Conversazione con Tim Power
di Ivana Riggi
È la settimana del design week milanese, in questo 2011 i Saloni compiono
cinquant'anni e il capoluogo lombardo è un continuo fermento. La mia
conversazione con Tim Power avviene fuori dal caos in un luogo appartato dei
giardini del Triennale Design Museum. Il suo atteggiamento è semplice; è un
uomo molto simpatico.
Architetto, la ringrazio per la sua presenza. Nato a Santa Barbara nel 1962.
Quando e come mai è arrivato in Italia?
Sono arrivato in Italia, a Firenze, la prima volta per studiare tramite la
California Polytechnic State University che ha sede distaccata sia in Italia
che in Danimarca; scelsi la prima perché mi affascinava la storia. Ho studiato
con due personaggi molto importanti: Cristiano Toraldo di Francia di
Superstudio e Gianni Pettena che è uno dei più importanti storici
dell'architettura italiana, sopratutto di quella “radicale” che ha segnato un
momento incredibilmente importante nella contemporaneità.
Siamo diventati subito amici e, dopo la scuola, Cristiano mi ha chiesto di
collaborare con lui a Superstudio. Dopo un po' di tempo, vista la realtà
difficile di Firenze per quanto riguardava la prospettiva di lavoro per i
giovani, sono ritornato in America. Qui ho lavorato abbastanza sia con studi
molto creativi piccoli che grandi; ho fatto un po' di progetti per mega
strutture come alberghi, biblioteche e altro; mi sono occupato anche di
microstrutture e opere artistiche, per degli studi tra le più importanti a San
Francisco in California.
Successivamente sono tornato nuovamente in Italia per motivi più personali e
sono stato chiamato a lavorare per tre settimane, che poi divennero quasi
cinque anni, allo studio di Sottsass. Da quel periodo lì a oggi vivo in Italia
da esattamente un ventennio. La mia è iniziata quindi come la classica storia
dello straniero a Milano anche se qui ci sono più designer stranieri che
architetti provenienti dall'estero forse pure per alcune logiche politiche
legate al lavoro…
Mi parlerebbe delle esperienze fatte con Superstudio, Claudio Nardi e
Sottsass Associati? Ha qualche ricordo in particolare di quel periodo di cui le
andrebbe di parlare? Non so un episodio, un insegnamento che ha portato con
sé?
Sono esperienze che appartengono a diversi momenti della mia vita, di
conseguenza mi hanno anche arricchito in maniera diversa. La prima, come le ho
detto in precedenza, è stata fatta con Superstudio con cui ho lavorato per un
anfiteatro a Cefalù, per vari lavori per la Ferrovia Statale e tanti progetti
urbani. Di questo periodo rammento l'incredibile quantità di studi disegnati
manualmente e in pochi (eravamo tre o quattro). Ciò che ricordo maggiormente di
Cristiano è la grande fermezza e passione con cui si dedicava ai progetti per
poi riuscire ad affermarli. Era uno studio che lavorava con grandissima serietà
e abbracciava un po' tutto: l'antropologia, la storia, l'umanità e la poesia.
Claudio Nardi era un po' più giovane di Toraldo di Francia e con lui ho avuto
un rapporto più fraterno; allora disegnavo benissimo a mano, scoprì questa mia
qualità attraverso alcune pubblicazioni e così disegnai per lui.
Sottsass è stato uno dei personaggi più grossi dell'architettura e del design
italiano. Prima di quelli della sua generazione c'è stato poco di ciò che oggi
si chiama “design”, dobbiamo molto alla loro capacità di fare, di dire anche
contro tendenza, con grandissima cultura e capacità di guardare il mondo e
proporre le cose. Il mestiere del design lo hanno inventato in quel periodo.
Ciò che ricordo di lui è la grande generosità, la possibilità che dava ai
giovani di ventiquattro, venticinque anni di girare il mondo, andare nei
cantieri. Ci lasciava non completamente liberi, perché comunque dovevamo
seguire la sua visione, ma aveva una fiducia incontenibile nella gioventù.
