Dieci domande a Maria Rosaria Perdicaro
di Ivana Riggi
In questa occasione ho deciso di incontrare Maria Rosaria Perdicaro, donna e imprenditrice, audace e “culturalmente energica”. Credo, infatti, che possa essere molto interessante capire le relazioni che intercorrono tra impresa, architettura, design direttamente dalla voce di chi è “persona del fare” e contemporaneamente del “pensare” nel suo più ampio significato.
Maria Rosaria, la ringrazio per avere accolto il mio invito. Ai miei
interlocutori pongo spesso una domanda: mi racconterebbe brevemente la sua
storia?
Certamente, la racconterò brevemente. Io ho cominciato a lavorare all'età
di ventidue anni, ho fatto la gavetta lavorando come dipendente in un'impresa
ceramica per tredici anni. In questa azienda mi sono sentita molto coinvolta da
quella che era l'attività produttiva e creativa. Era molto tradizionale in
quanto si occupava di decori del Seicento e del Settecento della mia regione
che è la Campania e che come tutto il Sud ha una grande storia dal punto di
vista ceramico. Poi arriva un certo punto, nella vita, in cui si compie una
scelta: nel lavoro non mi sentivo molto gratificata, stiamo parlando degli anni
Settanta e la donna non aveva molte possibilità di esprimersi nel mondo
aziendale, come dipendente si avvertivano alcune differenze in negativo tra uomo
e donna. Quest'ultima lavorava con lo stesso impeto, sacrificando anche la
famiglia molto spesso, ma veniva penalizzata sia a livello retributivo che su
altro. Così ho deciso di lasciare l'azienda, facendo un salto nel buio, dando
le dimissioni. Avevo voglia però di continuare nella produzione e, dal momento
che all'interno della realtà che avevo lasciato c'erano anche altre persone
insoddisfatte, con il mio socio attuale e altri, abbiamo deciso di avviare
Fornace della Cava.
Quando nasce di preciso Fornace della Cava e di cosa si occupa?
Fornace della Cava è nata nel 1983 con l'intento di non fare le stesse cose
che realizzavano le altre imprese ceramiche anche perché vivevamo in un
territorio che rappresentava, ancora attualmente, un polo produttivo dove
esiste un insediamento di aziende di un certo rilievo e che è, forse, il più
importante del Sud Italia al di fuori di quello che è il polo produttivo
sassuolese. Volevamo proporre un prodotto diverso. In quel periodo andavano le
dimensioni di 33 x 33 cm e i 40 x 40 cm; noi siamo stati la prima azienda a
presentare sul mercato dei formati di 50 x 50 cm, di 10 x 50 cm, di 5 x 50 cm
interamente manuali e cotti in monofusione. Quello era anche il tempo in cui
venivano utilizzati i prodotti di 20 x 20 cm, di 33 x 33 cm in tinta unita nei
colori pastello; noi invece producevamo delle superfici spatolate a mano in cui
ogni pezzo era diverso dall'altro con dei colori molto mediterranei e con un
impasto che era una innovazione e una ricerca nostra cotto in monofusione e,
appunto, con colorazioni brillanti. Dal momento che viviamo al Sud abbiamo
tenuto molto a mantenere il principio del prodotto manuale artigianale, non
industriale, anche se rappresentava un percorso più difficile perché limitava
quello che sarebbe potuto essere inizialmente un mercato più vasto.
“ Un'azienda che esprime nuove forme con un materiale antico come la
ceramica (…)” (tratto da Modo del 1/02/2002); Per lei cos'è tradizione e cos'è
innovazione? Come si coniugano all'interno della Fornace?
La tradizione secondo me è un “mantenere fermo” determinati principi di
artigianalità del prodotto anche perché l'Italia è stata sempre prima nel mondo
su prodotti di eccellenza ma anche su prodotti soprattutto artigianali. Oggi
stiamo vedendo scomparire tante realtà produttive, tanti mestieri antichi
perché si ritiene che l'innovazione, la ricerca debba essere esclusivamente un
fatto tecnologico. Non credo che sia solo un fatto tecnologico. Dal mio punto
di vista la ricerca può essere fatta anche su un impasto, su una materia che ha
carattere, personalità e che può essere trattata manualmente, ossia lavorata
dalla mano dell'uomo senza necessariamente l'applicazione del robot.
