Frank Gehry
Nato nel 1929 in Canada, è americano di adozione.
Nel 1998 vince il premio Pritzker. Il suo vero cognome è Goldberg, ma l'ha cambiato quando gli è nata la prima figlia: "Da ragazzino, in Canada, mi avevano reso la vita dura, perché ero ebreo. Così, mi sono lasciato convincere a mutar nome per facilitare l’infanzia di mia figlia. Adesso mi dispiace, ma ormai è tardi".
Si laurea in California e incomincia a lavorare nello studio Gruen Associates, dove resta fino al 1960. "In quegli anni - scrive il critico Joseph Giovannini - Gehry conduceva una doppia vita: frequentava gli artisti iconoclasti di Venice, che sperimentavano nuove forme d’interpretazione dello spazio, della luce, della materia. Era il cosiddetto gruppo della Ferus Gallery e perseguivano due scopi: toglier l’arte dal piedistallo ed effettuare interventi quasi architettonici, improvvisati...".
La poetica di Gehry si forma fuori e contro il rigore formale ed etico dell’architettura del Movimento Moderno: le forme non debbono essere pure né i materiali nobili; ben vengano la volgarità, la frattura, il caos.
Ecco Gehry che, come gli artisti pop (tutti suoi sodali: Oldenburg ha addirittura collaborato ai suoi progetti architettonici), pesca nei materiali poveri delle periferie urbane, costruisce con la rete metallica, la lamiera ondulata, trasferisce nell’architettura la ricerca che i suoi amici conducono in pittura e scultura. Il lavoro-summa di quegli anni d’apprendistato (ma siamo ormai nel 1978) è la casa che costruisce per sé‚ a Santa Monica, scoperchiando, sventrando, decostruendo una casa prefabbricata. I vicini s’indignano: rovina l’armonia stilistica del sobborgo; "tipica classe media coi suoi tipici simboli architettonici",
commenta lui, ed aggiunge: "ancora adesso non capisco perché i miei interventi li abbiano tanto disturbati".
La sua fantasia, in altra epoca, sarebbe frenata da problemi costruttivi pressoché insolubili, ma a fare i calcoli che consentono ai suoi pazzeschi edifici di stare insieme e in piedi, adesso, ci pensano i computer. E allora, la fantasia galoppa, i riferimenti si affastellano.
Per fare il Guggenheim, dice, "ho visto tutto. Il costruttivismo russo, certo, Tatlin, ma anche Malevich, El Lissitsky; e anche Matisse, e anche Moby Dick". Ad un giornalista spagnolo che gli chiede se ci sia, nella sua opera, qualche influenza picassiana, risponde serissimo: "Credo che la mia opera non sarebbe quella che è se Picasso non fosse esistito". A Sol Alameda, corrispondente del Paìs, che gli chiedeva conto della sua sicurezza di sé, dell’audacia che comporta progettare e costruire un monumento "pazzesco" come il museo bilbaiano, Gehry ha risposto noncurante: "Ma, guardi, io non la vedo così. A me sembra una cosa normale".