Alberto Giacometti
(1901 - 1966)
Alberto Giacometti nasce il 10 ottobre del 1901 a Borgonovo in Val Bregaglia, nella Svizzera italiana, da Giovanni Giacometti, pittore postimpressionista di buon talento, e da Annetta Stampa, primo di quattro figli insieme a Diego, che ne diventerà l’inseparabile collaboratore e modello, Ottilia e Bruno. Nel 1904 la famiglia si trasferisce nel vicino paese di Stampa, dove, a 12 anni, Alberto rivela una precoce vocazione artistica, coltivata sotto la guida del padre e del pittore fauve Cuno Amiet. Fra il 1920 e il 1921 viaggia in Italia, prima a Venezia e Padova, dove si entusiasma per Tintoretto e Giotto, e in seguito a Firenze, Assisi, Roma, Napoli, Paestum, Pompei, copiando dipinti, mosaici e sculture.
Alberto Giacometti |
Alberto Giacometti |
Nel 1922 è a Parigi, dove frequenta i corsi di scultura e disegno di Antoine Bourdelle all’Académie de la Grande Chaumiére, esponendo anche le prime opere ispirate a Brancusi e, più ancora, al primitivismo dell’arte africana, egizia, messicana e cicladica, come le famose Plaques.
Ma è dopo il 1929, quando entra in contatto con Max Ernst, Joan Mirò e gli ambienti del surrealismo, che Giacometti attira l’attenzione di critici e intellettuali con un gruppo di opere di ispirazione surrealista come Boule sospendue, esposta nel 1930 alla mostra con Arp e Mirò, o come La femme egorgée e Palais à quatre heures du matin nella cui onirica visionarietà si intrecciano violenza e ambiguo erotismo.
Abbandonato nel 1935 il gruppo surrealista, Giacometti attraversa un lungo periodo di solitaria e tormentata ricerca scultorea che si conclude nel ’45, dopo la guerra - trascorsa a Ginevra insieme alla madre - con la creazione delle prime figure esili e allungate, sigla stilistica della sua opera più matura, esposte per la prima volta nel 1948 in un’importante mostra alla Pierre Matisse Gallery, accompagnata da un catalogo con il saggio di Jean Paul Sartre, La ricerca dell’assoluto, che fa dell’opera di Giacometti l’espressione artistica più genuina dell’esistenzialismo.
Ma è il grande collezionista e mercante d’arte Aimé Maeght, che più di ogni altro ne farà conoscere l’opera nel corso degli anni ’50, quando Giacometti avvia una profonda e sofferta riconsiderazione critica dei modi della sua percezione visiva, raggiungendo una forza espressiva sempre più intensa e coinvolgente. In questi anni diviene un artista unico nel panorama internazionale, grazie alle sue sculture - come le Femmes de Venise, esposte alla Biennale di Venezia del ’56 - , ai suoi ossessivi ritratti pittorici - come quelli di Isaku Yanaihara - sempre più monocromatici , e ai suoi busti sempre più tormentati del fratello Diego, della moglie Annette, sposata nel ’49, di Caroline, la prostituta che ne diventa modella e amante, di Elie Lotar. Nasce in questi stessi anni, su impulso dell’amico ed editore Tériade, la serie delle 150 litografie di Paris sans fin, il libro pubblicato postumo nel 1969. La sua fama è ormai altissima quando nel 1964 nasce in Svizzera, fra grandi polemiche, la Fondazione Alberto Giacometti, dopo che anche Maeght aveva creato una propria Fondazione a Saint Paul de Vence in cui aveva riunito le opere dell’artista. E mentre si moltiplicano nel mondo le retrospettive dedicate alla sua opera, la sua salute comincia ad aggravarsi: nel ‘63 era stato operato a Parigi per un cancro allo stomaco.
In questi stessi anni si erano fatti più intensi anche i rapporti di Alberto Giacometti con gli ambienti intellettuali e della critica d’arte milanesi, avviati fin dal ’57 grazie all’amicizia con lo scultore valtellinese Mario Negri e col medico e collezionista d’arte chiavennasco Serafino Corbetta. Ma Giacometti non riuscirà a vedere del tutto realizzati i progetti editoriali sulla sua opera avviati allora nell’ambiente milanese. Stremato dall’estenuante tour delle sue numerose mostre aperte nel mondo, alla fine del ’65 Giacometti lascia il suo studio parigino e decide di ricoverarsi all’ospedale di Coira, dove muore l’11 gennaio 1966 per un attacco cardiaco. E’ sepolto nel cimitero di Borgonovo-Stampa, in Val Bregaglia, accanto ai suoi familiari.
