".
- pero aún hay más: en el arranque de la antigua rampa, ahora convertida en tejado de zinc, los restauradores han colocado un monolito de granito negro horizontal de más de tres metros y medio de largo y un metro y medio de alto en el que con talla propia de lápida sepulcral moderna han inscrito los guarismos "1908-2002" y la palabra "AMÉN". Es difícil de imaginar un mayor acto de presunción y de barbarie, de megalomanía, de desprecio hacia la obra de Gaudí y hacia los valores colectivos de su arquitectura, pero, sin embargo, no es más que el resumen patético del resto de las intervenciones que acabamos de comentar y de otras que por falta de especio callamos, máxime cuando la presencia prepotente de ese monolito se justifica, por un lado, con la grotesca razón de que así las gentes no se encaramarán a la rampa (pero: ¿para qué demonios sirve una rampa o una escalera?; y, si lo que se buscaba era eso: ¿hacía falta semejante monito de granito con tan tétricas inscripciones?), lo cual demuestra la simplicidad de los argumentos, o, por otro lado, para "significar la voluntad de que el edificio, una vez restaurado y completado, se dé por acabado", como escribe el arquitecto responsable, lo cual demuestra la presuntuosidad de quien está convencido de que obras desbordantes como la de Gaudí pueden tener un punto y final, y, aún peor, de quien está convencido de ser el llamado para poner ese punto y final.
Señor Presidente: después de llevar a cabo tantos despropósitos, de falsear y traicionar hasta el punto que hemos intentado explicar una de las obras más emocionantes e importantes del siglo XX, el arquitecto restaurador ya ha llevado a cabo algunas pruebas de lo que el llama restauración del interior, y que han consistido, por ahora, en revestir el muro de ladrillo una de las capillas con yeso y en amenazar con revestir el resto de los muros de ese interior, basándose, simplemente, una vez más, en el fatuo convencimiento de conocer –sin pruebas, claro está, unas pruebas que, para quien conozca el modo pragmático de trabajar de Gaudí, ya sabe que nunca existieron ni existirán- "la intención primigenia del maestro": ¿es que podemos permitir que se restaure –así lo llaman- en base al supuesto conocimiento de unas intenciones que nunca se declararon y que, en todo caso, nunca dejaron rastro? ¿De dónde sale ese supuesto conocimiento, casi mediúmnico, sino de la propia presunción y del desprecio de quien es capaz de colocar ese monolito con la palabra "AMÉN" al pie de una rampa que él mismo ha transformado arbitrariamente en tejado de zinc? La obra de Gaudí es inacabada por razón de su propia potencia, mientras que una de las características de la mentalidad kitsch es quererlo acabar todo, a toda costa. Frente a esa necesidad de "punto final" dejemos que nos "halague" otra vez una emocionante y verdadera sensación de ruina.
Señor Presidente: salvemos la obra de Gaudí. Esta devastación tiene que ser detenida y toda la operación que se ha llevado a cabo hasta ahora devuelta a un estado primero en el que, salvando todas las necesidades técnicas de conservación, el templo vuelva a aparecerse al final de un camino, junto a las casas de la colonia, entre los pinos, surgiendo de su misma tierra, como la "ruina que nos salve de la tristeza de todas las ruinas", trágica y fuerte, y no como la triste y cursi bagatelle en la que sus restauradores la "acabarán definitivamente" convirtiendo, si usted no lo remedia.
Juan José Lahuerta
Articolo inserito il 9 giugno 2004