Aveva settanta anni quando l'ho conosciuto ma era mentalmente fresco, giovane,
e aveva una capacità reattiva, d'incazzarsi con il mondo pazzesca; si
arrabbiava molto perché amava molto il nostro pianeta.
Che differenza nota tra il design di allora e quello di oggi?
Allora c'era molta più ricerca. Il design non era ancora un mestiere ma la
scala minore dell'architettura; si disegnavano gli oggetti “da architetto” per
cui era molto più legato alla cultura dello spazio, delle persone e poco al
branding, al marketing delle ditte. D'altro canto le aziende di allora, quelle
storiche, erano molto più radicali nelle loro posizioni, anche perché forse
c'era meno concorrenza e si poteva sperimentare assieme ai progettisti; erano
meno incatenate ai numeri.
Oggi tutto è molto più complesso... ci sono più ditte, molti più designer, il
branding ha più importanza e si guarda quindi più all'aspetto commerciale. Ciò
non vuole essere un giudizio, perché tutto ciò che facciamo è legato al
commercio e al guadagno, ma forse questo sistema ha danneggiato la ricerca. È
cambiato anche il rapporto tra gli architetti-designer e le aziende che allora
era proprio di amicizia. C'era una continuità nella relazione che durava quasi
per sempre. Oggi tutto è più fluido, ma meno legato a quel tipo di familiarità
e più al marketing; credo che ciò si rifletta nel prodotto.
Un progetto di quest'anno è l'interior design degli uffici, per la
multinazionale Texas Instruments, a Parigi. Dove sono allocati e in cosa
consiste il vostro intervento?
Noi lavoriamo con Texas Instruments da circa quattro anni, progettiamo per
diverse multinazionali, ma non siamo prettamente esperti solo “di uffici”. Il
nostro lavoro è molto trasversale, essendo architetti e designer, l'ufficio ci
interessa molto perché lo consideriamo quasi una piccola città, una sorta di
comunità ideale con tutte le divisioni tra spazio pubblico e privato. Quando ci
chiamarono allora fu per un piccolo progetto a Milano; non avevano molta
cognizione di mobili e illuminazione cosa quest'ultima su cui insistetti molto.
Quando il presidente europeo della società vide il nostro lavoro restò molto
contento e ci chiamò per farne altri. A Nizza abbiamo fatto un masterplan molto
grande. Il progetto a Parigi è sulla Senna in un quartiere, che è stato
storicamente la sede della Renault, che è stato dismesso dalla produzione di
macchine e il cui master planning è stato fatto da Jean Nouvel. L'edificio in
cui è presente il nostro intervento di interni è stato progettato da Norman
Foster; si tratta di un contesto culturale e tecnologico molto interessante che
ci ha entusiasmati e stimolati prendendone molti spunti. È stato un periodo in
cui abbiamo preso casa a Parigi seguendo l'intero cantiere con molta soddisfazione.
In questo momento stiamo partecipando e tenendo molte conferenze sull'ufficio
cercando di portarvi un design di qualità che soprattutto in Europa è poco
conosciuto in questo settore.
Ultimamente per Texas Instruments ci sarà un altro progetto proprio a Catania,
nella sua terra, in Sicilia.
Nel 2009 lo Studio Power si è aggiudicato il 3° posto al concorso
internazionale–Housing Sociale – Una Comunità per Crescere , Via Cenni,
Milano–Italia. Cosa richiedeva il bando? Visto il tema avete seguito anche un
percorso etico nel vostro iter progettuale?