GIACOMETTI E L'ITALIA
Testo di Casimiro Di Crescenzo
Alberto Giacometti rimase sempre legato alla sua valle natale, la Val Bregaglia, nel sud-est della Svizzera, dove nacque il 10 ottobre 1901. Fin dal lontano 1922, anno in cui per la prima volta arrivò a Parigi, l'artista prese l'abitudine di tornare più volte durante l'anno a Stampa presso i genitori e, dalla morte del padre nel 1933, presso la madre Annetta. Giacometti dimostrò questo legame verso la figura materna e la valle natale in una maniera più profonda e complessa rispetto all'atteggiamento del fratello Diego, con cui condivideva la vita a Parigi, o del fratello Bruno che aveva scelto Zurigo come città dove svolgere la propria carriera d'architetto.
L'asse Parigi-Stampa ha, dunque, dominato l'esistenza di Giacometti e due modelli di vita si sono alternati: alla solidità e al conforto della casa di Stampa si contrappone la costruzione cadente e l'esiguo spazio dell'atelier al 46 di rue Hippolyte-Maindron. La vita bohemienne e disordinata condotta a Montparnasse è annullata completamente dalle regole certe e dagli orari imposti dall'energica madre. Sembra che la casa di Stampa sia il porto sicuro dove rifugiarsi. D'altronde non si può capire pienamente l'arte di Giacometti senza aver conosciuto il paesaggio della Val Bregaglia, il profilo tagliente delle sue montagne, la luce che la invade d'estate e l'ombra che la ricopre da novembre a febbraio. Bisogna sempre tornare in Bregaglia, ripartire da questo punto se si vuole avanzare nella conoscenza Quando si parla della Val Bregaglia è inevitabile parlare dell'Italia. Questa piccola valle, che politicamente ed economicamente guarda a nord, si apre geograficamente e culturalmente verso il sud. L'italiano è la lingua parlata nella valle e strette relazioni si sono sviluppate nei secoli. Tuttavia la fede protestante professata dagli abitanti è una prova della sua indipendenza storica.
[…]
La vita a Stampa scorreva felice sotto le cure amorevoli della madre e l'attività di pittore del padre. Giovanni adattò a studio il fienile accanto alla casa; i figli vi avevano libero accesso e, inoltre, la sua ricca biblioteca era a loro disposizione. Alberto dimostrò ben presto di possedere doti artistiche e i suoi primi tentativi furono accolti con naturalezza. I suoi genitori trovarono del tutto normale questa volontà di esprimersi col disegno e l’incoraggiarono senza cercare né di indirizzare, né di reprimere la sua vocazione. Giacometti sviluppò ben presto l'abitudine di copiare le riproduzioni di opere d’arte, un'abitudine che conservò per tutta la vita. Alberto era affascinato da questi volumi e ricordò spesso di aver passato in loro compagnia la maggior parte del tempo. Ognuno di questi libri rappresentavano una scoperta, un nuovo mondo che arricchiva la sua immaginazione. All'inizio furono Dürer e Rembrandt i due artisti più amati, seguiti poi da Hokusai, Leonardo, Rodin. Verso il 1914 o il 1915, un’altra grande rivelazione fu l’arte italiana, soprattutto gli artisti del Quattrocento: Pinturicchio, Gozzoli, Cosmé Tura, Signorelli, Botticelli; in seguito si appassionò all’opera di Raffaello, successivamente a quella di Seurat. Parallelamente, Giacometti scopre l'arte egizia che diventerà la sua grande passione e la cui presenza è la più costante nella sua opera.
[…]
Al contrario, il tradizionale viaggio di formazione in Italia,- prima Venezia e Padova nel maggio 1920, poi Firenze, Assisi e Roma nell'autunno del 1920 fino all'estate del 1921 – arricchì il giovane artista di una straordinaria esperienza culturale. Non più lo studio dai libri, ma l'osservazione diretta delle opere d'arte conservate nei musei e nelle chiese italiane gli ispirò le prime riflessioni artistiche.