Mi descriverebbe le caratteristiche tecniche dei vostri prodotti: come sono
ottenuti, lavorati, smaltati?
I nostri prodotti sono ottenuti non usando la lava, utilizzando pochissima
argilla, ma delle graniglie refrattarie pure miscelate con vari elementi. È un
prodotto che si presenta inizialmente come un impasto semifluido che poi viene
messo in delle forme in forno ( il 25 x 100 cm, il 10 x 50 cm, il 50 x 50 cm,
il 100 x 100 cm). Non subisce alcun tipo di pressatura e viene spatolato a
mano. È l'uomo che dà un movimento sulla superficie che poi è quella che viene
rappresentata, che si vede sulle foto dei nostri prodotti. In realtà questo
materiale ha poi bisogno di essiccarsi per un tempo di sei, sette giorni; dopo
di che viene tolto dalle forme, viene corrotto attraverso la carta vetro ovvero
viene trattato come se si facesse la cosiddetta “bisellatura manuale”. In
seguito si vede se debba essere decorato a rilievo o a rilievo su smaltato;
subisce la smaltatura poi viene decorato interamente a mano. Non usiamo la
serigrafia, che normalmente si usa presso le aziende ceramiche, ma lo stampino,
lo spolvero ossia il metodo propriamente antico. Ciò perché non intendiamo
assolutamente dire delle cose che non rispondano alla realtà ai nostri clienti:
se un prodotto è fatto a mano lo deve essere nella sua interezza.
Il nostro pezzo non viene prima cotto, poi smaltato e poi decorato, ma viene
appunto lavorato quando ancora non ha subito alcun tipo di cottura. Solamente
dopo tutte le fasi della smaltatura e della decorazione passa nel forno. La
cottura non è mai rapida: deve cuocere il cuore dei formati ( dei 50 x 50 cm,
dei 100 x 100 cm …), deve rispettare i tempi giusti per dare una certa
brillantezza al colore che faccia riferimento alla attualità o alla tradizione
a seconda di come l'interior design tratta la casa. Nel complesso abbiamo
bisogno di circa venti giorni tecnici di lavorazione.
Linde Burkhardt, Riccardo Dalisi, Annibale Oste, Claudio Gambardella, per
citarne alcuni, sono tra i designers che lavorano, o hanno lavorato, con voi.
Potrebbe riassumere le peculiarità di ciascuno e il tipo di contributo
apportato?
Dal giorno in cui siamo nati, facendo le nostre ricerche, ci siamo
proiettati anche verso il mondo del design. Avendo istituito al nostro interno
un centro di progettazione che desse un servizio alla nostro clientela ci siamo
resi conto che l'interior design non poteva essere trattato solamente con delle
tinte unite e che la decorazione non poteva essere esclusivamente ispirata al
Settecento, all'Ottocento ma anche al Novecento o a questo secolo, al nostro
millennio. Volevamo esprimere attraverso questo prodotto molto materico, perché
si tocca e trasmette delle sensazioni, anche dei messaggi. Non potevamo
semplicemente proporre un pavimento turchese o color terra, attraverso una
pavimentazione dovevamo trasmettere anche un qualcos'altro, una filosofia,
delle emozioni che ci appartenevano. Abbiamo così deciso di lanciare dei temi
sui quali hanno poi lavorato i designers. Si sono compenetrati tutti con
caratteristiche diverse: Riccardo Dalisi ha una sua poetica con una sua “ingenuità”
di segno che ha una geometria perfetta; Annibale Oste, scomparso di recente,
grande amico, nasce come scultore e aveva una conoscenza di base della materia
eccezionale che spaziava dal bronzo alla resina, con una grande padronanza di
tutti i materiali con cui andava a confrontarsi (nel 2007 nacque proprio da lui
l'idea dell'inserimento scultoreo all'interno del pezzo con fusioni di bronzo
indorate); Linde Burkhardt è molto rigorosa con un segno ben preciso; Claudio
Gambardella è un architetto e designer, insegna nei corsi di laurea in
Architettura e in Disegno Industriale a Napoli e mi ha fatto piacere
coinvolgerlo.