Da due, tre anni il Social Housing sta finalmente prendendo piede a Milano
e in Italia; ho seguito un progetto di Social Housing anni fa a Firenze con
Superstudio. Nei ultimi anni in Italia, ho l'impressione che ci si sia dedicato
ad altro trascurando l'aspetto sociale che credo sia stato dimenticato anche
dalla stampa. Questa attuale rinascita è legata anche a alla creazione dei
fondi, incentivati dal governo. Il bando prevedeva un certo numero di
appartamenti di tre, quattro tipologie che noi abbiamo fatto diventare molte di
più perché non le ritenevamo sufficienti. Quindi, abbiamo configurato ogni
tipologia richiesta per farsi che potesse declinarsi in quattro, cinque
differenti. Abbiamo creato un vero landscape dove si trovavano delle case
tenendo conto dell'orientamento e posizione geografica del luogo. Per questo
lavoro abbiamo seguito profondamente alcuni dei patterns presenti nel libro A
pattern language di Christopher Alexander, ma abbiamo completamente stravolte
alcune richieste, cercando di essere molto generosi anche sugli spazi esterni.
Il terzo posto ci ha fatto molto piacere.
Un altro progetto affascinate e credo molto gratificante è il Celux, LVMH
Concept Store, Louis Vuitton Building a Tokyo nel 2002. Si è trattato di un
committente molto importante, di un colosso. Cosa vi è stato chiesto di
realizzare? L'architettura, come l'interior design, sono degli interventi
proiettati a “durare nel tempo”; la moda è, invece, un continuo divenire.
Progettualmente come ci si incontra?
L'edificio è stato disegnato da Jun Aoki, il quale è diventato dopo amico e
collega ... Gli interni sono stati realizzati insieme a In House Architecture
Department Louis Vuitton. Celux è nato come un club, un negozio privato ma non
esclusivamente per ricchi; il nostro progetto ha utilizzato sia materiali
esclusivi e costosissimi, con altrettante tecniche di lavorazione, che poveri e
semplici perché collocati in situazioni decontestualizzate come ad esempio il
linoleum sui muri. Abbiamo creato anche un mix tra tecnologia e natura. Siamo
stato lasciati più o meno molto liberi e abbiamo fatto con piacere tantissimi
viaggi a Tokio. Non abbiamo voluto realizzare un involucro rigido, ma
volutamente flessibile nel tempo come lo è la moda. Celux ha chiuso un anno fa,
non per motivi architettonici, ma legati al business plan. Oggi l'involucro,
spostando via i mobili, è rimasto comunque valido per altre funzioni,
esattamente come avevamosperato, e questo ci fa piacere.
Spostiamoci sul design. Nine Hundred Gram Chair (2009), una seduta più
leggera possible. In che materiale è e come è stata realizzata? Siamo
nell'ambito della sperimentazione?
Sì siamo nell'ambito della sperimentazione, è stata realizzata per una
mostra con due confezioni di spaghetti, per un costo massimo credo di tre euro,
però con il peso finora minimo (900 grammi), per quanto sappiamo, di una sedia.
La forma superiormente è molto classica e si rifà a una sedia di Charles Eames;
sotto è una sorta di nuvola quasi casuale, più una scultura che un prodotto
industriale.
C'è un progetto di design a cui è particolarmente legato?
Sì il primo che ho fatto, che lega un po' la storia vissuta con Sottsass
con quella di oggi. È una sedia, si chiama Chip Chair, in vetro curvo e
progettata in quattro ore. È presente in diverse pubblicazioni di design.
Quando ho salutato Sottsass ero un po' stanco del “carico di significati”:
colori, emozioni e altre elaborazioni culturali. La mia direzione attuale è
forse molto più legata alla leggerezza, alla scienza, alla natura e alla luce,
meno alla cultura comportamentale emotiva. Questa sedia è stato quasi un
progetto “senza peso culturale”, “senza segno”, miravo molto più alla luce
infatti fu pensata in vetro trasparente. Il giorno che lasciai lo studio di
Sottsass disegnai questo progetto che fu quasi una “purga”, un modo per
staccarmi da quel mondo e avvicinarmi maggiormente al mio.