Il viaggio a Venezia nel maggio 1920 fu compiuto in compagnia del padre, membro della Commissione Svizzera delle Arti per la Biennale. Più di trent’anni dopo, nel 1952, Alberto Giacometti scrisse un articolo su questo viaggio, dal titolo Maggio 1920, per il n. 27/28 della rivista "Verve". In quel resoconto, Giacometti non parlò della manifestazione internazionale d’arte, che contava tra i tanti appuntamenti culturali, mostre su Cézanne, Archipenko e Ferdinand Hodler, ma raccontò lo stupore incantato alla vista della città e la passione per le opere del Tintoretto. Durante il viaggio di ritorno, si fermarono a Padova per visitare la Cappella degli Scrovegni. La forza degli affreschi di Giotto rese debole tutto quello che amava e aveva cercato in Tintoretto. Tuttavia, la sera stessa, la vista casuale di tre ragazze a passeggio scatenò un'imprevedibile reazione emotiva e fece crollare ancora una volta le convinzioni appena acquisite. Bisogna sottolineare che l'emergere di una percezione allucinatoria della realtà sarà una delle componenti fondamentali dell'arte del suo periodo più maturo.
[…]
Una forte volontà di apprendere caratterizzò i suoi primi anni a Parigi, decisivi per la sua maturazione artistica. Da una parte Giacometti era insoddisfatto dell’insegnamento dell’Accademia, ma dall’altra era consapevole di essere in ritardo se si poneva a confronto con l’evoluzione artistica più attuale. Era cosciente dei limiti del metodo tradizionale di scultura ma quello era l’unico che conosceva e non era ancora in grado di svilupparne uno nuovo. Questo senso di incertezza e di insoddisfazione generale provocheranno la crisi del 1925. Tuttavia, in maniera progressiva, Giacometti fu capace di liberarsi della tradizione classica per adottare un linguaggio inventato dalle avanguardie parigine ed ispirato alle opere d'arte africane, cicladiche, oceaniche e messicane.
A Parigi, tra il 1927 e il 1929, Giacometti si unì al gruppo di artisti italiani e svizzero-italiani fondato da Mario Tozzi con l'intento di promuovere la conoscenza dell'arte moderna italiana a Parigi. Più tardi, Eugenio D'Ors conierà per questo gruppo la definizione di Gruppo dei Sette. All'interno di questo sodalizio, Giacometti stabilì legami più stretti con Sergio Brignoni, Mario Tozzi e Massimo Campigli, con i quali espose ripetutamente. Queste furono le sole mostre a Parigi insieme alle opportunità offertigli da Bourdelle che lo invitò ad esporre al Salon des Tuileries negli anni 1925-27. Nell'estate del 1927 partecipò insieme a Campigli al Salon de l'Escalier presentando sia lavori post-cubisti sia teste tradizionali. L'anno successivo, nella stessa sede, partecipò alla prima mostra degli artisti italiani che vivevano e lavoravano a Parigi: sotto il titolo Les artistes italiens de Paris erano riuniti Brignoni, Campigli, de Pisis, Fornari, Giacometti, Licini, Martinelli, Menzio, Paresce, Pozzati, Ronchi, Severini e Tozzi, che era anche il commissario della mostra. Sempre nel 1928, Giacometti insieme a Campigli e Brignoni, partecipò con due sculture al 39° Salon des Indépendants che si svolse al Grand Palais. Nell'aprile del 1929 Giacometti era l'unico scultore presente alla mostra Un groupe d'Italiens de Paris svoltasi alla Galleria Zak. I pittori erano Brignoni, Campigli, De Chirico, de Pisis, Paresce, Savinio, Severini e Tozzi. Nel 1930 Giacometti espose anche alla Jeune Europe, una piccola libreria-galleria d'arte di Montparnasse fondata da Aniante, un giornalista protetto da Italo Balbo, arrivato a Parigi come corrispondente della "Stampa". Nel gennaio del 1932, quando aveva già da tempo aderito al movimento surrealista, Giacometti partecipò alla mostra collettiva La nouvelle Génération svoltasi alla Galleria Bonjean al 34 di rue La Boetie, Parigi. Trentaquattro sono gli artisti partecipanti tra cui Berman, Campigli, de Pisis, Dalí, Delvaux, Giacometti, Miró, Tozzi e Zack. Considerando le poche amicizie intrattenute da Giacometti in questi anni, l'unione con gli artisti italiani, sebbene di breve durata e meno feconda comparata all'esperienza surrealista, non è fortuita e non deve essere sottovalutata. Rappresenta, infatti, la fase finale di arricchimento culturale nell'ambiente artistico parigino; il suo apprendistato presso le avanguardie sta per terminare.