Una collezione che li ha visti impegnati, con contributi diversi e tutti
importanti, è stata la Kublaigiar che ha voluto fare a ritroso il viaggio di
Marco Polo. Questi infatti ci ha fatto scoprire un mondo ricco pieno di
significati sia culturalmente che spiritualmente. Oggi, forse, i colonizzatori
si sentono un po' colonizzati, però, con la globalizzazione si può far sì che
il confronto possa dare degli imput diversi sperando di cambiare il mondo in
meglio.
Il nome Kublaigiar ha origine dall'unione di Kublai (Kublai Khan) e giar
(giardino interiore). Nascono così i Percorsi di Linde Burkhardt con
l'inserimento di piccole sculture di acciao; Il catturatore di stelle di
Annibale Oste che ha come protagonista il sogno dell'uomo che vuole catturarle;
gli Incanti di Riccardo Dalisi, un altro sogno legato al volto femminile; lo
Zuhur che è il fiore di Claudio Gambardella.
Nelle nostre collezioni, inoltre, abbiamo reso partecipi anche tanti giovani
designers dell'area mediterranea.
Cosa “raccontano” le vostre collezioni?
Raccontano dei sogni, dei desideri, delle emozioni. Per esempio con la
Swahily, che è una collezione nata nel 2001, si è voluto fare riferimento
all'uomo, al linguaggio dei segni che utilizza sin dalle origini, questo ce lo
insegna pure la storia si pensi ad esempio alle tracce lasciate nelle caverne,
e alla sua vita. Così abbiamo fatto riferimento, attraverso i segni, ai quattro
elementi fondamentali del pianeta che sono l'aria, l'acqua, la terra e il
fuoco. Noi non abbiamo voluto parlare dell'Africa, ricordo che lo swahili con
la i finale è la lingua ufficiale dell'Unione Africana, ma di tutto l'universo
e dell'essere umano che ci vive e deve continuare a farlo. È il mondo come lo
vediamo, come lo vedono i nostri bambini e come vorremmo che continuassero a
vederlo … In fondo è un appello a cercare di preservare questo nostro pianeta
da tutte le brutture. Questo progetto venne presentato su un dvd con una musica
originale costituita da sei brani, composti da un ragazzo di Salerno, di cui
due titoli erano in lingua swahili e significano rispettivamente “Dove stai
andando?” e “Donna”. I componimenti accompagnavano un filmato che raccontava
per metafore l'uomo e anche il suo trauma interiore.
C'è molta poesia in Fornace della Cava, mi spiego meglio: c'è molta etica,
credo non sia facile facendo impresa.
La ringrazio, io credo che una piccola azienda può fare questo tipo di ragionamento,
può non guardare l'erba del vicino, ma creare qualcosa che esprima se stesso, i
propri contenuti, senza rivolgere lo sguardo altrove.
Parliamo di Maestri dell'architettura. Lei ha il privilegio di avere
conosciuto e lavorato con Alvaro Siza. Credo che sia una domanda che le avranno
posto in tanti ma non ci rinuncio: com'è avvenuto questo incontro e cosa le ha
trasferito questa esperienza?
