Marco Zanuso
Nato a Milano nel 1916, si laurea in architettura nel 1939.
Architetto, urbanista e designer ed animatore fin dal dopoguerra del dibattito culturale nel Movimento Moderno, è membro dei CIAM (Congrès Internationaux d'Architecture Moderne) e dell'INU (Istituto Nazionale di Urbanistica), dal 1947 al 1949.
Condirettore di Domus con Ernesto N. Rogers nel 1946-47 e redattore di Casabella negli anni cinquanta, ottiene più volte il riconoscimento della medaglia d'oro (VIII, IX, X, XI, XIII Triennale) e consegue il gran premio della Triennale nelle edizioni IX, X, XIII
Partecipa alla fondazione dell'ADI 1954 e alla creazione del premio Compasso d'Oro nel 1956.
L'attività di architetto e designer gli fanno guadagnare il Compasso d'Oro negli anni 1956, 1962, 1964, 1967 e alla carriera nel 1985. Tra le architetture occorre ricordare i complessi per Olivetti in Sud America, stabilimento Necchi a Pavia e il Nuovo Piccolo Teatro di Milano; tra i progetti di design vanno menzionati quelli per Arflex, Brionvega, Borletti, Gavina, Bonacina, Kartell, Siemens. Svolge attività didattica presso il Politecnico di Milano.
Diversi suoi pezzi sono presenti nella collezione di Design del Museum of Modern Art di New York.
Marco Zanuso è morto a 85 anni, nel luglio del 2001, a seguito dell'aggravarsi della malattia che da tempo lo attanagliava.
"...Io mi sono laureato e il giorno stesso della laurea ho vestito la divisa dell'ufficiale di Stato Maggiore della Regia Marina, come si chiamava allora.
Sono stato quattro anni e mezzo a bordo delle navi. Ero tornato a casa (di architettura non avevo fatto neanche l'ombra). Avevo molti amici architetti del gruppo di Rogers, Mucchi. Ed è stato proprio con Rogers che abbiamo fatto questa esperienza prima di Casabella e poi di Domus. Esperienza naturalmente molto interessante perché era anche una specie di appuntamento del dopoguerra: contarci, vederci, se eravamo rimasti ancora in piedi e riprendere il discorso che avevamo interrotto...Per me è stata un'esperienza nuova questo contatto con il mondo degli architetti, che avevamo lasciato, nel senso che mi sono accorto che la scuola di architettura ci aveva insegnato poco. La vita a bordo delle navi da guerra (erano navi molto avanzate, tecnologicamente) aveva aperto una finestra su un mondo che non conoscevo, che era appunto il mondo della tecnologia avanzata. E forse quello mi ha aiutato, in questi primi anni del ritorno da questa terribile esperienza, a prendere dei contatti diversi da quelli che avevo avuto.
...il mondo della produzione degli oggetti della casa e dei mobili è un mondo che si è immediatamente aperto ai nostri interessi, con alternative e un'articolazione inattesa. Quindi, occuparsi di quelle che sono state le cose della casa (era un tema molto attuale in quel momento) voleva dire occuparsi di argomenti, come dicevo prima, per noi ignoti. Quindi ci sono state le esperienze dei mobili più elementari. La sedia, poi anche la cucina, i frigoriferi, le attrezzature di integrazione alle lavorazioni domestiche hanno allargato non tanto la tematica in quanto tale, che naturalmente era sempre un tema da noi ignorato, ma proprio l'entrare in un mondo, in una zona di interessi, di relazioni e di connessioni che era molto più ricca di quanto non si potesse immaginare. era proprio come aprire una finestra e accorgerti che il mondo è ampio e interessante. Questa è stata l'esperienza delle riviste. Affiancato a questa è cominciato proprio il lavoro del cosiddetto disegno industriale, di industrial design. Termine peraltro poco conosciuto, poco usato in Italia. L'abbiamo poi tradotto con disegno industriale che significa una cosa completamente diversa. ...Le due riviste, sia Casabella che Domus, sono riviste che avevano una posizione totalmente riferita al mondo degli architetti, quindi avevano ancora quel vincolo, non dico accademico, ma di questo mondo attorno all'architettura...
...E in questa fase devo dire che una certa esperienza, che non è specificamente architettonica, ma che fa parte dell'architettura, è stata la partecipazione, la direzione e la operazione diretta con la triennale, che è stato il luogo dove esattamente noi abbiamo ritessuto dei collegamenti della nostra cultura internazionale.
Mi ricordo di aver fatto una gara di valzer con Gropius, per esempio, in un'osteria qui vicino alla triennale. Sono andato lì in un intervallo per la colazione. Una gara di valzer con Walter Gropius. Non dico chi l'ha vinta per pudore.
Per dire che la confidenza con questi uomini, con questi maestri effettivamente... erano per noi proprio dei veri maestri fisicamente. Avevamo un rapporto molto diretto con loro.
Mies Van der Rohe, per esempio. Sono andato a trovarlo a Chicago. È stato tutto il tempo a spiegarmi tutti i suoi "progettini", i suoi "disegnini". Era un'internazionale molto ristretta di 15 o 20 architetti che si vedevano ogni tanto, che stavano bene assieme. Stavano bene insieme con i pittori, con gli scultori, con i poeti.