Il successo a Parigi, arrivò inaspettato nel giugno del 1929. In questa data Jeanne Bucher, mercante d'arte che godeva di una buona reputazione, aveva programmato una mostra di opere di Campigli. Sembra molto probabile che sia stato l'artista italiano ad aver presentato Giacometti alla gallerista e ad aver acconsentito che due sue opere fossero esposte durante la sua mostra. Infatti sia il calendario delle mostre sia il registro della Galleria menzionano solo il nome di Campigli e non quello di Giacometti, la cui firma appare solo nel libro d'oro tra i visitatori. Testa che osserva.del 1927, uno dei due lavori esposti, fu acquistata dal Visconte de Noailles, famoso collezionista e generoso mecenate dei surrealisti. L'acquisto non passò inosservato e rapidamente l'attenzione si portò su Giacometti. Cocteau ne scrisse sul suo diario, Masson lo conobbe e lo presentò ai Surrealisti dissidenti, Pierre Loeb gli offrì un contratto della durata di un anno, Michel Leris pubblicò su "Documents" il primo articolo interamente dedicato all'artista. Giacometti era diventato famoso.
Dal 1930 fino al dicembre 1934 Giacometti fece parte del movimento surrealista, di cui fu subito un elemento di spicco. Giacometti era attratto dal Surrealismo che considerava il movimento più interessante della sua epoca: molti erano i punti in comune, lo spirito rivoluzionario, la negazione dei valori borghesi, l'importanza data all'inconscio, i temi legati alla sessualità e all'erotismo. La sua scultura Boule suspendue, esposta nel 1930, inaugurò la serie surrealista di "oggetti a funzionamento simbolico". Giacometti creò numerose sculture innovative dal punto di vista formale, eliminando non solo la distinzione tra base e scultura, ma anche la verticalità dell'opera. Molte sue opere sono degli psicodrammi che richiedono la partecipazione attiva dello spettatore. Nelle opere surrealiste Giacometti riuscì ad elaborare nuove, rivoluzionarie forme che lo posero all'avanguardia, attingendo a tutte le esperienze artistiche da lui studiate ed osservate con attenzione.
[…]
L'incontro a Parigi con Peggy Guggenheim servirà a riannodare il rapporto con l'Italia nel dopoguerra e avrà un'importanza fondamentale per la carriera artistica di Giacometti, soprattutto in relazione al suo invito alla Biennale del 1950. Sei sono le opere di Giacometti presenti nella straordinaria collezione della ricca ereditiera americana, un numero importante che rende Giacometti tra gli artisti meglio rappresentati al suo interno. Peggy Guggenheim, incurante della "drôle de guerre", incontrò l'artista a Parigi nel 1940 dove si era recata per acquistare opere d'arte per il suo progetto di Museo d'Arte Moderna a Londra. Il precipitare degli eventi bellici le impedirono di realizzare questo suo progetto e dopo aver abbandonato Parigi, per rifugiarsi a Grenoble, riuscì a lasciare la Francia e a raggiungere nel luglio del 1941 New York, finalmente al sicuro insieme alla sua collezione.
[…]
Una volta a New York, cercò un posto per esporre in maniera permanente la sua collezione e per promuovere l'arte moderna. Nel 1942, affittò uno spazio all'ultimo piano di un edificio al 30 West della 57ema strada e commissionò all'architetto Frederick Kiesler l'allestimento delle sale. Nell'ottobre del 1942, la galleria-museo fu aperta col nome Art of This Century. In breve tempo, il geniale allestimento di Kiesler, le opere esposte e le mostre in programma resero la galleria un punto di riferimento essenziale nella scena artistica di New York. Nella mostra inaugurale Art of this Century, Objects - Drawings - Photographs - Paintings - Sculpture - Collages 1910 to 1942, erano presenti anche le tre opere di Giacometti di sua proprietà. Nel catalogo, a cura di Peggy Guggenheim, furono riprodotte Projet pour une place e Femme egorgée. Nella breve nota biografica, Peggy non si trattenne dal ribadire i suoi gusti personali sull'opera dell'artista: si può leggere, infatti, la frase "Surrealista tra il 1929 e il 1936. Da allora interessato ad una ricerca di natura indefinita".