Ho avuto la fortuna di avere nella mia vita degli amici straordinari
incominciando, ad esempio, da Annibale Oste, Riccardo Dalisi che hanno
contribuito molto al mio arricchimento interiore, culturale e anche a far sì
che, negli anni, il mio modo di vedere le cose cambiasse; ho avuto anche il
privilegio di averne degli altri come Linde e François Burkhardt. Noi come
piccola azienda abbiamo partecipato a mostre, fiere, siamo stati i primi a
partecipare ad Abitare il tempo come impresa ceramica negli anni '90 e con
quelle famose mostre di affiancamento. Sono sempre rimasta affascinata dal
mondo dell'interior, del design e poi, avendo tanti amici architetti, da quello
dell'architettura. Ho conosciuto Alvaro Siza, tramite François Burkhardt, a un
Cersaie dove noi con la Domus Accademy di Milano eravamo presenti a una mostra
in cui avevamo prototipato dei pezzi. In quell'occasione Siza era stato
invitato al convegno, lo conobbi ma fu un incontro che non permise un rapporto
più stretto. In realtà ebbi modo di approfondire nel 2004; nel frattempo ero
diventata presidente del Consorzio Ceramisti Cavesi e, essendo la nostra una
realtà produttiva con buone capacità e potenzialità, pensammo di realizzare una
serie di workshops e di convegni. Nel 2007, in iniziativa con il comune e
insieme a François Burkhardt pensammo di invitare Siza a Le Settimane
dell'architettura e del design. Fu durante quell'evento che ci conoscemmo
meglio. In seguito François decise di fare un'intervista a Siza, che poi venne
pubblicata in un numero di Area, e decisi di accompagnarlo a Oporto. Sono stata
lì tre giorni, fu un'intervista meravigliosa, tutta in italiano. Durante quelle
giornate ho visto le sue straordinarie opere che lasciano senza fiato;
sorprendenti non tanto per la “spettacolarizzazione” dell'architettura, anzi
tutt'altro, ma per la grande sensibilità architettonica nei confronti dei luoghi
in cui progetta e per una purezza e una essenzialità nelle linee eccezionale.
Stando lì gli ho chiesto se volesse disegnare un murales per Fornace della Cava
e ha accettato.
Siza è uno dei più grandi architetti riconosciuti nel mondo, ma è anche un uomo
straordinario proprio a livello umano, di una grande disponibilità, umiltà,
saggezza; tutte le volte che lo incontro mi commuovo, mi emoziono perché ti dà
moltissimo di sé.
Lei è stata anche presidente del Consorzio Ceramisti Cavesi. A suo giudizio,
i giovani designers sono opportunamente valorizzati o lasciati in secondo
piano?
Farò una critica al corso di laurea in disegno industriale. Credo, infatti,
che stia formando e poi rilasciando dei giovani che rimarranno delusi dal tipo
di scelta fatta. Per un giovane la situazione è questa: una volta laureato o
sarai così bravo come Philippe Starck, che centra tutti i prodotti vendendone
in grande quantità e che ha anche la possibilità di progettare altro, o non
riuscirai a portare a casa neanche la cosiddetta “pagnotta di pane”. Le
aziende, prima assumevano il designer, oggi non è più così perché è limitato
dalla formazione che gli viene conferita. Prima laureandosi in architettura e
specializzandosi in design si aveva l'opportunità di progettare più cose; il
design solamente non dà le stesse occasioni ai giovani a meno che non si preveda
all'interno del corso di laurea anche un percorso che permetta a questi ragazzi
di progettare pure l'interior. Tra le altre cose al Sud per loro sarà ancora
più dura perché raramente esiste la mentalità di rinnovare e di rinnovarsi; io
penso che si incominci a intravedere qualcosa ma non è così continuativo da
farci sperare in un cambiamento. Inoltre I giovani che fanno disegno
industriale credo che debbano fare degli stages anche nelle aziende che non
fanno solamente prodotti industriali; devono entrare nelle fabbriche, devono
entrare nella realtà produttiva altrimenti se non conosceranno le
problematiche, le tecniche dell'azienda non potranno creare mai un prodotto che
possa affascinare il mercato e vendere.
Quello attuale è un periodo storico, economicamente, socialmente,
politicamente “delicato”, definiamolo così … Cosa vuol dire fare impresa oggi e
cosa significa farlo nel meridione del nostro paese? Quali e quante sono le
difficoltà?