La vita degli architetti non era una vita solamente tra gli architetti. Ma tra gli architetti e le arti figurative in genere e poi tutta la gente di cultura. Noi abbiamo bisogno di uno scambio interdisciplinare molto alimentato perché ci dobbiamo occupare un po' di tutto...
...io sostengo la mia formazione razionalista e non scappo più da lì. il che non vuol dire quello che è stato detto molto a proposito del razionalismo, ossia che sia una limitazione. È un po' come dire che è la limitazione dell'illuminismo o della rivoluzione francese. È proprio una formazione culturale che ti mette davanti ai problemi in una certa maniera. E credo che sia anche inopportuno, inutile e anche un po' gratuito confrontare il razionalismo con il post moderno, perché sono due cose che possono stare benissimo assieme, quando sono usate per quello che sono. Devono essere collocate in un processo progettuale in una maniera rispondente e soprattutto approfondita e allargata alla dimensione della tematica che si deve affrontare. qui entriamo in un discorso che, poi, non si finisce più...
...quello che devo riconoscere è che effettivamente la cosa che mi ha sempre molto interessato è di cambiare il mio metodo. Cioè occuparmi una volta di un oggetto, una volta di un altro, perché credo di trovare sempre un interesse nella diversità del tema da affrontare. Il che deve essere fatto libero nella forma, ma rispettoso dei principi, appunto, del razionalismo, della formazione culturale che ho avuto.
...questo mi pare che potrebbe essere il riassunto del concetto per far capire ai giovani ciò che ho insegnato per vent'anni al Politecnico. L'unica cosa che mi è sembrato di poter insegnare è proprio questo. Una maniera semmai è scegliere le cose che ti interessano, approfondire quelle e, allora, lavorare non è più una nostra condizione. È una gioia sempre.
...Olivetti è il personaggio più importante, come figura di committente, che ho incontrato nella mia vita di progettista. adesso non faccio più distinzione tra design o architettura. Il rapporto con lui è diventato prestissimo un rapporto personale, proprio di scambio della sperimentazione progettuale. È piombato nel mio studio che allora era abbastanza povero - era una stanza - e, dopo poche parole di approfondimento generale, ci conoscevamo già.
Mi ha detto che aveva intenzione di affidarmi l'incarico della nuova fabbrica Olivetti in Argentina. Siamo ancora ai tempi in cui io ero da poco tornato dalla guerra, quindi era molto emozionante una cosa di questo genere. E poi mi dava subito la dimensione della persona. Cioè la dimensione della persona che non va a cercare delle garanzie di tipo burocratico. Sceglie una persona e rischia quello che deve rischiare. Con me rischiava moltissimo perché io, in pratica, non avevo mai fatto niente. E lì è nata questa esperienza che prima è stata in Argentina e poi la fabbrica di San Paolo del Brasile. Devo dire che - uno può dire che è un caso - ma parlando della fabbrica in Brasile mi viene in mente un rapporto con alcuni problemi che sono nati da questa continuità spaziale e superficiale, come per gli elementi che costituiscono questo sedile, questa sedia (contrariamente a quella che è la tradizione della sedia, che è fatta di elementi a bacchetta che ad un certo punto si inseriscono uno nell'altro) tenta il problema di utilizzare un materiale che sia unico e che sia continuo. Allora, appunto, una interpretazione della superficie in lamiera, lavorata come si lavorano gli oggetti in lamiera industrializzati, che ad un certo punto pone specificatamente questo problema del passaggio dalla verticale all'orizzontale con la massima sollecitazione in questo punto qua, che - guarda caso - trova lo stesso problema strutturale nel passaggio dalla verticale all'orizzontale che era il tema che dovevo affrontare passando dal pilastro di appoggio con le coperture a volta che avevo adottato in questa fabbrica per delle ragioni di carattere climatico. Tematica simile che doveva essere però affrontata con materiali completamente diversi, ridotta a una struttura laminare portata a delle dimensioni molto poco consistenti per giunta.
È stata un'esperienza molto pesante, dove un uomo come Olivetti ti segue, data una situazione di questo genere, anche se questo voleva dire costruire un pezzo di fabbrica in Italia, demolirlo per vedere i limiti di resistenza e per poter poi ottenere dei risultati. Insomma, una persona che effettivamente davanti a un problema di progettazione si poneva come davanti a un problema di carattere culturale, finalizzato ad una produzione di carattere pratico.
...Non esiste il confine tra artigianato e design. quello che noi facciamo sul modello, che poi sarà riprodotto 50.000 volte, è una attività in cui portiamo tutta la nostra esperienza, sia artigianale, sia industriale, sia disciplinare, sia accademica. Cioè, non c'è confine tra uno e l'altro. Che poi l'oggetto finito sia prodotto da una macchina, questo qui è un caso particolare che si chiama appunto produzione industriale.
Ma l'apporto sul piano creativo deriva da una serie di conoscenze e di capacità creative che si avvalgono di tutti i sistemi che non hanno confine né da parte dell'artigianato né dalla parte dell'industria. Tutto quello di cui possiamo disporre deve essere utilizzato a difendere la creatività".