Nel 1945 Peggy Guggenheim organizzò all'Art of This Century Gallery una mostra di sculture surrealiste di Alberto Giacometti. Questa esposizione era la prima dal maggio 1932, quando l'artista aveva esposto a Parigi alla Galleria Pierre Colle e la seconda mostra personale negli Stati Uniti; nel dicembre del 1943 si era tenuta la mostra Abstract Sculpture by Alberto Giacometti alla Julien Levy Gallery di New York. All'Art of This Century Gallery erano esposte nove opere dal 1931 al 1935. Oltre alle sculture della sua collezione personale, erano in mostra Palazzo alle quattro del mattino, 1932 prestato dal Museum of Modern Art, On ne joue plus, un marmo del 1932 di proprietà del mercante Julien Levy, il gesso di Oggetto invisibile che apparteneva al pittore Matta, la versione in legno di Oggetto sgradevole, 1931 della collezione di James J. Sweeney, ma indicato come prestito anonimo, e altre due opere di proprietà di Philip Johnson e di Ann Resor. Il catalogo conteneva brevi citazioni di André Breton, Julien Levy e Georges Hugnet e un estratto del testo Charbon d'herbe scritto dall'artista nel 1933.
[…]
Nel dicembre del 1948, Peggy Guggenheim acquistò Palazzo Venier dei Leoni, un edificio incompiuto lungo il Canal Grande, che diventerà la sua casa definitiva e il luogo privilegiato dove esporre la sua collezione. Nel settembre del 1949 organizzò nel giardino del Palazzo la Mostra di Scultura contemporanea. In quest'occasione, di Giacometti, oltre a Femme egorgée e a Femme qui marche, era esposto il bronzo Place, il suo acquisto più recente.
La XXV Biennale di Venezia del 1950 riveste una importanza particolare nella carriera artistica di Giacometti in quanto fu invitato a partecipare nella duplice veste di artista e di commissario per una mostra, il cui progetto iniziale prevedeva un'analisi della Scultura astratta, e che invece alla fine si intitolerà Scultori d'oggi.. Di questa sua presenza non è restata traccia in quanto, come vedremo, ritirò le opere il giorno dell'inaugurazione, per solidarietà con Henri Laurens. Tuttavia è interessante ricostruire tutti gli avvenimenti legati a questa edizione che coincidono con il periodo di più felice attività creativa dell'artista. La Biennale di Venezia del 1950, la cui organizzazione fu affidata alla stessa Commissione dell'edizione precedente, si svolse nel segno della continuità del programma culturale e storico iniziato nel 1948. Le sedute per definire il programma si svolsero a Venezia nel settembre, ottobre, novembre 1949 e nel gennaio 1950. Già nella prima riunione, avvenuta il 16 e 17 settembre 1949, vi fu l'accordo a continuare l'esperienza delle grandi mostre partendo dal successo della mostra dell'Impressionismo
[…]
La sua seconda partecipazione alla Biennale avvenne nel 1956. Giacometti aveva rifiutato cortesemente l'invito di Umbro Apollonio a partecipare alla XXVIII Edizione con una personale che mostrasse l'insieme della sua attività, concentrandosi sulle opere più recenti, senza escludere, se ritenute necessarie, quelle più antiche. Aveva, invece accettato di esporre nel Padiglione francese il cui commissario era Raymond Cogniat. Contemporaneamente aveva dato il suo assenso alla grande retrospettiva di sue opere organizzata da Franz Meyer alla Kunsthalle di Berna.
Il gruppo più importante di opere creato in vista della sua partecipazione alla Biennale è una serie di figure, eseguite da memorie e senza modello, ispirate al tema della Donna in piedi, conosciute da allora col nome di Femme de Venise. Nella realizzazione di queste figure, Giacometti adottò il procedimento di lavorare ininterrottamente la stessa creta. Questo materiale duttile gli permetteva di continuare il proprio lavoro, indipendentemete dalle sedute di pose. Le Femmes de Venise sono, quindi, stadi diversi di una singola scultura modellata con la creta. Quando Giacometti si riteneva soddisfatto della figura creata, chiedeva al fratello Diego di eseguirne un calco in gesso, poi continuava a lavorare la creta, formando una nuova figura e così via. In questo modo l'artista arrivò a crearne quindici. Successivamente, da questo gruppo iniziale ne furono scelte nove per essere fuse in bronzo e la loro numerazione non riflette la sequenza cronologica della loro esecuzione. Elliott ha notato che spesso si è scritto che cinque di queste figure furono esposte a Berna e dieci a Venezia, poiché il catalogo della Kunsthalle menziona Figures 1-V e quello della Biennale due gruppi di gessi, Quattro Figure e Sei Figure. Tuttavia, osservando le fotografie delle installazioni è chiaro che uno dei cinque lavori esposti a Berna sia una versione di Donna in piedi (Donna Leoni),
opera del 1947. Mentre alla Biennale sei di queste sculture furono mostrate insieme su una larga base e una settima, invece, isolata. Le Quattro Figure riunite insieme su una base, sono opere di dimensioni molto più piccole e, quindi, non in relazione con questa serie di figure femminili.