Per concludere: un progetto che le piacerebbe realizzare e un committente
per cui le piacerebbe lavorare?
Nel nostro lavoro ci muoviamo a diverse scale. Lei, architetto, che
progetta gioielli mi può capire molto bene, ogni scala ha la sua rilevanza. Una
delle lezioni più importanti che io abbia mai ricevuto da architetto è il film
Powers of Ten di Charles e Ray Eames che ci fa capire le connessioni tra le
cose dalle più piccole alle più grandi. Il fatto che il mio studio si stia
spostando verso progetti più ampi non è un fatto di megalomania, direi quasi
l'apposto, perché credo che manchi, non solo in Italia, la tendenza a ricordare
in modo civile la comunità. La nostra ormai è una cultura più individuale che
tende a rivolgere l'attenzione più sul design residenziale, sulla casa e sui
beni personali.
Quindi è una società più egoista?
No è forse più che altro nata da un rapporto più intimo con l'oggetto, che
potrebbe essere dovuto a una mancanza di fiducia nella politica. Questa
atteggiamento e capacità nel mondo di design è stato importantissimo adesso,
però, mi piacerebbe spostarmi sul landscape o territorio urbano e naturale
inserendoci naturalmente anche l'architettura. Certo, è molto complicato. È
molto più facile rilevare la propria famiglia, la propria casa, i propri
oggetti…
Una serie di lectures fatte ultimamente ha sostituito, un po' umoristicamente,
il detto dal cucchiaio alla città con dal landscape al cibo. Lei che è italiana
sa sicuramente l'importanza di quest'ultimo che è legato al territorio in cui
si vive. Oggi mi interessa qualsiasi progetto che mi aiuti a chiudere questo
cerchio.
Credo che non esista solamente un progetto ideale possono essere tutti ideali e
alcuni anche sofferti.
Timothy Power si laurea in Architettura al California Polytechnic State
University, San Luis Obispo nel 1985; ottiene una seconda laurea in
Architettura al Politecnico di Milano nel 2005. Si è iscritto all'Ordine degli
Architetti, P.P.C della provincia di Milano nel 2006.
Dal 1987 al 1996 collabora con gli studi Superstudio, Claudio Nardi e Sottsass
Associati in Italia e vari studi d'Architettura e Design in California.
Nel 1996 fonda TP/A_Tim Power Architects, come studio specializzato in
Architettura, Architettura d'Interni ed Industrial Design.
TP/A_Tim Power Architects ha disegnato progetti d'Architettura e Design di
Interni per numerosi clienti privati noti nel mondo dell'arte, della
tecnologia, della moda e della pubblicità; tra questi Louis Vuitton, XYZ
Communications, Motorola, Muji, Switch, Preziosismi, J. Walter Thompson, and
UCI (Paramount), Lexus, Samsonite e Yoshie Inaba.
Tim Power ha progettato prodotti industriali, mobili e oggetti per Zeritalia,
Poltronova, WMF, Montina, FeliceRossi, Oluce, David Design, BRF, Alfi,
Rosenthal, FontanaArte, Mitsubishi, Cassina/Interdecor e molti altri.
Tra le installazioni e la partecipazione ad attività culturali si ricordano: la
Biennale d'Arte di Venezia (Padiglione Tedesco 1999), la Biennale di Design
(St. Etienne, 1999) e l'attività di consigliere della Biennale d'Architettura
di Venezia (2000, Sezione 'Radical').
I lavori dello TP/A_Tim Power Architects sono stati stati esposti a Milano,
Firenze, San Francisco, New York, Barcellona, Tokyo, Londra, Colonia e Venezia,
e pubblicati nei migliori libri e riviste di Design e Architettura.
Timothy Power ha tenuto corsi all'IED di Milano, Venezia e Torino e alla Domus
Academy di Milano. È Professore a contratto presso la scuola di Disegno
Industriale del Politecnico di Milano.