Se dovessi rispondere oggi a qualcuno che volesse fare impresa risponderei:<<
Non lo fare!>>. Lo dico perché c'è una burocrazia enorme, questo in
generale. Al Sud è ancora peggio. Primo problema: non sei in una posizione da
un punto di vista logistico ideale, per cui anche per affrontare spese di
trasporti e tutto il resto hai delle difficoltà. Secondo problema: il credito
bancario che al meridione presenta tassi di interesse tre punti superiori
rispetto a quelli del Nord; accedervi, soprattutto se si è in difficoltà, è
impossibile anche se ci si impegna tutto ciò che si ha. Con Basilea II, e
quindi con Basilea III, è ancora peggio perché non si riesce più a parlare
neanche con i funzionari. Questi una volta guardavano anche alla qualità
dell'azienda, al margine, a ciò che faceva, oggi si parla con un computer. Tutto
ciò sta mettendo in ginocchio le imprese; c'è un' economia ferma, stagnante;
teniamo conto che il mio mondo, quello dell'interior, del design,
dell'architettura, alla fine, è legato all'edilizia che non si muove e che ha
probabilmente un indotto che potrebbe essere decisamente superiore a quello
della FIAT.
Adesso per un'azienda del Sud anche l'internazionalizzazione è complessa
proprio perché mentre chi sta in zona Centro Italia ha più facilità di accesso
ai mercati esteri chi vive al Sud ha molta più difficoltà. Consideriamo che ha
anche un certo impedimento a reperire personale che parli correntemente le
lingue e che sia preparato, anche perché chi lo è va via. Questo non per colpa
dei ragazzi ma della scuola, di chi ha governato per anni questo Paese. Mentre
all'estero si studiano almeno due lingue, quella madre e l'inglese, in Italia
ciò è stato per molto tempo sottovalutato.
Nel salutarci, come vede il futuro delle imprese del vostro settore e quindi
quelle dei mondi a esse correlati?
Se si riuscisse a capire che si deve sostenere la piccola e media impresa
che è la spina dorsale dell'economia nazionale e che crea lavoro, allora il
futuro lo si potrebbe vedere un po' roseo. In questo modo questa crisi, che non
viene solamente dal 2008 ma da molto più lontano, potrebbe portare qualcosa di
positivo perché avrebbe messo tutti nella posizione di riflettere. Noi
italiani, almeno nel mio settore, abbiamo commesso un grande errore non
imputabile alle imprese del Sud ma a quelle sassuolesi. Queste, in un momento
di buona, non hanno fatto altro che aumentare a dismisura la produzione; non
appaghi di ciò hanno esportato tecnologia per cui la globalizzazione ci se la
ritrova prima o poi contro.
Adesso dobbiamo investire molto e sulla ricerca, ma anche qui se i giovani che
valgono continueranno ad andare via diventerà sempre più difficile, sulla
creatività, sul buon gusto, sulle cose fatte per bene. Dobbiamo riconquistare
la nostra immagine di una volta, ritornare al nostro serio, vero, bello Made in
Italy possibilmente fatto in Italia! Questo non significa che non si accetti la
globalizzazione, ma dobbiamo importare le cose fatte bene e fatte secondo le
regole internazionali senza sfruttare l'essere umano; a nostra volta dobbiamo
esportare le nostre cose ma prodotte a regola d'arte.
Note biografiche di Maria Rosaria Perdicaro
Maria Rosaria Perdicaro nasce a Cava de Tirreni, città nella quale vive e
opera occupandosi, da diversi anni, dello sviluppo creativo del comparto
ceramico come amministratore delegato della Fornace della Cava. È stata
presidente del "Consorzio Ceramisti Cavesi".
Ha ideato e prodotto alcune delle collezioni più innovative di Fornace della
Cava tra cui la Collezione Samadhi nella quale elabora un mondo di trasparenze
ceramiche prediligendo il soggetto etereo dei fiori e, in particolar modo,
delle Margherite colorate dalle rilassanti variazioni cromatiche e la
Collezione Swahily, che anticipa la forte influenza che il mondo etnico
presenterà nel mondo ceramico negli anni a venire.
In collaborazione con noti designers, appartenenti a diverse emanazioni del
mondo culturale, ha promosso varie sperimentazioni in campo ceramico e
partecipato a numerose manifestazioni, anche a carattere internazionale, quale
promulgatrice della ricerca ceramica.