Lo studio dei registri conservati all'Asac non aiuta ad individuare le opere in quanto Giacometti portò a Venezia più sculture di quante effettivamente esposte; questo spiega le imprecisioni del catalogo e i titoli inesatti. Osservando le fotografie della sale, si possono riconoscere, tra le figure esposte insieme, quelle che saranno nominate Femme de Venise I, II, IV, V, VII; mentre quella isolata sembra essere Femme de Venise VI. Tra quelle esposte a Berna si possono identificare la Femme de Venise III e IX. Al centro della sala fu collocata il gesso di Donna in piedi del 1949, una delle sue figure femminili più sottili ed allungate che differisce in modo sostanziale dalla verticalità delle Femme de Venise dove i grossi seni e i larghi fianchi marcano fortemente la loro sessualità. Tre busti di Diego - Piccolo busto su base (Amenophis), 1954 (cat. 2), Grande testa di Diego, 1954 e Busto di Diego, 1955 - posti ai lati della sala testimoniano il lavoro realizzato da Giacometti negli anni immediatamenti precedenti. A completare la mostra vi sono cinque, piccole figure femminili, quattro delle quali esposte insieme ed una da sola, Nudo in piedi, 1956 (cat. 3). Queste ultime opere furono portate a Venezia, al di fuori dell'invio ufficiale, direttamente dall'artista con l'accordo di Raymond Cogniat, commissario della mostra.
La partecipazione alla Biennale del 1962 con il conferimento del Gran Premio per la scultura rappresentò la consacrazione ufficiale di Giacometti.
Giacometti aveva intuito la volontà della Biennale di conferirgli un premio e, consapevole dell'importanza internazionale di tale riconoscimento, desiderava riceverlo per la totalità della sua opera, sia scultorea, sia pittorica. Il carteggio epistolare tra l'allora segretario generale, il prof. Gian Alberto Dell'Acqua, e l'artista svela la cura attenta di Giacometti nella preparazione della mostra. Il 19 ottobre 1961 era a Venezia per un primo sopralluogo delle sale espositive a cui seguiranno vari incontri a Milano per definire la lista dei prestiti. Oltre alle opere di sua proprietà, Giacometti domandò la collaborazione dei suoi due mercanti, Pierre Matisse a New York e Adrian Maeght a Parigi per far arrivare a Venezia le opere che desiderava. Altre richieste furono spedite al Museo di Arte Moderna di New York, alla Tate Gallery di Londra, a diversi collezionisti sia americani sia europei, a Emilio Tazzoli della Galleria Galatea, a Serafino Corbetta. Sua figlia Anna Maria Pucci ricorda ancora il pavimento del salotto di casa cosparso di disegni portati da Giacometti, e suo padre e l'artista intenti a sceglierne i migliori per la mostra.
[…]
Le aspettative di Giacometti non saranno deluse. Riceverà dalle mani del Presidente della Repubblica, Gronchi il Premio per la Scultura; onore che gli aprì le porte della fama internazionale. Un cerchio si era concluso: nello stesso luogo che lo vedeva acclamare come uno dei grandi Maestri del Novecento, Giacometti, in compagnia del padre, aveva visitato nel lontano 1920, le mostre di Cézanne, Hodler e Archipenko. Il successo ottenuto non cambiò le sue abitudini e il suo modo di lavorare, anche se, inevitabilmente, provocò ulteriori, importanti inviti ad esporre. Dopo la parentesi provocata dalla scoperta del tumore all'intestino e la successiva operazione, Giacometti continuò la sua vita tra Parigi e Stampa, con le abituali soste a Milano. In una delle ultime visite, volle assolutamente rivedere La Pietà Rondanini, ultima opera di Michelangelo, osservandola a lungo in silenzio. Ed è con questa immagine che desideriamo concludere il capitolo italiano di Giacometti.